martedì 27 giugno 2017

SULLA STAMPA DI MARTEDI 27 GIUGNO:


il manifesto 27.6.16
Landini lascia la Fiom ed entra nella segreteria Cgil
La notizia era già data per scontata, ma adesso è ufficiale. Maurizio Landini lascia la Fiom e passa alla Cgil come segretario confederale.
Ieri è stata la stessa segretaria Susanna Camusso a fare la proposta alla Direzione della Fiom.
A ratificare il passaggio sarà l’Assemblea generale della Cgil il 10 e 11 luglio che voterà sull’allargamento della segreteria: il board passerà da otto a nove componenti.

il manifesto 27.6.17
Corbyn: «Entro sei mesi diventerò premier»
Labour. Il leader cavalca il successo, dopo il bagno di folla al festival di Glastonbury e il sondaggio di YouGov che lo dà preferito a May per il ruolo di primo ministro
di Leonardo Clausi
qui

LONDRA «Non è nell’interesse nazionale, ma solo nell’interesse del partito di Theresa May di aiutarla a restare aggrappata al potere». Così Jeremy Corbyn ha seppellito l’accordo fra May e il Dup nordirlandese per un governo di minoranza capace di sostenere l’immane pressione della negoziazione per la British Exit e pattuito su un miliardo di sterline destinate a Belfast. E ha aggiunto: «L’austerità ha fallito. I tagli a fondamentali servizi pubblici devono essere bloccati in tutto il Regno Unito, non solo in Irlanda del Nord».
IL LEADER LABURISTA, trionfatore morale di elezioni politiche tra le più scombussolanti mai conosciute dalla Gran Bretagna, è reduce dal battesimo spettacolare di Glastonbury, dove ha citato Shelley davanti a moltitudini di estatici giovani lower/upper middle class (un biglietto per il festival costa circa 300 euro) in una performance assai più trascinante di quella del parrocchiale Ed Sheeran, che ha concluso un festival bagnato una volta tanto di sole.
DURANTE LA VISITA, Corbyn si è lasciato sfuggire con Michael Eavis, il proprietario sulla cui tenuta il festival si svolge dal 1970, che entro sei mesi sarà diventato primo ministro, oltre alla controversa – perché contraria alla posizione ufficiale del partito – intenzione di eliminare il progetto di sottomarini nucleari Trident. Se c’è qualcosa che potrebbe dare uno straccio di stabilità a questo governo è proprio l’avversione del Dup nei confronti dello stesso Corbyn per via delle sue posizioni storiche sui troubles.
QUELLA DEL REPUBBLICANO Corbyn primo ministro di Sua (lesa) maestà è una possibilità che fino a qualche settimana fa appariva impossibile. Ma l’ultimo sondaggio YouGov pubblicato dal Sunday Times ha confermato il sorpasso stupefacente del segretario laburista su Theresa May nell’idoneità a fare da guida al Paese: un contesto in cui la superiorità schiacciante della leader Tory l’aveva sospinta verso l’orrido delle politiche anticipate. Dopo la tragedia di Grenfell non solo il Labour è avanti di cinque punti sui Tories, con il 45%: secondo lo stesso campione di 5000 persone, l’indice di gradimento di May è a -17 punti, mentre quello di Corbyn a +17.
È IN ASSOLUTO LUI, con la sua mite determinazione a cogliere l’irripetibile occasione storica che si prospetta a una forza di sinistra europea capace di rinnovarsi dall’interno, il protagonista di quest’ultimo anno di turbolenza politica. Dodici mesi in cui gli ultimi due leader conservatori hanno rispettivamente assestato il colpo mortale della Brexit e della snap election a quella stabilità che faceva del Paese modello ultimo dalla stampa borghese: l’«interesse nazionale», appunto.

Il Fatto 27.6.17
Un testo inedito
Il tempo “perso” di Ingrao
di Pietro Ingrao

Pubblichiamo uno stralcio de “Il valore della contemplazione” di Pietro Ingrao, un testo nato in occasione di uno degli Incontri all’Eremo di Adriana Zarri. Il volume sarà in libreria per Castelvecchi dal 30 giugno.
Proprio riflettendo sulla forza prorompente del fare è sorta dentro di me una domanda sul non fare, sul diverso dal fare, che è diventata sempre più urgente. Una domanda anzitutto sui tempi del lavoro, ma che non mira a una rivendicazione del riposo e dello spazio riservato ad altre esperienze umane – rivendicazione che peraltro è già stata compiuta. È piuttosto una riflessione sui diritti del fare, sull’esperienza del tempo che si compie in esso e nelle sue scansioni. Così è maturata in me una rivalutazione della lentezza, quasi un elogio, oserei dire.
Ho smesso di considerare la lentezza sempre in maniera negativa e ho cominciato a riflettere su come essa possa iscriversi in una visione più complessa e più sfumata dell’esperienza umana. Lentezza intesa come gironzolare, sostare, procedere esitando, considerati non più come disvalori, come segni di fannullaggine, come perdite di tempo – espressioni che oggi invece usiamo tanto spesso. Lentezza che diventa sempre più occasione di scoprire diverse forme di temporalità, conoscenze che altrimenti, nell’agitazione, non possono essere visibili. La lentezza che insomma si riempie: non più ritardo, ma possibilità di sviluppare esperienze che altrimenti andrebbero perdute. Dunque vagare, esitare, muoversi lentamente, non come fatto negativo, ma come sperimentazione di spazi ricchi di vita, quasi un accostarsi più aperto alle cose, un indugio che schiude sentieri, vie, luoghi altrimenti inaccessibili. Non più soltanto, allora, la classica rivendicazione operaia del tempo libero, ma la nuova rivendicazione di momenti che possano contenere una modulazione più ricca dell’esperire. […]
Io nutro ancora una speranza, la mia unica speranza, senza la quale sarei veramente disperato: che le cose possano cambiare. Nel corso della mia lunga vita ho ricevuto tanto dagli altri, ben più di quanto meritassi, per cui non ho una visione funerea dell’attuale società. Credo però che effettivamente si sia aperta una grande questione, che si prospetti un grave pericolo. Io sono vissuto tutta una vita nella lotta per la tutela e la salvezza del lavoro, di quel grande fatto umano che è il lavoro. Fin da bambino ho imparato che il valore dell’esistenza era inscindibilmente legato al lavoro. Sono del resto due secoli che si parla di espressione della propria identità nel lavoro: è un concetto che accomuna capitalisti e comunisti. Anche nella cristologia si possono trovare visioni simili.
Ora, tuttavia – lo ripeto –, sento sorgere un dubbio su questa scala di valori, che in passato ritenevo tanto assoluta. Un evento fondamentale è stato per me lo sviluppo della macchina, prodotto dell’industria moderna. Chi verrà dopo di noi scriverà che nel XX secolo le macchine hanno straripato, si sono diffuse inondando il mondo, a seguito di una rivoluzione sconvolgente che ha posto al suo centro l’atto meccanico del produrre. Io sono stato addentro a questa logica e ho combattuto questa battaglia. Ora, però, temo che tutti dormano, che si siano dimenticati momenti ulteriori dell’esperienza umana, che ritengo invece essenziali al pari del lavoro. Ciò significa che è necessario un grande passo in avanti. Non basta più chiedere una ulteriore settimana di vacanza, bisogna invece spostare l’intero asse dei valori. Non bisogna più avere soltanto la scala del reddito medio o minimo, oppure del tempo con cui si produce qualcosa. Mi spavento quando sento il poco valore assegnato alla “perdita di tempo”, quando vedo l’inganno che rappresenta l’espressione stessa: “perdita di tempo”. Allo stesso modo mi spaventa il disprezzo verso il notturno, verso quel che è l’io, che a me pare una soglia e che è in fondo l’aprirsi di un’altra sfera, il liberarsi di qualcosa di sé, inteso però anche nel suo senso più preciso e letterale, come disse Freud.
Mi spaventa una società che non se ne cura, che lo manda al diavolo se la macchina ha bisogno di lavorare durante la notte. Al diavolo però vanno non solo le ore che si perdono, poiché non si tratta soltanto di quantità di tempo: è la qualità di quel tempo a essere perduta. Si perdono l’inoltrarsi nel sogno, il vagabondare, il contemplare. Di nuovo, il contemplare. Come ho detto, sono ateo, ma credo che l’esperienza dei cristiani sia importante per comprendere meglio questa dimensione. Cosa guardano, ad esempio, tutti i grandi mistici della storia cristiana? Cosa fissano?
Per me contemplare è una parola multipla, polisensa. Qual è il suo reale significato? Guardare l’oltre? Rispecchiare? È o non è un elemento attivo? È solo rispecchiamento dell’oltre o è anche un’attività? E di che tipo, allora? Ho citato la bella espressione di Leopardi, “sedendo e mirando”, il cui fascino si vive grazie alla cadenza del verso. Non dice però “guardando”, bensì “mirando”. Mirare è cosa diversa dal guardare, c’è di più. Come lo raccontiamo? Come lo spieghiamo? E come lo spiegano i credenti? È poi importante anche l’utilizzo del gerundio, usato pure nel Canto notturno, che ha una sua temporalità, indica il prolungamento di questo stato.
La contemplazione è quindi una particolare forma di rapporto, di sguardo, ma è anche un modo di durare di questo sguardo. Tant’è che il pastore errante attraversa i deserti, come il monaco contempla nel cenobio.

Repubblica 27.6.17
Da sempre c’è chi crede alla divisione tra le due parti di noi. Ecco i rischi
Quant’è sottile la linea rossa che separa corpo e mente
Che rapporto esiste tra santità e anoressia?
Oppure tra neoplatonici e chirurgia estetica?
di Francesco Monticini

Nel celebre dramma “Riccardo III” di Shakespeare, il malvagio e deforme duca di Gloucester, futuro re d’Inghilterra, è descritto “spiare” la sagoma del proprio corpo al primo sole di primavera. Un’immagine che viene alla mente scorrendo il titolo dell’ultimo saggio di Massimo Cuzzolaro, “Il corpo e le sue ombre”, edito da Il Mulino: un viaggio nell’incerto e sfuggente confine fra il corpo e la sua immagine, tra l’intellettualità e la materia. Con un approccio che alla psichiatria unisce suggestioni tratte dalla filosofia, dalla letteratura, dal cinema. Il punto di partenza è etimologico e muove dalla riflessione che Husserl dedicò alla tripartizione lessicale offerta dalla lingua tedesca. Si può infatti parlare di “Körper”, vale a dire di corpo-che-ho, di corpo-macchina, presupponendo l’io come entità distinta; oppure di “Leib”, ovvero di corpo-che-sono, dove l’io coincide pienamente con il dato fisico; infine, di “Leiche”, cioè di cadavere, di corpo-morto.
La questione si fa complessa, e interessante, quando si tratta di capire di quale corpo stiamo parlando. Se infatti l’autoconsapevolezza (so che sono) è proprietà di ogni essere umano e anche di alcuni animali, si crea una moltiplicazione al livello dell’autocoscienza (so chi sono), che presuppone un possesso d’identità. Io sono il mio corpo o sono cosa altra rispetto a lui? Se si propende per la seconda soluzione, si deve necessariamente ricorrere a un concetto astratto che assomigli all’anima. Come ricordato da Cuzzolaro, non è mancato chi, agli inizi del Novecento, ha tentato di annotarne l’entità calcolando la differenza di peso di una persona al momento del trapasso (i famosi ventuno grammi).
Se non c’è coincidenza tra res cogitans e res extensa, benché collegate in una qualche ghiandola pineale di cartesiana memoria, si apre la via alla dualità. E a fenomeni di sdoppiamento. Nei primi anni del Quinto secolo della nostra era, il filosofo neoplatonico Sinesio descriveva un’esperienza di dissociazione. Intento a redarre un trattato dedicato ai sogni, l’autore racconta di essersi sentito come estraneo ed esterno a se stesso e di essersi osservato scrivere. Il suo corpo dunque, ma non il suo io, metteva in ordine quelle parole. L’individualità era nel Sinesio che stava a guardare, non in quello fisico che stava scrivendo.
Un processo psicologico simile si riscontra nella patologia dell’anoressia nervosa. Cuzzolaro cita il caso esemplare di Nadia, ragazza affidata alle cure di Pierre Janet agli inizi del secolo scorso. «Si nutriva pochissimo perché aveva una terribile paura d’ingrassare. [...] Non le dispiacevano le persone molto grasse, ma lei voleva essere sottile e pallida perché solo questo sembiante era in armonia con il suo carattere. [...] Aveva preso l’abitudine di dissimulare il suo sesso e di cercare di sembrare un giovane studente. Ma quando Janet le chiese se aveva mai desiderato di essere un uomo, rispose che avrebbe voluto essere “senza alcun sesso”, anzi, “senza alcun corpo”». È evidente lo sdoppiamento: il corpo cui alludeva Nadia era il Körperding, il corpo-oggetto. Casi di anoressia e mortificazione fisica ricorrono a ben vedere anche nelle biografie di molte sante occidentali del basso medioevo, basti pensare a Chiara da Montefalco, Caterina da Siena, poco più tardi Teresa d’Avila. Quest’ultima è ricordata per aver fatto uso di un ramoscello di ulivo per espellere tutto quello che aveva ingerito ed essere così pronta ad accogliere la comunione. D’altronde, molto spesso all’epoca l’unica via di affermazione sociale per una donna passava dalla rinuncia al proprio corpo, quello stesso corpo che, per una sorta di ironico contrappasso, sarebbe stato nei secoli idolatrato sotto forma di reliquia.
Eppure, nella Costantinopoli del XIV secolo Gregorio Palamas, strenuo difensore della preghiera mistica praticata dai monaci del monte Athos, passata alla storia con il nome di esicasmo, scriveva che «mettere l’intelletto fuori non dal pensiero del corpo, ma dal corpo stesso, [...] è il più forte degli errori greci e la radice e la fonte d’ogni opinione erronea ». Con queste parole egli intendeva recuperare la visione più propriamente cristiana del corpo, quella neotestamentaria della divinità incarnata, a discapito della speculazione neoplatonica che lo riduceva a mera tomba dell’anima.
La concezione di Körperding trova oggi una sua rinnovata applicazione nella società dei consumi. Si tende a parlare addirittura di corps-brouillon, di “corpo-bozza”, da ritoccare per mezzo di molteplici interventi di chirurgia estetica, anche in condizioni di perfetta salute. Altrettanto, negli studi neurologici si continua a cercare il “sostrato” del pensiero, delle emozioni, delle percezioni, delle patologie mentali, con il forte rischio, però, di scivolare di nuovo in una qualche forma di dualismo.
Il sospetto è che il corpo-oggetto sia figlio concettuale del corpo- morto. In altri termini, che la separazione di intelletto e materia sia stata operazione di chi desiderava ridonare la vita al cadavere. I tempi della decomposizione, in effetti, danno l’illusione che il nostro corpo sia solo un involucro e che l’io risieda altrove. Ma se è così, non possiamo forse spiegare ogni dualità, ogni forma di sdoppiamento, come una sorta di antidoto allo spavento supremo, quello della morte – definitiva e irrimediabile – dell’individuo? Un antidoto che può avere il prezzo della patologia. Se infatti riuscissimo a cogliere che è il nostro stesso corpo a perdersi nel Bello e nel Sublime, secondo la celebre Critica di Kant, non diverremmo finalmente in grado di passare dall’“afferrar-lo” all’“afferrar-ci”? Tanto più che non dovrebbe ormai turbare la concezione della nostra identità profonda come res extensa, dopo che da oltre un secolo si parla di inconscio. È auspicabile allora che il concorso di tante discipline diverse, dalla filosofia alla psichiatria, dalla letteratura alla neurologia, sulla scia di Cuzzolaro, ci aiuti a descrivere nella maniera più convincente quella labile linea di demarcazione posta fra mente e cellule, tra sinapsi e riflessione, fino al punto di dimostrare, forse, la sua inesistenza.
IL LIBRO Il corpo e le sue ombre di Massimo Cuzzolaro (Il Mulino pagg. 208, euro 20) In alto Gustav Klimt, Le tre età della donna
(1905)

il manifesto 27.6.17
La sberla e il rifiuto di votare
di Norma Rangeri
Edizione del

Un tempo i segretari del Partito democratico che perdevano le elezioni si dimettevano. Oggi invece di sconfitta in sconfitta Renzi avanza, apparentemente fiducioso, verso le prossime elezioni politiche. Forse le ultime che gli restano da perdere. Senza ammettere la sonora batosta scritta in questo 16 a 6 per il centrodestra, l’ex uomo solo al comando si accontenta della debacle subita nelle roccaforti tradizionali della sinistra.
Somiglia a due delle tre famose scimmiette: non vede, non sente, ma parla. A sproposito.
L’esito di questi ballottaggi, a parte i vincitori e i vinti, porta alla ribalta un problema più importante e preoccupante: la bassissima partecipazione al voto, ormai in caduta libera. A Genova, città simbolo delle elezioni, ha votato appena il 42% degli elettori (una conferma purtroppo). Disillusione, infelice conclusione dell’esperienza del sindaco arancione, Marco Doria, ma più in generale scarso coinvolgimento, sfiducia nei partiti e nei politici allontanano gli italiani dalle urne, facendo vincere chi riesce a tenere saldo il proprio elettorato.
Da questo punto di vista, le comunali sono all’insegna di Pirro, anche perché la crisi che taglia il welfare e impoverisce il lavoro, punisce la trincea delle amministrazioni locali che, infatti, difficilmente vedono la conferma dei sindaci uscenti.
La desertificazione elettorale, lo sciopero dell’urna riguarda tutti i partiti.
Ma la prima impressione è che riguardi soprattutto il centrosinistra. E non potrebbe essere diversamente se il pilastro dello schieramento è Renzi che negli ultimi quattro anni è diventato un collezionista di sberle elettorali.
Ha frantumato il suo stesso partito, disorientato in seguito alla sconfitta delle passate votazioni, e in particolare dalla batosta subita il 4 dicembre scorso al referendum costituzionale.
Se a questo sgretolamento interno, si aggiunge il distacco crescente tra chi governa e i cittadini – alimentato da politiche sociali dissennate e da scelte più che imbarazzanti (il salvataggio delle banche ora ci costa 17 miliardi) – c’è poco da meravigliarsi del risultato di ieri. Che non viene neppure compensato da alcuni esempi virtuosi, come a Padova, dove ha prevalso una nuova sinistra capace di raccogliere i cocci renziani, di avere gambe robuste, e di lanciare idee politiche e sociali. Bisognerebbe farne tesoro anche per i lavori in corso a livello nazionale.
Però se Sparta piange, Atene non ride.
Gli apprendisti stregoni come Grillo non sono più invincibili macchine elettorali. Anzi, ora subiscono la disillusione delle ex osannanti folle dei vaffa day. E Pizzarotti, ultra vincente a Parma, potrebbe essere interpretato come un vaffa day al contrario. In qualche caso poi i voti pentastellati del primo turno, al ballottaggio sono andati prevalentemente alla destra di Salvini, spinti dalla campagna comune contro lo ius soli.
Più in generale si può dire che nello scontro tra due litiganti, ha prevalso il terzo.
Perché il Pd e il M5S, inscenando continui e stancanti duelli rusticani, pronti a sbranarsi l’un l’altro con lo stesso linguaggio dell’antipolitica, alla fine hanno lavorato per il re di Prussia, la destra: Berlusconi, Salvini e Meloni sono più bravi di loro nell’arte del becerume politico, e sono animati da una bramosia di potere che li mette insieme quando in ballo c’è il governo delle città da conquistare.
Restano tuttavia aperte le contraddizioni dello schieramento, con Berlusconi in difficoltà per le magre percentuali raccolte rispetto a quelle della Lega che in molti comuni è riuscita a doppiare Forza Italia: nella gara populista Salvini è il primo.
L’Italia è colpita da una forte siccità distruttiva per l’ambiente e per la nostra vita. Il voto di ieri evidenzia un’altra siccità: quella politico-elettorale, che distrugge speranze, passione, partecipazione.
E forse la siccità ha asciugato per sempre le acque del centrosinistra. Una nuova sinistra che vuole costruire e fare, deve evitare che l’acqua vada sprecata e cercare di portarne sempre di più al proprio mulino.

il manifesto 27.6.17
Pd in coma, ma la sinistra non rinasce nei teatri o in una piazza romana
Sinistra. Renzi è solo un capo dalle smodate ambizioni con un’insana nostalgia di ritorno a Palazzo Chigi. Con la complicità di un non-partito che non ha dirigenti ma scudieri
di Michele Prospero

A un leader che ha perso lo scettro a Rignano ci mancava solo il vagabondare di Prodi nelle vesti del buon confessore. Il capo di un partito personale, cui viene scucito il potere proprio nel natio paese-simbolo, quando si imbatte nell’astuto confessore avverte che quello è lì per somministrare la estrema unzione. Lo stato di salute del capo non più gagliardo è malfermo da un pezzo. E starsene in piscina, in attesa del destino avverso, è un segnale in più. Si tratta di un irrimediabile disfacimento di quello che fu il corpo del leader in camicia bianca.
Ormai quasi tutte le città della Toscana sono state espugnate dalle forze nemiche. Per un capo che ha condotto le ardite scalate ostili con il supporto del comitato d’affari della piccola borghesia toscana essere scacciato da una città dopo l’altra del Granducato non è certo l’indizio di una solida volontà di rivincita. Anche gli antichi protetti nel Consip si scagliano contro i suoi colonnelli, in gesti di ribellione che sono possibili solo contro gli agenti di un potere percepito come ormai in declino. E il fumo delle braciolate non basta a tenerlo al riparo dai guai procurati dalla brama di possesso della più ristretta cerchia dell’influenza.
Dopo aver rotto con la Cgil e divorziato con il mondo del lavoro c’è poco da ricamare per rinsaldare un legame con il voto popolare.
L’altro serbatoio dell’elettorato di sinistra, quello dei professori, il Pd se lo è giocato per sempre con gli algoritmi e le simbologie del comando della buona scuola. E il vero mito fondativo della cultura politica della sinistra repubblicana, ha funzionato come collante ideale nel corso di settant’anni, cioè la costituzione come grande valore programmatico da attuare, Renzi lo ha infranto nel plebiscito del 4 dicembre.
Con i figli di una democrazia cristiana minore (Lotti, Boschi, Rosato, Bonafé, Picierno, Fioroni, Franceschini, Guerini) Renzi non riesce a colmare lo strappo simbolico con Bersani, D’Alema, Rossi, Speranza. Senza l’amalgama con quel po’ di rosso che i fuggitivi comunque garantivano, il Pd esce a pezzi, non potrà superare che a stento il 20 per cento, altro che le cifre trionfali sfornate dai sondaggisti.
Le amministrative certificano che il Pd è in coma irreversibile. Non esiste come partito organizzato nei territori. L’accelerazione verso un partito personale, con la rete del notabilato locale, quello più spregiudicato e disincantato sul piano etico-politico, a fare da supporto alle ambizioni di restaurazione del capo ferito, non regge l’urto. È così sfilacciato e esangue come organismo collettivo che il Pd non ha neppure la residua forza di chiedere con voce flebile la rimozione del capo che in battaglia si è rivelato un perdente di professione.
Il mito renziano del soltanto con me si vince, alzato contro i campioni della non vittoria che avevano sciupato un rigore a porta vuota, si converte amaramente nella reiterata sconfitta dell’uomo solo al comando che preferisce la codarda fuga dai teatri di guerra delle città più calde. Ha perso tutte le battaglie: le regionali, le amministrative, i ballottaggi e il plebiscito sulla Costituzione. Ha prodotto il roboante vuoto della sconfitta che
lo trafigge senza però farlo desistere dall’oscuro proposito di resistenza al comando.
Se fosse un vero leader, mosso da un briciolo di idealità politiche, avrebbe lasciato il timone per il bene del partito. Ma Renzi è solo un capo dalle smodate ambizioni di potere che, spinto da moventi non politico-ideali, ha distrutto con accanimento l’ordine collettivo. Tra le sterminate macerie accumulate proclama una insana nostalgia di ritorno a Palazzo Chigi e si arrocca alla guida folle della macchina con la complicità di un non-partito che non ha gruppi dirigenti ma scudieri che gli devono tutto e lo accompagnano verso il disastro.
Il ballottaggio dimostra che il male di vivere riguarda il Pd, e per sottrarlo agli spasmi dello stato terminale non è questione di collante, campo, alleanze più o meno larghe.
Se non si costruisce una alternativa di sinistra al Pd, visto che i ricambi interni sono assai problematici in partiti leaderistici senza cultura politica, l’oblio del Nazareno si riverbera sul sistema determinando una fuoriuscita di destra alla crisi della democrazia.
Non si affronta però la gran tempesta del decesso del Pd con i raduni nei teatri e nella piccola piazza romana. A quando la politica?

Il Fatto 27.6.17
L’equivoco Caimano: in realtà hanno vinto astenuti e anti-Renzi
Forza Italia e Berlusconi perdono consensi e peso specifico nella coalizione di centrodestra, in cui la Lega ora pesa di più
L’equivoco Caimano: in realtà hanno vinto astenuti e anti-Renzi
di Tommaso Rodano

Più che la destra, ha vinto l’astensione. La prima lettura del risultato dei ballottaggi ha fatto gridare al successo del centrodestra unito, Berlusconi più Salvini. Corretto solo in parte. Il vero trionfatore delle elezioni è stato il rifiuto della politica, che quest’anno ha coinvolto anche i titolari della presunta “diversità” anti partitica: il Movimento 5 Stelle.
L’affluenza era già in picchiata rispetto al confronto tra il primo turno di cinque anni fa e quello di quest’anno (dal 68 al 60%). Nelle città in cui si è votato il secondo turno, è scesa ancora: dal 58% di due settimane fa al 46,03% di domenica.
Un paio di esempi sono particolarmente clamorosi: a Verona, nel 2012, Flavio Tosi per diventare sindaco aveva dovuto portare a casa 76.904 voti. Al suo successore Federico Sboarina ne sono bastati trentamila in meno: 46.962. Cinque anni fa l’affluenza era stata del 69,6%, domenica si è fermata al 42,3%: la differenza l’ha fatta chi non ha votato. La Lega si è giustamente intestata la vittoria, ma nei numeri di lista è passata dai 13.065 voti del 2012 ai 9.704 di quest’anno (una parte significativa dei consensi del Carroccio è stata intercettata dalla lista civica che porta il nome di Sboarina). Anche a Como l’affermazione del centrodestra è spinta dall’affluenza quasi imbarazzante del ballottaggio: 35,8% (nel 2012 fu del 60,3% al primo turno e del 42,7 al secondo). Il sindaco del Pd Mario Lucini era stato eletto con con 21.562 voti, oggi a Mario Landriscina, centrodestra, ne bastano 13.045. Insomma: il boom delle destre è gonfiato anche dalla diserzione di massa delle urne.
I dati calcolati da YouTrend dopo il primo turno consentono un ulteriore livello di lettura: nei comuni sopra i 15 mila abitanti delle Regioni a statuto ordinario, la Lega è al 7,8% e Forza Italia al 7%. Al Nord il Carroccio sale al 12,6% contro il 7,8% di Berlusconi, al Centro sono entrambi attorno al 6% (alle Amministrative le percentuali dei partiti sono diluite dalla proliferazione delle liste civiche). Salvini ora pesa più di Forza Italia. Un bel rompicapo: Salvini non può essere la guida del centrodestra, perché sotto Firenze prende poco e sotto Roma non prende nulla, ma al Nord il centrodestra senza la Lega semplicemente non esiste.
Se il non voto ha vinto le elezioni, il Partito democratico le ha perse. L’effetto 4 dicembre è evidente soprattutto in quelle che dovevano essere le fortezze del centrosinistra. A Pistoia cinque anni fa il dem Samuele Bertinelli era stato eletto al primo turno con 23 mila voti. Domenica al ballottaggio ne ha messi insieme 16 mila (dopo i 14 mila del primo turno). Il Pd in una consiliatura ha perso un terzo dei suoi consensi: scende da 12.438 a 8.456 voti.
A La Spezia i voti del partito di Renzi invece sono dimezzati: erano 10.136 nel 2012, ora sono 5.819. Il centrosinistra Paolo Manfredini domenica ha messo insieme 13.771 preferenze, cinque anni fa Massimo Federici vinceva al primo turno toccando quota 21.448. A Sesto San Giovanni (fu Stalingrado d’Italia) la sindaca uscente Monica Luigia Chittò passa dai 16.144 voti del 2012 agli 11.334 di domenica. A Genova, soprattutto, Marco Doria prendeva 114.245 voti e il Pd 55.137. Cinque anni più tardi, Gianni Crivello si ferma a 91.057 voti, il Pd a 43.156.
I candidati del Pd perdono consensi addirittura tra primo e secondo turno (quando in genere se ne conquistano, per ovvi motivi) a L’Aquila, Avezzano, Budrio.
Il partito di Renzi ha completato il cambio di muta. Regge al Sud, trainato dalle civiche, va male al Centro e al Nord, soccombe clamorosamente nelle Regioni rosse: 5 ballottaggi su 5 persi in Emilia Romagna, 3 su 3 in Liguria.
di Tommaso Rodano

Il Fatto 27.6.17
I toscani hanno estirpato il “Giglio magico”
Espulsi - Dopo Arezzo e Livorno, i renziani perdono anche Pistoia (la città Bianchi) e Carrara finisce al M5S
di Fabrizia Caputo

Il Partito democratico in Toscana continua a perdere le sue città simbolo. Questa volta è toccato a Pistoia, dove per la prima volta vince un sindaco di centrodestra, Alessandro Tomasi, che al ballottaggio ha sconfitto il sindaco uscente del Pd Samuele Bertinelli.
Pistoia è anche la città di Alberto Bianchi, consigliere di Matteo Renzi, punto di riferimento del Giglio Magico, fondatore e presidente della renziana Fondazione Open. Eppure, le prime volte sembrano non finire mai per il partito guidato da Renzi, come in un déjà-vu che ricorda fin troppo bene la vittoria del M5S nella Livorno rossa, anche Carrara ora sceglie i pentastellati, punendo il Pd con una sonora sconfitta: il candidato del Movimento 5 Stelle, Francesco De Pasquale, si è imposto con oltre il 65% dei voti su quello del Partito democratico Andrea Zanetti.
Resiste invece Lucca, dopo un ballottaggio che si è giocato fino all’ultima scheda e dove a spuntarla è stato il sindaco uscente del Pd Alessandro Tambellini con il 50,5% contro il 49,5% del contendente di centrodestra Remo Santini. Ma Renzi aveva perso al primo turno anche a casa sua, a Rignano sull’Arno: forse non si tratta della sconfitta più significativa, ma probabilmente della più simbolica visto che il tradimento casalingo arriva proprio per mano dell’ex sindaco Pd, Daniele Lorenzini, che per sovrammercato è uno dei testi contro Tiziano Renzi per la fuga di notizie che ha “bruciato” l’inchiesta sugli appalti Consip.
Forse bisognerebbe partire proprio da qui: la Toscana, dove tutto ebbe inizio per Matteo, non rinnova al Pd il mandato di fiducia e Renzi perde anche il consenso di casa sua. Sono lontanissimi i tempi in cui il nostro prese la guida di un Pd che governava quasi tutte le principali città italiane. I campanelli d’allarme hanno iniziato a suonare già nel 2015.
Allora, oltre alla perdita di Livorno, lo stesso smacco subìto da Renzi fu riservato anche a Maria Elena Boschi nella sua Arezzo, dove vinse il centrodestra di Alessandro Ghinelli dopo una notevole rimonta al ballottaggio sul candidato del Pd Matteo Bracciali. Il 2015 è l’anno in cui Banca Etruria finì a gambe all’aria; il 2016 quello in cui esplode definitivamente la crisi Mps; il 2017 quello delle due venete. In mezzo è arrivato pure il caso Consip.
E le elezioni sono andate di pari passo con i tracolli della cronaca: nel 2016 la Toscana “democratica” perse Grosseto, dove il sindaco uscente di centrosinistra Lorenzo Mascagni fu sconfitto da Antonfrancesco Vivarelli Colonna, candidato di centrodestra. A Cascina addirittura il sindaco uscente dem Alessio Antonelli perse con Susanna Ceccardi, candidata leghista. Pure Montevarchi al centrosinistra preferì Silvia Chiassai, candidata di centrodestra, mentre a Sansepolcro, la sindaca uscente del Pd perse contro Mauro Cornioli supportato da liste civiche.
Breve conteggio: per il Pd renziano sono 5 su 10 le città capoluogo perse solo nella ex rossa Toscana.
di Fabrizia Caputo

Repubblica 27.6.17
Pd, Renzi è sotto attacco
E ora dimenticare Palazzo Chigi
Il segretario: niente aperture a sinistra. Veltroni: “Matteo cambi passo, il partito non guarda ai deboli”
di Stefano Folli

COME in un infinito psicodramma, nel Pd si cercano risposte senza avere il coraggio di porre le domande. È stata o no una grave sconfitta, quella di domenica? A sentire Renzi le cose non sono andate poi così male. Il segretario lascia intendere che si è trattato quasi di un pareggio, peraltro condizionato dalle astensioni. E in ogni caso le elezioni politiche saranno un’altra storia.
LA TESI è consolatoria, fondata sullo schema dell’”incidente di percorso” presto rimediabile. Argomento che regge solo se il vertice del partito non obietta e non batte i pugni sul tavolo, almeno in pubblico. E infatti la maggioranza tace e acconsente. Per ora. O per convenienza o per mancanza di coraggio e di idee, nessuno ha voglia di aprire un confronto interno lacerante. Per molto meno uno dei personaggi che piacciono a Renzi, Amintore Fanfani, fu estromesso dalla segreteria della Dc dopo aver perso il referendum sul divorzio nel ‘74. Ma erano altri tempi. L’unico che prova a reagire è Orlando, ma viene zittito: anche lui è stato sconfitto, anzi il progetto del centrosinistra allargato non ha funzionato a Genova e altrove. Quindi, cosa vuole Orlando? E cosa vogliono Pisapia, i bersaniani scissionisti, tutti coloro che amerebbero sedersi intorno a un tavolo per una seduta di psicanalisi collettiva?
Non c’è da perdere tempo, sottintende il segretario. Non c’è nulla da concedere alla sinistra interna ed esterna al Pd. Anzi, loro sono i responsabili dell’infortunio. Loro sono i sabotatori. Come si capisce, se questa è l’analisi, non c’è da attendersi una risposta convincente, in grado di cogliere la drammaticità del momento. Renzi segue il suo temperamento e mai concepisce di mettersi in discussione. Vede trappole e complotti dietro ogni angolo e la sua unica strategia è la marcia avanti. Se le comunali sono andate come si è visto, Renzi punta più di prima su se stesso, l’unico di cui si fida. E infatti la frase «le politiche sono un’altra storia» vuol dire, né più né meno, che in quella circostanza si alzerà il livello della contesa e in campo ci sarà lui, il segretario-ex premier. Da solo cancellerà le contraddizioni e i punti deboli del messaggio politico e il Pd rifiorirà.
Qui è la vera discriminante. Renzi ignora o finge di ignorare che molti ormai lo considerano il problema e non la soluzione alla crisi del Pd. Il giovane estroverso e dinamico che sedusse gli italiani nella primavera del 2014 si è appannato fino a svanire nel cortocircuito dei suoi errori. Ha dovuto confrontarsi con ostacoli giganteschi e con possenti spinte conservatrici, senza dubbio. Ma è altrettanto vero che nessuno come lui, negli ultimi trenta-quarant’anni, ha avuto tante opportunità e non ha saputo sfruttarle. Oggi cosa resta? L’ex premier sembra dominato dalla volontà di tornare a tutti i costi a Palazzo Chigi, così come prima del 4 dicembre era ossessionato dal desiderio di ottenere un plebiscito personale.
Ecco allora lo scollamento rispetto alla realtà. Dal leader di un partito di centrosinistra ci si attende una visione in grado di abbracciare le ansie e le inquietudini di una vasta area di popolazione disorientata, forse anche una particolare empatia umana. Non l’implacabile e solitario perseguimento di un disegno di potere in stile House of cards. Tutto questo ha contribuito a creare una frattura fra Renzi e il suo elettorato. Il grande comunicatore, l’uomo capace di accendere la speranza, oggi ha deluso parte del suo mondo. E quindi, certo, le elezioni generali sono un’altra storia, ma forse non nel senso che Renzi immagina.
C’è chi gli chiede di ricostruire il centrosinistra federando la sinistra più radicale di Pisapia e un pezzo del centro modernizzante (Calenda, ad esempio). Ma occorre fantasia e tenacia per operare una sintesi che non significa incollare insieme i tasselli del vecchio ceto politico. Invece il Renzi di oggi è più che mai sospettoso, in particolare verso le iniziative di Romano Prodi. Quanto a Gentiloni, è sempre a un passo dal diventare un nemico. Quando invece l’ipotesi che resti a Palazzo Chigi anche dopo il voto, con il suo profilo rassicurante, dovrebbe essere colta da Renzi come l’occasione per lavorare con le mani libere e senza secondi fini al vero progetto: riconquistare il cuore degli elettori.

Repubblica 27.6.17
Chi ha sottovalutato il no al referendum
di Guido Crainz

C’È QUALCOSA di radicale nel voto di domenica e va persino oltre il crollo del Pd e dell’intera sinistra, battuta sia quando si è presentata unita sia quando si è divisa.
VA OLTRE la sua sconfitta in roccaforti storiche, oltre la sua scomparsa ormai quasi generale al Nord, oltre la sua incapacità di attrarre al secondo turno elettori di altri schieramenti. Eccezioni certo vi sono state ma non autorizzano nessuna minimizzazione, e il carattere “locale” del voto rende semmai ancor più grave la sconfitta. Radica nelle diverse zone del Paese il “responso generale” del referendum costituzionale del 4 dicembre, ed è stato irresponsabile non aver avviato una riflessione seria su di esso: sulla sconfitta del Sì e sulle differenti e talora disomogenee ragioni confluite nel trionfo del No. Eppure — è difficile negarlo — la bocciatura della proposta di riforma non ha riguardato solo il merito di essa: ha reso evidente anche una drastica presa di distanza dalla ottimistica e astratta “narrazione” renziana, incapace di misurarsi con gli scenari reali che gli italiani hanno vissuto e vivono. Con gli effetti strutturali e i lunghi strascichi di una crisi economica internazionale che ha mutato l’idea di “sviluppo possibile”: la sua qualità, il suo profilo, il suo spessore. Ha influito, in altri termini, sull’idea stessa di futuro. È confluita inoltre in quel voto anche la dilagante sfiducia nel ceto politico attuale, con una diffidenza verso le sue proposte di cambiamento che diventa naturalmente massima quando esse riguardano l’ordinamento istituzionale. E che non è sempre intrisa di limpidi valori costituzionali e di sinistra ma può tingersi anche di umori molto differenti, come lo stesso voto di domenica indirettamente conferma.
Viene anche da qui la realtà di oggi: con un centrodestra vero vincitore — dopo molti anni —, un Movimento 5 Stelle sconfitto sì ma non defunto e un centrosinistra da rifondare radicalmente, in uno scenario reso ancor più grave dall’ulteriore calo della partecipazione al voto. Questo è il secondo nodo su cui riflettere, in un Paese che ancora negli anni di Tangentopoli, pur nel crollo della Prima Repubblica, registrava più dell’85% dei votanti (con percentuali di poco inferiori nelle elezioni amministrative). L’illusionismo e il populismo berlusconiano e leghista sembrarono colmare il vuoto lasciato da quel crollo: o meglio, inserirono in esso una “antipolitica della politica” che minava progressivamente le basi stesse della democrazia. E poterono profittare dell’incapacità della sinistra di rifondare realmente l’agire pubblico: si persero infatti per via le potenzialità pur emerse grazie all’elezione diretta dei sindaci, all’ispirazione stessa dell’Ulivo e all’esperienza delle primarie, capaci inizialmente di imporre una idea vincente di sinistra anche a leader refrattari. Nel 2005 fu una lezione per tutti (ancorché poco ascoltata) il plebiscito che incoronò Prodi come leader della coalizione: un leader che sapeva unire, scelto per questo. Non è casuale che umori più espliciti di antipolitica inizino a diffondersi proprio nel logorarsi di quella speranza, quotidianamente umiliata dalle divisioni e dalle lacerazioni del centrosinistra al governo: è infatti del 2007 il primo irrompere di Beppe Grillo con il V-day (ed è dello stesso anno lo straordinario successo di un libro-denuncia, inascoltato anch’esso dalla politica, come
La casta di Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella). Un secondo segnale venne dalle elezioni regionali del 2010, con il crollo della partecipazione al voto al 60% o poco più: ed era appunto di quell’anno il primo appannarsi della egemonia berlusconiana, solo in parte occultato dal contemporaneo riemergere della Lega. Sono venuti poi un più generale tracollo del centrodestra e il definitivo dilagare dell’antipolitica, cui fece per un attimo da contrappeso l’iniziale fiducia nel “governo dei tecnici” di Mario Monti. Nel precoce affondare di quell’esperienza — oltre che nell’emergere di nuovi e devastanti scandali — l’ondata grillina e l’astensione esplosero insieme, a partire dalla Sicilia. E nelle elezioni del 2013 il Movimento 5 Stelle affiancò sul proscenio il centrodestra berlusconiano (da cui fuggirono oltre sei milioni di elettori) e il Pd di Bersani (capace di perderne a sua volta oltre tre milioni). Si affermò in quello scenario una leadership di Matteo Renzi che è giunta ormai al termine: e la sua principale responsabilità sta proprio nel non aver saputo invertire la rotta, come pure le elezioni europee del 2014 avevano fatto sperare. Nel non aver mantenuto quell’impegno a rinnovare la politica e il Pd che era stato alla base del suo affermarsi. Nell’aver lasciato ulteriormente degradare la realtà di un partito sempre più asfittico e rinchiuso nelle proprie divisioni e lacerazioni, deflagrate dopo il 4 dicembre. Un partito che in realtà ha perso queste elezioni amministrative e quelle immediatamente precedenti prima ancora del loro svolgersi, per l’incapacità di candidare alla guida di città e Regioni una classe dirigente capace e credibile.
È radicale ed inequivocabile dunque il messaggio del voto di domenica, ed è radicale il ripensamento che impone. Riguarda tutto il centrosinistra, sconfitto nel suo insieme: ed è difficile immaginare che esso possa avere ancora un futuro se i protagonisti della stagione più recente non sono capaci di fare un passo indietro, o almeno di lato.

Corriere 27.6.17
«I nostri stanno a casa o ci votano contro Tavolo con le altre forze per la ricostruzione»
Orlando: Matteo ascolti e usi toni meno liquidatori
di Monica Guerzoni

ROMA «Luci e ombre», ha twittato Renzi. Andrea Orlando è d’accordo?
«È stata una sconfitta, che rivela fenomeni politici con i quali dobbiamo fare i conti. In alcune roccaforti abbiamo subìto sconfitte drammatiche, che non possiamo derubricare come “voto a macchia di leopardo”. Perdiamo elettori e spesso i nostri vanno a votare contro il Pd».
Approfitterà della batosta per indebolire Renzi ?
«No, anzi. Se prende atto che una posizione autoreferenziale e isolata ci porta a sbattere, può rafforzarsi. È un campanello d’allarme significativo, ma rimediabile. Se sterziamo possiamo tornare competitivi. Io comincerei col discutere della ricostruzione del campo, convocando un tavolo di tutte le forze di centrosinistra».
Renzi è convinto che con il centrosinistra si perde.
«Sottovaluta che, quando si è divisi, un pezzo di elettorato si rifugia nell’astensione. Nelle regioni rosse la partecipazione è crollata, i nostri sono rimasti a casa. Domani (oggi, ndr ) riunirò la mia area e dirò che è giusto seguire la linea del congresso. Ma quando si prende atto che quella linea non funziona, una riflessione va fatta».
Renzi può ancora essere il leader?
«Il segretario ha l’onere di ricomporre un campo politico, la questione del leader viene dopo e se non c’è la capacità di contendere la vittoria è inutile persino parlarne. Ma io, come Prodi, penso che devono cadere anche molte pregiudiziali nei confronti di Renzi».
Prodi ha portato o tolto voti?
«Col massimo rispetto non basta la dichiarazione di Prodi, o la singola realtà dove hai tentato di unire le forze, se poi la gente vede che nel nostro campo ci si prende a mazzate».
Perché Salvini e Berlusconi si danno mazzate e vincono?
«Loro nonostante le botte non hanno mai detto che andranno separati, nel centrosinistra invece si è creata una lacerazione profonda. Serve umiltà, ascolto, disponibilità a cambiare».
Renzi umile?
«La politica può riservare sorprese incredibili (ride, ndr ). Il problema non è il carattere, è una linea politica basata sull’autosufficienza».
Teme l’abbraccio con Berlusconi?
«Se andiamo con questa legge elettorale e non ricostruiamo un campo di forze, la prospettiva sono le larghe intese. Scommettere solo sul proporzionale è un azzardo. Dobbiamo rimettere un quid di maggioritario che consenta di incentivare la ricerca di coalizioni».
Ma lei l’alleanza con Bersani e D’Alema vuol farla, o no?
«La questione non si risolve rimettendo insieme i pezzetti di Pd che si sono frantumati, dobbiamo ripartire da un progetto politico. Io ho pregiudizi solo contro i populisti e la destra, ma D’Alema ha posto più veti di tutti e ha detto cose che non hanno aiutato. Uno degli sport di quel campo è rendere più complicato il percorso a Pisapia».
Sarà a Santi Apostoli il 1° luglio?
«Sì, condivido la sua parola d’ordine. Con la rissa permanente non si vince, ma sbaglia Renzi se pensa di attrarre Pisapia. Non si tratta di scarciofare gli altri, ma di fare un’opera di ricomposizione tra pezzi di elettorato che non si sommano più».
E se Renzi non vorrà ascoltarla?
«È intelligente, non può rimanere sordo. Mi attendo dei toni meno liquidatori e un po’ più di rispetto per chi solleva dubbi. Abbiamo perso. Chi lo nega e dà del politicista a me perché “le formulette non bastano” si assuma l’onere di fare un’altra proposta».
Avete perso anche nella sua città...
«A casa propria tutti i dirigenti del Pd hanno perso, cominciando da Renzi a Rignano sull’Arno. Perché Spezia avrebbe dovuto fare eccezione?».

La Stampa 27.6.17
L’Emilia è sempre meno rossa
Il Pd perde sei Comuni su sei
I dem in difficoltà nella tradizionale roccaforte, anche Piacenza passa al centrodestra Non va meglio in Toscana, dove brucia il ko di Pistoia. L’eccezione della Puglia
di Roberto Giovannini

Per definizione i risultati elettorali delle amministrative si prestano a mille interpretazioni, ma secondo l’autorevole Istituto Cattaneo non ci sono dubbi: ai ballottaggi il centrodestra ha vinto, i Cinque Stelle se la sono cavata più che bene, il centrosinistra a guida Pd ha perso. E il partito di Matteo Renzi si trova ormai in grandissima difficoltà in due dei suoi tradizionali bastioni: l’Emilia Romagna e la Toscana.
Per i ricercatori del Cattaneo, dunque, l’unica forza con un bilancio negativo nei Comuni oltre i 15 mila abitanti andati al voto è il centrosinistra, che dopo questa tornata di amministrative è passato da 90 a 62 città, con un saldo negativo di 28. Il centrodestra passa da 51 a 70 municipalità, M5S da 3 ad 8. Bene anche le liste «civiche», passate da 15 a 19. In termini assoluti, nei capoluoghi il centrodestra prevale sul centrosinistra con 576.204 voti contro le 561.032 andati a Pd e alleati. Va detto comunque che ha pesato la disapprovazione per chi governava: complessivamente, in 88 città su 159 i sindaci uscenti, a prescindere dal colore politico, sono stati battuti.
Esaminando i ballottaggi, il centrodestra - di norma più fragile al secondo turno - se ne aggiudica 53 su 95, mentre il centrosinistra solo 34 su 85. M5S si conferma molto performante al secondo turno, e conquista 8 città delle 10 in cui concorreva. Quanto ai flussi di voto, nell’analisi dell’istituto Cattaneo il centrodestra prevale grazie all’elettorato infedele del centrosinistra e al soccorso a Cinque Stelle. Il M5S dove è presente al secondo turno riesce a catturare elettori dei candidati esclusi al primo giro. Il centrosinistra invece accede con relativa facilità ai ballottaggi; ma poi ne esce spesso sconfitto.
Un trend che risulta particolarmente evidente nelle Regioni «rosse»: in Emilia-Romagna il centrosinistra perde in tutti i cinque ballottaggi. Comacchio, invece, era stata già vinta al primo turno dai Cinque Stelle. E se nel 1999 fece scalpore la scioccante sconfitta di Bologna, oggi il Pd deve registrare il flop nel tentativo di riconquista di Parma, e amare sconfitte in Comuni da sempre di sinistra come Piacenza, Vignola e Riccione (a vantaggio del centrodestra), e Budrio (a favore di un candidato civico post-grillino).
L’Emilia Romagna, insomma, non è più un granaio di voti, di soldi, di organizzazione, di personale e di consenso per il Pd. Ma lo stesso fenomeno pare avvenire anche in Toscana. Già sono state perse Livorno (2014), Arezzo (2015) e Grosseto (2016); stavolta a Pistoia per la prima volta da sempre vince un sindaco del centrodestra. Per giunta di Fratelli d’Italia. E a Carrara il M5S espugna il municipio con un risultato quasi umiliante: il renziano Andrea Zanetti incassa solo il 34,4% contro Francesco De Pasquale. Ai Dem resta solo la riconferma del primo cittadino di Lucca. E l’anno prossimo si vota a Siena e Pisa. L’altra grande eccezione è al Sud, in Puglia, con il centrosinistra che ha vinto un po’ ovunque e ha superato brillantemente i due test più significativi: Taranto e Lecce.

La Stampa 27.6.17
Nadia Urbinati
“Il centrosinistra deve risolvere la lotta fra i troppi leader”

«Non credo che si debba parlare di una vittoria della destra, piuttosto di una sconfitta della sinistra. Molti elettori tradizionalmente nell’area del Pd non sono andati a votare, rifiutando i candidati proposti e le soluzioni che non li assomigliano. E questo ha aiutato l’altra coalizione. Dobbiamo poi considerare il momento storico, e il fatto che il centrodestra si trova a suo agio in un ambiente anti-politico ed emotivo, mentre la sinistra fa fatica. Secondo molti il dibattito sullo “ius soli” ha avuto il suo ruolo nella vittoria del centrodestra. Ma anche qui possiamo parlare di sconfitta del centrosinistra perché un partito che voglia far capire ai suoi elettori un argomento così difficile deve coltivarlo. Non basta parlarne in Parlamento o su Twitter, lasciando il popolo alle visioni catastrofiste mentre il Parlamento fa una legge, benché moderata, necessaria».
«C’è una sinistra scollata internamente, che ha perso. Non ha pagato la lotta tra personalità più che tra movimenti. Hanno dato all’elettore l’impressione di essere incapaci di realizzare insieme anche una coalizione al secondo turno. E c’è Matteo Renzi, un leader che polarizza le emozioni: o è amato o è detestato. Come è stato per Berlusconi. Oltretutto il segretario Pd non vuole ragionare, accettare la sconfitta. Ma come si fa a dire che non ha perso? Bisogna ammettere i limiti delle primarie, perché impediscono la formazione di un’opinione radicata e portano invece all’identificazione con un leader congelando il problema, impedendo la trasformazione, il cambiamento dei partiti».
«È vero che il Movimento cinque stelle ha preso pochi sindaci ma al secondo turno hanno inciso sul risultato e sulla sconfitta del centrosinistra. Pur di fare un dispetto al Pd di Renzi i grillini hanno votato a destra. Nel nostro Paese c’è una frattura emotiva profondissima, non si ragiona più a livello di politiche organizzative, economiche, sociali. E i grillini sono bravissimi a cavalcare le emozioni».

La Stampa 27.6.17
Gianfranco Pasquino
“Per le politiche attenti a prendere sottogamba il M5S”

Il centrodestra è andato bene perché ha avuto la capacità di mettersi insieme, di individuare delle candidature che rappresentavano quelle aree. C’è Giovanni Toti alle spalle di tutto questo, e lui stesso è il prodotto del suo metodo che ha utilizzato a La Spezia e Genova. Una sconfitta bruciante per il centro- sinistra che lì ha governato per lungo tempo. Ma anche a Verona hanno trovato il nome giusto impedendo che una parte di elettorato leghista «duro» convergesse sulla compagna di Tosi, Patrizia Bisinella. E questo suggerisce che quando Berlusconi non fa di testa sua le cose vanno bene. Anche se lui sostiene che la vittoria sia dovuta alle sue 46 interviste alle televisioni locali. Non è così, il risultato è dovuto alle candidature giuste e alla capacità della coalizione di stare insieme senza litigare».
Siamo di fronte a una sconfitta del Pd più che del centrosinistra e il segretario doveva già averla mentalmente elaborata visto che praticamente non ha fatto campagna elettorale. Renzi ha messo su Twitter una «torta» per dimostrare che non è andata così male e invece è andata malissimo perché ha perso in quasi tutte le grandi città, e se facesse una semplice operazione aritmetica vedrebbe che il centro destra ha avuto un numero di voti molto più consistente. Sicuramente la sua personalità strabordante non ha aiutato, perchè tanti elettori del Pd non hanno voluto votarlo. E gli elettori dei Cinque stelle pur di non votare il Pd al ballottaggio hanno votato il candidato del centrodestra. Il futuro? Occorre un leader come Macron che si batta per contare di più in Europa».
«Si sta sottovalutando il risultato dei Cinque stelle. Perché nei dieci comuni in cui sono arrivati al ballottaggio sono risultati vincitori in otto casi. E faccio fatica a dire che non hanno vinto a Parma e a Comacchio dove comunque sono i loro gli elettori storici che hanno fatto vincere di nuovo Pizzarotti e Fabbri (espulsi dal Movimento). In ogni caso si stanno radicando sul territorio e questo alle elezioni politiche sicuramente conterà».

Il Fatto 27.6.17
Tortura, i magistrati del G8 di Genova: legge inutile
Il testo in aula, lettera a Boldrini: “Così non sarebbe applicabile ai fatti della Diaz e di Bolzaneto”. Anche Strasburgo chiede di cambiarlo
Tortura, i magistrati del G8 di Genova: legge inutile
di Alessandro Mantovani

Ventitré anni fa Antonio Di Pietro e i pm del pool Mani Pulite minacciarono le dimissioni in tv contro il decreto cosiddetto “salvaladri” che escludeva il carcere per i presunti responsabili di corruzione e concussione: fu lasciato decadere senza conversione in legge. I temi cambiano, i tempi meno e ieri a rivolgersi al Parlamento, nella Giornata mondiale contro la tortura, sono stati i magistrati genovesi che si occuparono del G8 del 2001 e in particolare dei fatti della scuola Diaz e della caserma di Bolzaneto, “qualificati come tortura e trattamenti inumani e degradanti dalla Corte europea dei diritti dell’uomo” che la scorsa settimana ha condannato nuovamente l’Italia: oltre 2 milioni di euro di risarcimenti per 29 vittime della Diaz. In una lettera a Laura Boldrini, presidente della Camera che in settimana tornerà a discutere la legge sulla tortura, pm e giudici di Genova spiegano che la norma proposta, così come approvata in prima lettura al Senato, “sarebbe in concreto inapplicabile a fatti analoghi a quelli verificatisi a Genova” sedici anni fa. Sarebbe un “paradosso”, scrivono, tanto più che l’Italia attende il nuovo reato fin dalla ratifica della relativa Convenzione internazionale nel 1988 ed è stata più volte richiamata dalla Corte e dal Consiglio d’Europa dopo i fatti del 2001. Ora si attende la sentenza su Bolzaneto.
Le critiche dei magistrati si concentrano sulla “pluralità di condotte” richiesta dal disegno di legge in discussione: “Alcune delle più gravi condotte accertate” a Genova “sono state realizzate – ricordano – con un’unica azione”. C’è poi la configurazione del reato come comune anziché proprio dei pubblici ufficiali, con la conseguenza di richiedere che la vittima sia “privata della libertà personale; oppure affidata alla custodia, potestà, vigilanza, controllo o cura o assistenza dell’autore del reato; ovvero in condizioni di minorata difesa”: “Esclude molte delle situazioni in cui si sono trovate le vittime dell’irruzione alla Diaz”.
Nei casi genovesi, aggiungono, “non avremmo potuto agevolmente fare ricorso neppure a quella che pare configurarsi come una condotta alternativa: l’agire con crudeltà (…). La crudeltà è un contenuto psichico soggettivo non facilmente ravvisabile nell’agire del pubblico ufficiale che potrebbe sempre opporre di aver operato avendo di mira fini istituzionali”. Insomma si prevedono problemi interpretativi, gli avvocati avranno ampi margini. E ancora, si reclama la “sospensione dei pubblici ufficiali rinviati a giudizio e la destituzione in caso di condanna definitiva”, come raccomandato dalla Corte. In calce le firme di dodici magistrati tra cui Salvatore Sinagra, Roberto Settembre, Enrico Zucca, Francesco Cardona Albini, Patrizia Petruzziello e Vittorio Ranieri Miniati.
Il 16 giugno il Commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa, Nils Muiznieks, ha scritto ai presidenti di Camera e Senato chiedendo di rivedere il ddl. Un altro appello a cambiare il testo è stato diffuso da Enrica Bartesaghi, Arnaldo Cestaro e Lorenzo Guadagnucci del Comitato verità e giustizia per Genova con le firme di autorevoli esponenti del mondo accademico e forense. Sulla stessa linea Amnesty international, Antigone e i radicali. Ieri, mentre papa Francesco e il presidente Sergio Mattarella celebravano la Giornata contro la tortura, gli avvocati delle Camere penali hanno manifestato da Milano a Torino e a Palermo: magliette e spille con la scritta “mi hanno torturato solo un po’…”, parlando di “legge beffa”. Ma c’è il serio rischio che il Parlamento preferisca non scontentare i settori peggiori degli apparati e dei sindacati di polizia, i cui voti, di questi tempi, valgono parecchio.

La Stampa 27.6.17
“Italiani nei campi profughi palestinesi addestrati a combattere contro Israele”
La deposizione di Abu Sharif alla Commissione sulla morte di Moro “Negli Anni 70 c’era un patto scritto con Roma per non fare attentati”
di Francesca Paci

«Il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (Fplp) aveva rapporti particolari con alcuni dei gruppi rivoluzionari emersi in Europa dopo il ’68. Queste forze non sapevano come opporsi al capitalismo e noi glielo insegnammo, era parte della lotta contro l’imperialismo che sosteneva Israele. Migliaia di giovani donne e uomini italiani vennero nei campi profughi palestinesi ad aiutare in tanti modi diversi, nelle scuole, negli ambulatori o nel combattimento, ma sempre e solo contro l’occupante israeliano». A raccontare questo ulteriore tassello del controverso puzzle “Italia Anni 70” è Bassam Abu Sharif, storico membro della formazione marxista-leninista Fplp e poi influente consulente di Arafat ascoltato ieri dalla Commissione bicamerale d’inchiesta sulla morte di Aldo Moro, l’ennesimo organo d’indagine sul rapimento del presidente della Dc la cui durata teoricamente biennale è stata prolungata dalla fine del 2016 al termine della legislatura.
È la prima volta che si parla in modo così esplicito della presenza di nostri connazionali nei campi profughi palestinesi di 40 anni fa, giovani, uomini, donne, un po’ volontari e un po’ foreign fighters ante litteram. Una nuova angolazione che amplierebbe il quadro delle “relazioni pericolose” dell’epoca in cui s’inserisce anche il cosiddetto Lodo Moro, il patto segreto di non belligeranza tra gli 007 italiani e i fedayn palestinesi sempre menzionato ma mai ammesso. E non è escluso che ora la Commissione presieduta da Fioroni possa avviare altre indagini oltre a quelle di sua stretta competenza per le quali ha già inviato alla procura generale di Roma il lavoro di oltre un anno di accertamenti. E non è escluso neppure che possano riaprirsi altri dossier sulle presunte connivenze passate, a partire dalla vicenda degli autonomi Pifano, Nieri e Baumgartner, arrestati nel 1979 a Ortona perché trovati in possesso di missili portatili di proprietà della resistenza palestinese.
Sebbene interpellato nello specifico sui rapporti tra il Fplp e le Br alla data del 16 marzo 1978, Bassam Abu Sharif, anche autore del volume «The Best of Enemies» scritto con il giornalista israeliano Uzi Mahnaimi, riapre il capitolo Lodo Moro parlandone come di qualcosa di storicamente acquisito, un fatto. Secondo Abu Sharif, definito a un tratto da Time «face of terror», sarebbe stato proprio quel rapporto privilegiato con il Medioriente in generale e con i palestinesi in particolare a mettere l’Italia sotto sorveglianza da parte di chi, come gli Stati Uniti, non apprezzava, e a condannare Moro, la mente del compromesso storico .
Siamo nei mesi precedenti al sequestro del leader democristiano, il cupo ’77, il ’78, gli anni in cui, sostiene Abu Sharif, il Fplp ha già interrotto i rapporti con le Br perché sospetta che, con i capi in prigione, le seconde linee siano state infiltrate: «All’epoca le fazioni palestinesi sotto l’ombrello dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (Olp) avevano rapporti con tutti i paesi arabi e, in modo non ufficiale, con molti di quelli europei, dove gli uffici locali della Lega Araba ospitavano i nostri rappresentanti. E parlo di rapporti anche a livello di 007. In questo quadro di aiuto e collaborazione, alcuni paesi - segnatamente il vostro - volevano un documento firmato da George Habash in cui il Fplp si impegnasse a non partecipare ad azioni in Italia. E infatti da allora non è mai successo niente qui». Abu Sharif insiste sui buoni rapporti tra i suoi e il governo di Roma per provare l’estraneità del Fplp al rapimento Moro ma finisce per ipotizzare di più: «Il Fplp e l’Italia avevano un dialogo particolare sulla politica e la sicurezza sin dal ’72, attraverso noi l’Italia mandava ambulanze e medici ai campi profughi e noi in cambio vi aiutavamo molto. Fu così che l’Italia ci chiese di risparmiarla, di non usarla per fare operazioni o per compiere attentati contro Israele. Me ne parlò il colonnello Giovannone, disse che doveva rassicurare i suoi. Habash firmò questo documento, portai il nostro impegno a mettere l’Italia al sicuro, il colonnello Giovannone lo ricevette per scritto. E quando passai dal Fplp ad Arafat continuammo sulla stessa linea».

Corriere 27.6.17
Donne al muro del pianto fallisce il compromesso, vincono gli ortodossi
di Davide Frattini

Da quasi trent’anni una volta al mese si presentano davanti al Muro del Pianto con il tallit (lo scialle da preghiera), i tefillin (le scatolette di cuoio legate con le cinghie che contengono i versetti sacri) e provano a recitare la Torah ad alta voce (t’fila in ebraico vuol dire preghiera). Sono le quattro «T» simbolo della protesta che i rabbini ultraortodossi leggono come una sola parola: tradimento della tradizione. Perché le donne — per questi oltranzisti dell’ebraismo — non possono pregare come gli uomini. La questione non è solo teologica, il movimento nato a Gerusalemme è sostenuto dai gruppi riformisti e conservativi, le congregazioni sono molto diffuse negli Stati Uniti, quelle comunità della diaspora che aiutano Israele con le raccolte fondi e le pressioni politiche sui presidenti americani. Adesso che Benjamin Netanyahu si è rimangiato la promessa di un anno e mezzo fa — trovare una soluzione per le femministe del Muro — i rappresentanti delle organizzazioni internazionali non vogliono più mangiare con lui e hanno disdetto la partecipazione alla cena di gala prevista ieri sera. Nello stesso giorno la coalizione al potere ha riaffermato il monopolio degli ultraortodossi nelle conversioni, anche se la Corte Suprema israeliana aveva riconosciuto la legittimità di quelle eseguite dai rabbini riformati. Il premier israeliano ha scelto così di piegarsi alle pretese dei partiti religiosi e per salvare il suo governo si è inimicato quello che è stato il primo governo di Israele. A mobilitare la rivolta contro la decisione è l’Agenzia Ebraica, che guidò per qualche mese la nazione appena nata nel 1948. Il compromesso che accontentava le dissidenti della religione era stato trovato dall’eroe della dissidenza sovietica: Natan Sharansky aveva proposto di allargare la zona dedicata ai riti, garantiva la libertà senza urtare la sensibilità. Ammette sconsolato: «Agli ebrei nel mondo Netanyahu ha mandato il messaggio “non siete parte di noi”».

il manifesto 27.6.17
La guerra bussa di nuovo alla porta di Libano e Israele
Medio Oriente in fiamme. Tensione alta sul Golan tra Israele e Siria ma lo scenario più probabile di un nuovo conflitto è al confine tra Libano e Stato ebraico
di Michele Giorgio

«Sfogliando i giornali si ricava l’impressione che una nuova guerra sia dietro l’angolo mentre Israele non ha alcuna intenzione di impegnarsi in conflitti armati a nord come a sud». È proprio il “falco” Avigdor Lieberman, il ministro della difesa, a raffreddare le previsioni di chi, in Israele e nella regione, vede affacciarsi un nuovo conflitto al confine tra Libano, Golan siriano occupato e Israele. I segnali ci sono tutti. L’esercito israeliano nelle ultime 48 ore ha centrato due postazioni e un camion di munizioni dell’esercito siriano dopo i colpi di mortaio partiti dalla Siria e caduti nel Golan. Colpi erranti, sparati durante i combattimenti tra le forze govervative e i gruppi jihadisti e qaedisti che agiscono nella Siria meridionale e a ridosso del Golan. Per Israele – che vede con favore la caduta del presidente siriano Bashar Assad e di recente è stato di nuovo accusato di avere contatti stabili sul Golan con formazioni jihadiste armate – la responsabilità per questi colpi erranti sparati dalla Siria è solo del governo di Damasco. E la sua reazione scatta comunque contro le truppe siriane.
Il rischio di una nuova guerra è sempre più elevato malgrado l’acqua gettata sul fuoco della tensione dal ministro della difesa Lieberman. Le parti fanno la voce grossa. Damasco ha avvertito che non tollererà altri attacchi israeliani. Tel Aviv accusa il movimento sciita libanese Hezbollah di aver moltiplicato i suoi posti d’osservazione sotto la copertura di un’organizzazione ambientalista: “Verdi senza frontiere”. «Gli Hezbollah conducono lì missioni d’osservazione, pretendendo che si tratta di attività di questa organizzazione ambientalista», protestava qualche giorno fa il capo dei servizi d’intelligence militari, Hertzi Halevi. Da parte sua Hezbollah lancia l’allarme sui “lavori di manutenzione” che Israele, nei prossimi giorni, avvierà lungo la barriera che lo divide dal Libano. Gli israeliani, afferma Hezbollah, coglieranno l’opportunità per modificare a loro vantaggio la linea di confine tra i due Paesi. I media israeliani ribattono che i guerriglieri sciiti avvieranno azioni di disturbo dei lavori.
Dietro queste scaramucce verbali si celano i preparativi del secondo round della guerra del 2006 in Libano del sud, che potrebbero vedere Israele attaccare anche in Siria. Le cose per Tel Aviv sono andate diversamente dalle previsioni fatte alcuni anni fa. Bashar Assad è saldamente al suo posto, le truppe siriane stanno riprendendo il controllo di gran parte del territorio ed Hezbollah è diventato un attore protagonista nella regione e non si è affatto indebolito come i generali israeliani prevedevano in conseguenza delle sue perdite militari in Siria. Pochi lo riconoscono ma è evidente che Damasco ha vinto. Israele non lo dice ma sa che è vero, come sa che il successo militare ottenuto su avversari sostenuti dai petromonarchi sunniti ha creato una realtà strategica nuova. Tel Aviv e Amman (e l’aviazione Usa) collaborano per impedire ai soldati siriani e alle milizie alleate di prendere il controllo delle linee di confine con il Golan occupato e la Giordania ma non riusciranno ad impedirlo a lungo. Più di tutto Israele sa che questa volta, dovesse lanciare un “attacco preventivo”, potrebbe poi trovare sul campo di battaglia non solo i guerriglieri libanesi ma anche sciiti pakistani, iraniani e afghani che ora combattono in Siria contro i jihadisti. «Non dico che determinati Paesi interverrebbero direttamente ma si aprirebbero le porte a centinaia di migliaia di combattenti del mondo arabo e musulmano per partecipare ai combattimenti», ha avvertito il leader di Hezbollah, Hassan Nasrallah.

Corriere 27.6.17
Il tiranno risparmiato
Roma cacciò il re tarquinio il superbo ma non fu un’autentica rivoluzione
di Paolo Mieli

La prima, ancorché poco conosciuta, rivoluzione nella Roma antica fu quella che nel 509 a.C. portò alla detronizzazione dell’ultimo re. Ma potrebbe non essere stata una vera e propria rivoluzione. Questa strana vicenda ha affascinato Thierry Camous al punto da dedicarle la parte più importante del libro, Tarquinio il Superbo. Il re maledetto degli Etruschi , che la Salerno dà ora alle stampe nell’eccellente traduzione di Mariavittoria Mancini. Molte pagine mettono in dubbio si sia trattato di una vera e propria rivoluzione. Tarquinio il Superbo è un sovrano più potente dei suoi sei predecessori. Compresi gli ultimi due, Tarquinio Prisco e Servio Tullio, anche loro etruschi. Un re capace di mettere in ginocchio i Latini, di mortificare il Senato, costringere la plebe a lavori bestiali, di strappare un enorme patrimonio ai Volsci e di spenderlo quasi per intero a propria gloria. Un personaggio, scrive Camous, che «sarebbe potuto passare legittimamente alla storia con il nome di Tarquinio il grande». E che invece è stato oggetto del primo implacabile processo di demonizzazione della romanità. Dannazione della memoria che si estese per certi versi all’intero popolo degli Etruschi al quale, pure, Roma doveva moltissimo. A cominciare dal Circo Massimo, per proseguire con il Tempio a Giove Capitolino, l’intero sistema di fognature, i ludi con pugilato e corse dei cavalli, l’arte della navigazione marittima. Dagli Etruschi veniva la cultura della divinazione e di conseguenza il credito di cui per secoli continuarono a godere gli aruspici: Cicerone metteva però in guardia dai ciarlatani che si annidavano tra gli uomini che si dicevano in grado di predire il futuro, anche se riconosceva all’«etrusca disciplina» di aver consentito la previsione della guerra sociale, degli scontri tra Silla e Cinna, della congiura di Catilina; apparteneva poi a una famiglia di Tarquinia quello Spurinna che, prevedendo sinistri accadimenti nel giorno delle Idi di marzo del 44 a.C., provò a scoraggiare Cesare dal recarsi in Senato.
La rivoluzione, o meglio il golpe del 509 contro il Superbo, fu opera di Bruto e Tarquinio Collatino, destinati a divenire i primi due consoli della Repubblica. Il re deposto stranamente non fu ucciso, bensì gli si concesse di rifugiarsi a Chiusi da Porsenna. Il quale Porsenna però, narra la leggenda, colpito dall’eroismo di Orazio Coclite, Muzio Scevola e Clelia, gli avrebbe tolto il proprio sostegno per poi allearsi con l’Urbe divenuta repubblicana. Una ricostruzione che, osserva maliziosamente Camous, «manca di logica». Di Porsenna, secondo Camous, fu tramandata quell’immagine tutto sommato positiva al solo scopo di farne meglio risaltare il carattere opposto al Superbo.
Cosa vuol dire, in ogni caso, che gli ultimi tre dei sette re di Roma fossero etruschi? Non quello che si potrebbe supporre e cioè che sotto quei tre sovrani Roma fu sottomessa agli Etruschi. Già Theodor Mommsen sostenne che «il trono dato a un cittadino originario dell’Etruria non implica affatto la conquista di Roma da parte degli Etruschi». E anche Jacques Heurgon, che pure aveva opinioni diverse da quelle di Mommsen, tenne a precisare che «la Roma etrusca era rimasta una città latina». Del resto, sostiene Camous, se Roma fosse diventata davvero etrusca, la sua lingua ne avrebbe portato segni evidenti, mentre, come hanno dimostrato fin dal 1932 Alfred Ernout e Antoine Meillet, latino ed etrusco, salvo marginali eccezioni, sono rimaste due lingue tra loro estranee.
Ma vediamo in dettaglio le differenze tra il Superbo e i suoi due ultimi predecessori. Tarquinio Prisco, detto Lucumone (re), aveva sposato la nobile tarquinese Tanaquil (grande esperta dell’arte divinatoria etrusca) e, con il suo imponente seguito, era andato a Roma, su cui regnava ancora il sabino Anco Marzio, autentico fondatore della potenza romana. C’era andato in cerca di fortuna e aveva messo i suoi opliti a disposizione di Anco per una serie di operazioni militari. In questo modo se ne era conquistato la gratitudine e, alla sua morte, ne era stato il successore. Fu anche lui un grande conquistatore: sconfisse i Latini, i Sabini e gli stessi Etruschi. L’elenco delle città da lui sottomesse, scrive Camous, è «impressionante». Secondo la leggenda il Superbo sarebbe stato un suo nipote o forse il figlio di una sua seconda, assai giovane, moglie. Dopo la sua morte salì al trono Servio Tullio. Sarebbe stata Tanaquil a favorirne l’ascesa a discapito dei propri figli. Riferiscono Cicerone e Tito Livio che Servio Tullio creò 12 centurie supplementari e assestò così un duro colpo all’aristocrazia patrizia. Regnò senza l’accordo del Senato, appoggiandosi esclusivamente al popolo. Attraverso la sua riforma, scrive Camous, «ruppe il legame politico che univa i patrizi ai loro clienti, tessendo un legame particolare con la plebe che gli varrà la nomea di buon tiranno».
Perché il suo successore, Tarquinio il Superbo, verrà identificato invece come un «tiranno malvagio»? Innanzitutto per il fatto che, secondo la leggenda, con l’aiuto di sua moglie Tullia, figlia di Servio, ordì l’uccisione dello stesso Servio. Consumato l’«orribile parricidio», Tarquinio il Superbo, racconta Livio nella Storia di Roma , fu il primo a rompere con la tradizione di consultare il Senato su ogni questione che implicasse cambiamenti nella vita del regno e «resse lo Stato fondandosi solo sui consigli di famiglia: guerra, pace, trattati, alleanze, lui solo faceva e disfaceva a suo piacimento e con i consiglieri che voleva, senza mai avvalersi dei suggerimenti del popolo e dei senatori». Dopo l’uccisione del suocero, Tarquinio inventò un complotto di Turno Erdonio da Ariccia (spingendosi a fabbricare le prove di un supposto attentato ai propri danni) per giustificarne l’uccisione e assieme la brutale e definitiva sottomissione dei Latini. Un «doppio abominevole crimine», scrive lo storico, «consente dunque al Superbo di imporre la sua autorità politica: per il suo popolo egli è l’uccisore del suocero (Servio Tullio), fuori dalle mura il selvaggio assassino di Turno Erdonio». Il suo potere «è quindi illegittimo e ottenuto con l’omicidio più efferato, eseguito, ogni volta, in maniera barbara, impressionante — e nel caso di Erdonio sono gli antichi che lo sottolineano — contro un innocente».
Inizialmente, osserva Camous, quella del tiranno era stata una figura positiva. C’è «una forte analogia tra la tirannide ateniese di Pisistrato e quella dei Tarquini». Pisistrato è entrato nella leggenda per aver combattuto nel VI secolo, con l’aiuto del démos (popolo), l’aristocrazia di Atene, la cui potenza era retaggio delle riforme di Solone e Dracone. Suo figlio Ipparco, che morì assassinato, fu solo un tiranno di transizione, mentre l’altro suo figlio, Ippia, non ha goduto del «prestigio riservato fin lì al tiranno» talché «la caduta dei pisistradi venne salutata come un evento positivo». Anche perché di lì, da quella caduta, avrebbe avuto origine la «democrazia». Fondamentale è, dunque, in questo contesto il ruolo del popolo. Anco Marzio aveva incorporato a Roma l’Aventino, il colle della plebe su cui, sottolinea Cicerone, gli umili si ritireranno a mo’ di secessione all’inizio della Repubblica. Tarquinio Prisco, in continuità con la politica di Anco, se ne era anche lui guadagnato i favori. Servio se la ingraziò ulteriormente. L’ultimo re di Roma, perdendone l’appoggio, perse anche il potere. Il Superbo è considerato tale proprio perché perse il consenso popolare. Secondo Camous la «deriva personalistica e tirannica del potere reale risale però ad Anco Marzio e, da un punto di vista strettamente politico, la rottura tra la monarchia latino-sabina e quella etrusca è del tutto inventata». Quella del Superbo è in ogni caso un’esperienza a sé. In particolare nella costruzione di un mito che riconduce a Ercole. Scrive Camous che «la connotazione erculea del potere del Superbo è un dato pieno di significati: cercando di appropriarsi della figura del grande eroe mediterraneo, il tiranno mira a rafforzare allo stesso tempo la sua legittimità, e, direbbero i politologi odierni, a “lavorare sul suo radicamento locale”». Ma cosa aveva fatto Ercole di così speciale per meritare la particolare venerazione di Tarquinio il Superbo? Aveva eliminato il bandito Caco che si era appropriato delle sue giumente e, quattro secoli prima della fondazione di Roma, si era alleato con il patriarca greco Evandro, re del Palatino. In questo modo il figlio di Zeus era divenuto la prima figura leggendaria che «aveva rotto il caos originario, annunciando la vittoria di Romolo su Remo, altro principe delle forze delle tenebre».
Poi però il Superbo aveva perso i favori dell’establishment di Roma e al momento opportuno era stato disarcionato. Quel che più attira l’attenzione di Camous è il desiderio, in particolare di Tito Livio, di presentare la nascita della Repubblica nel solco della legittimità e di aggiungere al colpo di palazzo «una componente popolare necessaria per la visione nazionale del romanzo storico romano». «Avremmo capito», arriva a scrivere Camous, «se l’ultimo Tarquinio fosse finito appeso a un gancio da macello, avremmo volentieri immaginato per la coppia diabolica una fine “alla milanese”, con il re nel ruolo di Mussolini, Tullia in quello della Petacci e la tribuna del Comitium in quello della stazione di servizio di Piazzale Loreto». E invece niente di tutto questo. Attraverso «un grossolano maquillage» si cerca di «far passare» la cacciata del Superbo per una rivoluzione. Mentre si trattò, probabilmente, di una prevedibile congiura riconducibile «alla frustrazione di un’aristocrazia romana che aveva visto ridursi il proprio potere tradizionale da quando la monarchia aveva deviato verso la tirannide, con l’arrivo delle dinastie etrusche e perfino fin dai tempi dell’ultimo re indigeno, Anco Marzio».
Uno dei personaggi che più attraggono l’attenzione dell’autore è il congiurato Bruto, avo di quel Bruto che ritroveremo al momento dell’uccisione di Giulio Cesare. Quando il figlio del tiranno stupra Lucrezia spingendola al suicidio, Bruto giurerà sul pugnale con cui la donna si è uccisa che la vendicherà. Qui Camous si pone in un ideale dialogo a distanza con Andrea Carandini, che in Res publica si è occupato con grande eleganza di questo specifico passaggio. Anche Bruto, fa però osservare Camous, ha origini etrusche, è figlio e fratello di due cospiratori mandati precedentemente a morte dal re. Per nascondere i suoi sentimenti ostili al monarca, Bruto finge di essere stupido. Dominique Briquel ha ben approfondito la collocazione di Bruto nel ruolo (ricorrente all’interno degli schemi indoeuropei) della divinità nascosta e provvidenziale che finge di essere ebete, del falso idiota che aspetta il suo momento. Interessante dettaglio. Il racconto, scrive Camous, «malgrado la volontà nazionalista di attaccarsi alla versione di una rivoluzione romana e popolare contro il tiranno abietto e straniero, presenta un aspetto difficile da eliminare: essa venne dall’interno del palazzo». Fu «un colpo di Stato domestico e Bruto era un etrusco da parte di madre». A dire il vero era anche qualcosa di più: un ufficiale del regime, un tribuno dei celeres , la guardia reale, che — fece notare Tito Livio — poteva all’occorrenza convocare l’assemblea del popolo. Certamente «può sembrare strano che un presunto idiota avesse avuto accesso a una carica di tale rilievo, ma, come riporta maliziosamente Dionigi, per un tiranno impopolare era meglio forse una guardia personale comandata da un personaggio presumibilmente inoffensivo e imbecille piuttosto che da un abile politico». Strano personaggio, Bruto. Sarebbe stato facile «e, per dirla tutta, conveniente per l’orgoglio nazionale romano presentare la fuga dei Tarquini come conseguenza di un vero sollevamento nazionale del popolo romano di fronte ai suoi tiranni stranieri!». E invece «la posizione di Bruto nel cuore della dimora dei Tarquini indebolisce la dimensione nazionale del rivolgimento da cui avrebbe avuto origine la res publica ». La leggenda avrebbe potuto fare a meno di quella figura. E invece ne ha fatto un protagonista. Di più: l’uomo che avrebbe traghettato Roma dalla tirannia alla Repubblica. Per questa ragione, scrive lo studioso, questa vicenda «noi la riteniamo presumibilmente storica, ancorché fortemente e fatalmente deformata».
Me perché queste complicazioni? La costruzione del tempio di Giove da parte dei due Tarquini manifesta «agli occhi di tutti — Romani, Latini, Etruschi — la nuova volontà egemonica della vecchia città di Romolo, il cui destino di conquistatrice fu rivelato dai suoi tiranni etruschi». È difficile sapere con certezza quando Roma prese consapevolezza della sua proiezione nella storia, o meglio del fatto che tale destino di grandezza era uscito allo scoperto al tempo dell’ultimo re etrusco. Ma «per radicare nel tempo la percezione di un destino romano, bisogna identificare una rottura evidente nel continuum storico della città». La vera rottura nella storia di Roma «è da ricercare in questa articolazione fondamentale tra la conquista di Veio nel 396 a.C. e la presa di Roma da parte delle orde galliche di Brenno nel 390». E, secondo l’autore non ci sono dubbi che «quel IV secolo a.C. che vide i Romani sconfiggere i loro vicini più temibili, gli Etruschi, e sottomettere definitivamente i Latini, fu un momento molto propizio per la comparsa di una vera e propria ideologia della conquista e dell’egemonia». Conquista ed egemonia alle cui origini era stato proprio l’ultimo dei sette re di Roma, Tarquinio il Superbo, tiranno colpevole di molti delitti eppure risparmiato al momento della detronizzazione. Risparmiato proprio perché implicitamente gli si riconosceva di aver fatto comprendere a Roma quali sarebbero stati i suoi destini.

Repubblica 27.6.17
Ma i comunisti non mangiavano i bambini?
Stefano Massini
Karl Marx, Dio denaro (Gallucci, euro 18 , trad. di Norberto Bobbio, introduzione di Luciano Canfora

Comunicazione agli asili: non lasciatevi illudere dal formato delle pagine e dalle immagini coloratissime, perché questo — sebbene travestito da libro per bambini — era e rimane un pericoloso libello dell’infantivoro Karl Marx. Altro che favole della buonanotte. Qui si dà forma scritta all’idea malsana che da oltre un secolo e mezzo turba il sonno ai piani alti del capitale, e cioè che il denaro — creato dagli uomini — ha finito per umilia
re gli uomini stessi, facendone un’infinita distesa di schiavi disposti a tutto in nome del codice Iban. Il denaro insomma sarebbe la radice del male, come d’altronde avevano già detto certi marxisti della prima ora come san Paolo nella Lettera a Timoteo. Ma siccome ogni teoria nasce da un nucleo essenziale, varrebbe la pena di leggersi il curioso libro edito da Gallucci, dov’è espresso in fondo il cuore inalterato e potente di quella proliferazione di tomi e di trattati che ha fatto da struttura dottrinaria al socialismo. Scordatevi tutto quello che è seguito, dai bolscevichi alla Bolognina: qui c’è solo un signore di nome Karl che riflette sul denaro. E lo fa in modo folgorante, inducendoci a un paio di intuizioni sul perché abbia ancora senso nel 2017 proporre all’attenzione dei lettori il barbuto orco di Treviri.
Intanto lode sia a chi si è inventato di stampare in questo spiazzante formato le più caustiche parole del vecchio Karl, tratte dai celebri Manoscritti del 1844, e qui inserite a piè di pagina sotto un tripudio di grafica neoespressionista, efficacissima, a firma dell’artista iberico Maguma. E qualcosa già si potrebbe dire sulla fruizione che la trovata ingenera: le parole di Marx (qui tradotte da Norberto Bobbio) scorrono come un commento in voice- over sui fotogrammi di una pellicola. Ed è un cortometraggio visionario, da bestiario duecentesco, in cui un osceno caravanserraglio di ominidi deformi — ora con fattezze da suini, ora trasformati in salvadanaio — sembra ritratto nel VII canto dell’Inferno a spingere macigni o fra pozzanghere d’inchiostro dorato che come metastasi si spartiscono la carta.
Trovo sia un’intuizione folgorante: il libro contiene macchie di luce, e quelle macchie — le uniche a brillare dalla carta opaca — sono per l’appunto i soldi.
E allora ti chiedi: è vero che il denaro oggi è luce? È una domanda chiave, direi, in un tempo come il nostro in cui un uomo dai capelli dorati (non a caso) si è seduto nello studio ovale grazie a slogan come «I poveri sono degli idioti: se sei ricco è la prova che vali». Mi si dirà, a parziale scusante, che il signor Trump è un presbiteriano, e che Max Weber scrisse in abbondanza su cos’è il profitto per i calvinisti. Certo. Ma vorrà pur dir qualcosa se oggi la malattia dell’oro si è fatta talmente endemica che le masse dei diseredati (quelle che un tempo il capitalismo lo avversavano) si sono piegate loro stesse, supine, all’idolatria del lusso tributando ai plutocrati non solo stima e ammirazione, ma perfino il voto. Luciano Canfora scrive qualcosa di prezioso a questo riguardo nell’introduzione al libro. Io mi limito a registrare che ricchezza non è più solo sinonimo di potere ma di consenso, e stare ai primi posti nella classifica di Forbes costituisce un passepartout per farsi eleggere a difendere l’altrui interesse. Pensate a Paperon dei Paperoni: nasce dalla matita di Carl Barks nel 1947 ed è il paradigma dell’americano arricchito, immigrato come i Lehman (loro dalla Baviera, lui dalla Scozia). Ebbene, Scrooge — -questo il suo nome, a modello dell’avido Dickens — - vive la sua ricchezza come un patrimonio solo suo, claustrofobico e precluso al mondo esterno, al punto che uno dei leit--motiv è la sua rancorosa solitudine nel mare d’odio che lo circonda (nel 1974 l’economista Richard Easterlin formulò il paradosso sull’infelicità degli abbienti, traducendo in numeri quel che Molière aveva tratteggiato nell’Avaro). Ebbene, oggi, Paperone sarebbe invece amatissimo: ostenterebbe il suo capitale sulle copertine dei rotocalchi, e dal resort di Mar--a--Lago, fra leoni laccati d’o- ro, chiederebbe il voto fra Paper-Melania e PaperIvanka.
Cos’è mai accaduto nel frattempo di così squassante? Mille le ipotesi. Ne tento una. Ho detto che le parole di Marx sono del 1844, ovvero dello stesso anno in cui il telegrafo faceva il suo debutto fra Baltimora e Washington: è un po’ come dire che, mentre il primo socialista formulava la sua critica al capitale, la culla del capitalismo intuiva nella comunicazione lo spietato strumento per diffondere il suo vangelo. Da quello stitico messaggio in codice Morse siamo approdati all’era dei social e del trading- online, ed è indubbio che la rete di interconnessione planetaria sia una portentosa macchina commerciale, fatta per «procurare a un altro uomo un nuovo bisogno» (Marx scripsit), e così alimentare l’apoteosi del denaro. Tutto è afferrabile nel grande bazar online e quell’onnipresente tasto “Comprami subito” sembra fatto per risarcire ogni frustrato dalle sue miserie, regalandogli la scarica di dopamina che scatta a ogni nuovo possesso, e che faceva sorgere in Marx il terrore di una società basata moralmente su una dipendenza. Intanto, oltre un secolo dopo che miss Elizabeth Magie si inventò Monopoly, la casa di giocattoli Hasbro ha lanciato una versione per bambini: l’idea è farli divertire — riferisco testualmente — facendogli «guadagnare un bel gruzzolo». Chissà se accanto alle caselle «Paga le tasse» e «Finisci in prigione» è stata aggiunta «Diventa Presidente »: il buon baby--capitalista dovrebbe metterlo in conto.
“Dio denaro” è un Marx illustrato per i più piccoli
Traduzione di Bobbio introduzione di Canfora
I disegni sembrano il cortometraggio di un bestiario medievale

Il Fatto 27.6.17
Daniel Day-Lewis, grazie di tutto. Sei un fenomeno
di Andrea Scanzi

Daniel Day-Lewis non ha sbagliato un film. Non gli è mai riuscito, non se l’è mai concesso. Ora che ha avvertito il rischio di uno smottamento qualitativo, ha fatto l’unica cosa possibile. La più difficile. Oltrepassata la boa di 60 anni, ha deciso di smettere. Pochi per chiunque, ma ancor meno per uno dei più grandi attori di sempre. Ha vinto tre Oscar e avrebbe potuto vincerne almeno altrettanti. C’è una continua inquietudine in ogni suo gesto. Gli aneddoti sulla sua meticolosità si sprecano. Di recente li ha ricordati anche Tom Leonard, in un pezzo prodigioso per il Daily Mail. Quando girava Il mio piede sinistro e interpretava Christy Brown, pretendeva di muoversi sulla sedia a rotelle. Al ristorante dovevano imboccarlo. Quando ordinava risultava incomprensibile, perché usava solo una parte della bocca. Come se fosse davvero Christy Brown: e magari lo era, anzi probabilmente. Così anche per Lincoln. Al suo fianco c’era Sally Field. Interpretava sua moglie. Lui, fuori dal set, continuava a parlare con la voce stridula del presidente e le scriveva messaggi in stile arcaico. Pretendendo che anche lei rispondesse come una vera donna vittoriana. Affittò pure una vecchia casa senza riscaldamento: era pieno inverno. L’aneddotica che ruota attorno al suo iper-camaleontismo, che è poi quel che lo ha reso il gigante che è stato (e a questo punto va usato per forza il passato), l’ha raccolta parzialmente proprio Tom Leonard: “Per L’ultimo dei Mohicani visse sei mesi nella giungla, imparando a scuoiare gli animali, usare l’ascia dei pellerossa e il fucile a pietra focaia. Per Nel nome del padre insistette a studiare masochismo. Si fece chiudere per due notti in cella, senza dormire, per prepararsi all’interrogatorio con poliziotti veri. Chiunque passasse davanti a quelle sbarre, era invitato a insultarlo”. Eccetera. Potrebbero apparire esagerazioni, e volendo essere razionali – quasi sempre uno sport noiosissimo – lo sono. Ma i geni seguono leggi proprie. Se non lo facessero, non sarebbero geni. Se Daniel non lo avesse fatto, non ci saremmo innamorati ogni volta di Michelle Pfeiffer. Proprio come capita a lui ne L’età dell’innocenza. Il regista era Scorsese. Ancora per lui, in Gangs of New York, imparò a fare il macellaio: per farsi salire la rabbia, ascoltava Eminem. Il gossip ha cercato molto e trovato poco. I colleghi dicono di non sapere nulla di lui. Menomale. Nessuno lo conosce e forse neanche esiste: esistono i suoi personaggi. Caso estremo di immedesimazione attoriale, a costo di rinunciare alla vita. Al quotidiano. Alla normalità. Quella normalità che, a cavallo tra Novanta e Duemila, lo portò una prima volta a ritirarsi. Disse di voler imparare un mestiere da artigiano vero. Si nascose qualche tempo in una bottega di Firenze, come un garzone qualsiasi, per imparare l’arte del ciabattino. Pare fosse bravo anche lì. Quasi trent’anni fa si ritirò anche dal teatro. Stava interpretando Amleto. Svenne sul palco perché aveva visto il fantasma del padre. Così, smise. Da ragazzo lo bullizzavano perché ebreo, così diventò cattivo come i bulli che lo vessavano: anzi di più. Quando il padre morì, aveva 15 anni. L’anno successivo, si rimpinzò di farmaci. Ebbe un’overdose e finì sotto trattamento psichiatrico. Gli attori, e in generale gli artisti, tendono a buttarsi via. Non smettono mai quando dovrebbero. Capita anche agli sportivi. Sono in pochi a fermarsi all’apice: per non sporcare una carriera preziosa, per concedersi addirittura il lusso di vivere. Accadde a Brel. Sta accadendo a Fossati. Accadrà a Day-Lewis. Grazie di tutto, Fenomeno.

Il Fatto 27.6.17
Zoja: “La paranoia è sempre lo stadio finale della politica”
di Antonello Caporale

Cadute le ideologie, morti i partiti, defunta ogni possibile virtù pubblica, alla politica non resta che la paranoia. Dosi di paranoia le abbiamo tutti. Hanno l’effetto di suggerire prudenza e alimentare il dubbio verso l’altro, quel po’ che ci permette di dare stima o avvertire sfiducia. Nella politica la quantità esonda e si trasforma in questione centrale. Il più grande studioso vivente della paranoia è senza dubbio il professor Luigi Zoja, psichiatra di fama e grande indagatore di questo vizio della psiche (Paranoia. La follia che fa storia. Bollati Boringhieri).
Facciamo finta che io sia un politico in ambasce, entri nel suo studio e chieda conforto alle sue virtù.
Facciamo finta.
Perché la paranoia affligge più di ogni altro l’uomo politico?
Cadute le ideologie, semplificato il messaggio (anche grazie alla responsabilità di voi giornalisti) la politica è alla continua ricerca di un capro espiatorio. Deve trovare a tutti i costi un nemico, uno da incaprettare con la colpa, con l’indice puntato.
Pure De Gasperi aveva un nemico, pure Togliatti.
Loro si difendevano con la prospettiva di un obiettivo da conseguire in un periodo di lungo termine, di progetti possenti. Di pensieri che comportavano trasformazioni epocali.
Il Sol dell’Avvenire.
Ecco, l’orizzonte nuovo.
I nostri non avendo idee sono più presi dal qui e ora.
Loro non avevano la necessità del risultato istantaneo, del titolo a effetto, della conquista del potere cotta in una sera e mangiata già il giorno dopo. Le ideologie erano una sorta di difesa naturale, restituivano al leader un clima di fiducia resistente agli spasmi quotidiani e alle variabili di umore, e lo difendeva dalle ossessioni del capro espiatorio.
Trovare a tutti i costi un nemico.
Vedevo nelle settimane scorse un dibattito alla tv tra Macron e Le Pen.
Tutti e due paranoici?
Il primo no, la seconda sì. Non c’era traccia di un pensiero ma solo di un nemico da abbattere: gli immigrati.
Sul suo lettino è adagiato il politico paranoico.
Gli direi di dosare la presenza pubblica. L’ego deve rientrare immediatamente nei limiti.
Come il colesterolo. Gli consiglia di nascondersi da qualche parte.
Dosare, non alimentare il suo narcisismo, non figurare sempre nei titoli dei giornali e nelle comparsate in televisione.
Mettiamo che il politico sia anche sfigato e perdente e in crisi di astinenza di idee. Ha bisogno di comparire.
La ricetta è questa e vale anche per il vincente.
La cura, professore.
Anzitutto un regime di vita dal punto di vista economico correlato ai vecchi standard ai quali era abituato prima di scegliere la vita pubblica.
No a vestiti firmati, auto di lusso, autisti, cene eleganti.
Capisco che la questione possa non essere dirimente con un Berlusconi.
Altre erano le sue paranoie.
Sul punto rammento un suo discorso contro i giudici esemplare.
Insomma, per chi non è ricco di famiglia lei consiglia sobrietà col portafogli.
È un equilibratore naturale. Medesima cura e attenzione va riposta nella famiglia. La vita privata deve assolutamente essere sottratta al regime del gossip, altrimenti è la fine.
Ahia. Qui iniziano le dolenti note.
Il disagio si acuisce quando il politico, già alle prese con la ricerca ossessiva del nemico, subisce un processo di isterizzazione.
Paranoico e pure isterico.
Tutti i titolisti che scrivono “l’ira di…” sappiano che concorrono ad averlo un po’ sulla coscienza.
I politici dovrebbero seguire un corso di gentilezza.
Poi esistono i grandi paranoici che danno vita a quella che chiamiamo “pseudologia fantastica”.
Vedono e illustrano un mondo parallelo, frutto della loro fantasia.
Il mondo fantastico piano piano viene sussunto in quello reale. C’è una sorta di trasmigrazione di senso e alla fine il parto della fantasia diviene ai loro occhi realtà. L’ha studiato bene Jung.
Chi era il politico indagato in quel caso?
Hitler.

Il Fatto 26.6.17
L’invenzione della paternità che sta alla base dell’Occidente
Gli uomini devono imparare a desiderare di provvedere ad altri e questo comportamento, essendo acquisito, non ha basi solide e può sparire facilmente, se le condizioni sociali non continuano a insegnarlo
di Luigi Zoja

Al contrario di quanto affermano i luoghi comuni, allo stato animale il maschio-padre non è necessariamente il genitore che in seguito ignora i suoi piccoli. Nella maggior parte delle specie di uccelli, ad esempio, la cura della prole è garantita equamente dal padre e dalla madre. Tuttavia, negli animali superiori il padre si limita quasi esclusivamente alla fecondazione. Gli etologi e gli antropologi arrivano alla stessa conclusione, secondo la quale la funzione umana del padre – che s’incarica di organizzare la famiglia e veglia sulle sue esigenze vitali – è un’invenzione della civiltà. In altri termini: l’invenzione del padre corrisponde all’invenzione della famiglia e quindi a una prima tappa della civiltà.
In questa ottica, forse, il padre è all’origine di tutto. Non per caso quindi si situa, almeno in Occidente, all’origine e al centro della grande metafora monoteista. Forse la società è esistita prima del padre, ma la famiglia no. Forse la preistoria è esistita prima del padre, ma la storia della civiltà no. Passando dalla femmina fecondata alla madre si registra un progresso iscritto nella continuità, mentre passando dal maschio fecondatore al padre siamo di fronte a una rivoluzione.
Come la civiltà, pure in grado di compiere passi da gigante, la costruzione della funzione paterna (mai trasformata in istinto, sempre obbligata a radicarsi a fatica in ogni nuova generazione) non si libera dei suoi piedi d’argilla nel corso dei secoli. Un’invenzione così potente deve basarsi, o addirittura derivare da una psicologia onnipotente. Deve quindi negare di essere artificiale e quasi arbitraria, nonostante lo sia. Si sente anche in dovere di negare che è una variante precaria, poiché recente, della storia dell’umanità. Le testimonianze delle epoche più diverse dimostrano che dobbiamo considerare la paternità in modo assai diverso dalla maternità. Gli uomini devono imparare a desiderare di provvedere ad altri e questo comportamento, essendo acquisito, non ha basi solide e può sparire facilmente, se le condizioni sociali non continuano a insegnarlo.
È facile proporre una verifica indiretta di questo problema. Se l’elemento decisivo dello sviluppo della civiltà risiede nella forza del ruolo paterno, le società e i gruppi più forti avranno un padre forte, e viceversa. La società americana è un buon esempio: da un lato la vocazione nettamente patriarcale dei puritani e degli ebrei è stata seguita dal loro successo sociale, dall’altro, invece, si è assistito alla marginalizzazione del sottoproletariato afroamericano costituito da famiglie dirette nella maggior parte dei casi da una madre o da una nonna. Con lo schiavismo il padre è caduto nell’oblio, perché i suoi diritti non erano più riconosciuti e i suoi doveri non erano più insegnati, mentre l’istituzione materna restava intatta: la madre non poteva essere separata dal figlio al momento della vendita, al contrario del padre. La spina dorsale della famiglia nera era così spezzata e lo sarebbe rimasta per secoli. La irrilevanza del padre è riassunta limpidamente nella norma più decisiva, che determinava la condizione giuridica di un cittadino: si considerava libero chi nasceva da madre libera, schiavo chi era figlio di madre schiava.
Il rapporto fra il mito e la realtà ci porta a interrogare un falso mito, particolarmente diffuso nella cultura dell’effimero, secondo il quale la decadenza del padre in Occidente sarebbe un fenomeno recente, essenzialmente del ventesimo secolo. Il crollo dell’istituzione paterna si è manifestato nel corso delle ultime generazioni: questa epoca è stata segnata dalle guerre mondiali e dalla disillusione provocata dai “padri terribili”. Per quanto riguarda la famiglia, si è assistito a un aumento esponenziale del numero dei divorzi che, quasi sempre, allontanano il figlio dal padre, perché il bambino è affidato alla madre. In Germania e in Italia (in cui non si erano cicatrizzate le ferite di questi “padri terribili”, di questi padri decaduti perché avevano combattuto dalla parte del male) dei figli-fratelli rivoluzionari hanno cercato di imporsi ai padri con la violenza. La generazione del Sessantotto, quindi, sfocia in una cultura dei figli che sparano sui padri.
Ma bisogna precisare una sfumatura. Sul piano storico e sociologico della famiglia, il padre, nella sua funzione, si rafforza fino all’inizio del xx secolo. Invece, sul piano delle grandi immagini collettive, la visione verticale era già stata sostituita dalla visione orizzontale al momento della Rivoluzione Francese. Allo stesso modo, il passaggio dall’Antico al Nuovo Testamento ribaltava gli sguardi: prima quello del Padre sui figli, poi quello che il Figlio rivolge al Padre o ai suoi fratelli.
In questa ottica, gli ultimi venti secoli rappresentano un allontanamento unico, solenne e lento, del padre che non è più il centro dello sguardo. Per interrogare il padre, quindi, bisogna riprendere delle immagini mitiche vere, semplici, che ne descrivono gli attributi: la forza e la debolezza.