lunedì 26 giugno 2017

SULLA STAMPA DI LUNEDI 26 GIUGNO

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nella miscellanea di oggi

Corriere 26.6.17
Orlandi, la mamma scrive al Vaticano «Non è un caso chiuso, è mia figlia»
di Maria Pezzano Orlandi

Eccellenza,
dopo avere letto le Sue dichiarazioni, voglio condividere con Lei il dolore che pulsa nel cuore di una madre ormai anziana. Risiedo in Vaticano, stavo ancora bevendo un caffè con il mio avvocato, quando le agenzie di stampa si sono scatenate con le sue durissime parole: «Per noi il caso è chiuso». Non era passata neanche un’ora da quando la mia famiglia aveva rivolto formalmente al Segretario di Stato la richiesta di vedere il fascicolo che riguarda Emanuela e il caso era già chiuso.
Io attendo da 34 lunghi anni di sapere che cosa è successo a mia figlia e la Sua risposta è giunta dopo solo una manciata di minuti. La mia bambina, il «caso chiuso», non meritava neppure qualche ora di ponderata riflessione. E tantomeno una risposta.
Le ricordo, Eccellenza, che i casi degli scomparsi si chiudono solo in due modi: o con il ritrovamento in vita di chi è sparito o con l’accertamento della sua morte. Me lo dica, allora, Eccellenza, come si è chiuso il caso di mia figlia. Perché se per Lei il caso è chiuso, allora di certo sa cosa è accaduto a Emanuela. Mi dica dove si trova mia figlia, Eccellenza, se Lei sa che è viva. Mi dica dov’è adesso, perché voglio andare subito a riabbracciarla. Attendo da troppo tempo questo momento.
Se invece Lei sa che Emanuela non c’è più, allora, Eccellenza, mi dica dove sono i suoi resti. Mi dica dove posso trovare la tomba della mia bambina. Sono sua madre, io l’ho partorita, l’ho allevata, l’ho vista crescere e poi sparire ancora prima che diventasse donna. Me lo dica, Eccellenza, dov’è sepolta Emanuela, vorrei portarle un fiore. Ogni giorno, vorrei ricoprirla di fiori. Ma se non ha risposte da darmi, allora, Eccellenza, il caso non è affatto chiuso; è ancora aperto. Dunque, la Sua frettolosa risposta è diplomatica? Invece, la Sua coscienza, l’abito che porta e il ruolo che riveste, dovrebbero obbligarLa ad aiutarmi a trovare Emanuela. Dovrebbero obbligarLa a confortare una madre desolata, ad asciugare le sue lacrime e a prodigarsi per lenire il vuoto immenso che ha lasciato Emanuela in questa famiglia quel pomeriggio di 34 anni fa, quando è uscita per andare a scuola di musica e non è più tornata.
Emanuela Orlandi non è un «caso chiuso», è mia figlia. E io la cercherò finché il Signore mi terrà in vita.

Corriere 26.6.17
L’ondata di destra conquista i ballottaggi Pd shock a Genova cade la roccaforte
Democratici battuti quasi ovunque, persi i sindaci nelle tre città lombarde. Affluenza sotto il 50%
Il centrodestra conquista le città
Un risultato e le future lacerazioni
di Massimo Franco

A caldo, il risultato sembra di facile lettura: il centrodestra ha vinto, il centrosinistra ha perso, e i Cinque Stelle si erano già spenti due settimane fa. A freddo, però, l’analisi deve spingersi oltre. Intanto, va registrato un brutto calo della partecipazione: sotto il 50 per cento. Nelle pieghe della vittoria di Lega e Forza Italia si annida la competizione tra Matteo Salvini e Silvio Berlusconi, sbilanciata a favore del primo. Quanto alle sinistre, il Pd deve prendere atto che l’effetto delle primarie è svanito; e che la finzione di unità a livello locale non ha dato i risultati sperati. Di fatto, il movimento di Beppe Grillo non c’è stato ma si sa che alle Politiche ci sarà, eccome.
A occhio, verrebbe da dire che i ballottaggi di ieri forse sono l’ultimo omaggio alle logiche del maggioritario, in vista della sua archiviazione; e che preparano mesi di lacerazioni e polemiche, a destra e a sinistra, in attesa di un sistema proporzionale dai contorni confusi. La resurrezione dell’ex Polo delle libertà, però, non può essere sottovalutata. È una conferma, dopo i segni di vitalità offerti al primo turno. E imporrà ai suoi capi di tentare un’intesa che faccia superare contrasti anche personali: sebbene difficilmente Berlusconi darà via libera a una candidatura di Salvini a Palazzo Chigi, ritenuta estremista e perdente.
Il profumo di un successo, però, fa miracoli. Per questo, il tempo che separa dalle urne potrebbe costringere Forza Italia e Lega a un’operazione di ricucitura gradita agli elettori. Lo «schema ligure» vede un Carroccio che guida e i berlusconiani in posizione subalterna: un rapporto asimmetrico che probabilmente faticherà a funzionare sul piano nazionale. Anche perché al Sud, a cominciare da Catanzaro, il centrodestra vince senza i leghisti. E fa crescere la sensazione che dalla crisi del sistema politico si esca in quella direzione; che il blocco sociale di riferimento di Berlusconi e Salvini chieda unità e sia pronto a premiarla. Il loro compito è trovare una leadership convincente e condivisa, che per ora manca. A sinistra, invece, un leader c’è. Ma appare sgualcito in maniera vistosa. Renzi è scomparso durante la campagna per le Comunali, sostenendo che il voto era solo locale: forse anche perché sentiva aria di sconfitta. Potrà dire che l’accordo con le altre sinistre non basta; e che la strada per tornare a Palazzo Chigi, il suo vero obiettivo, passa per altre alleanze. Eppure, si ritrova con un partito non pacificato: nonostante la scissione e la vittoria alle primarie; e con il suo interlocutore Berlusconi risucchiato a destra. Roccaforti storiche della sinistra come Genova e La Spezia sono state conquistate dal centrodestra. Sono caduti persino L’Aquila e alcuni piccoli bastioni «rossi» della Toscana come Pistoia. Proiettano un alone cupo su una segreteria forte all’interno dell’apparato ma incapace di calamitare elettori esterni alla sua cerchia stretta: un difetto che i ballottaggi esaltano negativamente. La domanda è dove andranno i voti perduti. Può darsi che in futuro vengano almeno in parte drenati dal movimento nascente dell’ex sindaco di Milano, Pisapia: magari per rilanciare un accordo col Pd. Ma a oggi, la prospettiva appare altamente improbabile. La sinistra non renziana tende a sconfinare in un’ostilità irriducibile verso il segretario dem. E quando chiede di ridiscutere le candidature alla guida del governo in un’ottica di coalizione, avanza una richiesta irricevibile. Renzi si sente blindato dal quasi plebiscito alle primarie, e non vuole concedere nulla agli avversari: pur senza escludere la possibilità di perdere altri pezzi. La prospettiva di un logoramento progressivo è bilanciata dalla volontà di andare alle urne e fare eleggere un «suo» gruppo parlamentare, compatto e pronto a seguirlo. Il problema è fino a quando. A novembre ci sono Regionali in Sicilia che danno i 5 Stelle in ascesa. E il «no» del presidente del Senato Grasso, a candidarsi per il Pd, è uno smacco che aggrava le incognite. Il rischio è quello di una guerra nella sinistra tra la nomenklatura renziana, minoranze sempre meno convinte della sua strategia, e la formazione di Pisapia. Ma da ieri è chiaro che le Politiche non saranno un referendum tra Renzi e Grillo. Esiste un serbatoio di voti di un centrodestra finora silente, in attesa di poter far sentire di nuovo la sua voce.

Repubblica 27.6.16
Gli errori della sinistra
di Stefano Folli

IN FONDO alle urne di un secondo turno desertificato dall’astensionismo, c’è la vittoria del centrodestra. Vittoria netta e indiscutibile, a cominciare da Genova, città simbolo di queste elezioni comunali. Era una storica roccaforte della sinistra, da oggi avrà un’amministrazione di destra, sull’asse Forza Italia-Lega- Fratelli d’Italia che già governa la regione con Toti.
Ma le liste berlusconiane e leghiste si affermano un po’ ovunque, da Nord a Sud. Berlusconi dimostra di essere politicamente immortale: un moderno “Rieccolo” come ha detto qualcuno ricordando la definizione che Montanelli aveva coniato per Amintore Fanfani. Ma è un Berlusconi che nel settentrione deve molto alla Lega e anche all’afflusso degli elettori Cinque Stelle (quelli che si sono scomodati per andare a votare, s’intende). L’esclusione del partito di Grillo da quasi tutti i ballottaggi — tranne Asti e Carrara — ha avuto l’effetto di rinforzare i candidati del centrodestra a scapito degli avversari strategici del M5S, vale a dire le liste del Pd. Certo, è una magra consolazione per il movimento anti-sistema, le cui ambizioni erano più alte e che si è ritrovato di fatto a spalleggiare uno dei protagonisti del sistema contro l’altro. Annoverando per se stesso solo la vittoria a Carrara.
PER il centrosinistra invece è una sconfitta cocente e molto dolorosa. A parte Genova, anche altrove i dati sono sconfortanti. Si è molto detto circa la pretesa di Renzi di essere autosufficiente, cioè non condizionato dai gruppi alla sua sinistra. Ma queste amministrative dimostrano che anche laddove il Pd si presenta come centrosinistra allargato, comprendendo quindi la sinistra radicale, il risultato è ugualmente negativo. Si veda il capoluogo ligure, appunto, ma non solo. La sconfitta — con l’eccezione di Padova — riguarda un ventaglio di centri troppo ampio per non suggerire urgenti riflessioni al vertice del partito renziano. Ci sono tutte le città che contano. C’è persino L’Aquila, che alla vigilia veniva data per acquisita alla sinistra come emblema di un ritrovato rapporto con l’opinione pubblica dopo gli anni travagliati del dopo-terremoto.
A questo punto il Pd deve considerare i suoi errori. A livello locale ma soprattutto nazionale. Sarebbe miope individuare qualche capro espiatorio o peggio denunciare inesistenti complotti. È evidente che il partito ha perso credibilità e non riesce più ad afferrare il bandolo della matassa. A oltre sei mesi dal referendum perso il 4 dicembre, la sconfitta in queste comunali è grave proprio perché capillare. Difficile pensare di cavarsela affermando che si tratta di “fatti locali”. Quando gli aspetti, diciamo così, locali esprimono lo sfilacciarsi di un tessuto politico e sociale tale da abbracciare una porzione così significativa del territorio, significa che la rotta è sbagliata. E non si tratta solo di alchimie, di alleanze da cercare a tavolino o di un ceto politico da riconnettere. A questo punto c’è una relazione con il proprio elettorato che va ripensata prima che sia troppo tardi. Ammesso che già non sia tardi. In verità il segnale del 4 dicembre è stato ignorato e oggi il partito di Renzi paga le conseguenze di questa sordità. Senza peraltro che altri abbiano in tasca la soluzione della crisi.
Quanto al centrodestra vincitore, il limite è che si tratta di elezioni locali. Nel senso che Berlusconi e forse anche Salvini sono i primi a sapere che l’alleanza vincente a livello locale non può essere riproposta tale quale a livello nazionale. Soprattutto se il sistema elettorale sarà proporzionale, con ciò incentivando la presentazione di liste separate. E non è solo questo. La linea di Salvini verso l’Europa non è conciliabile con quella dell’ultimo Berlusconi, di nuovo vicino al Partito Popolare e ad Angela Merkel. Prima di immaginare una lista unica del centrodestra alle politiche, qualcuno dovrà cambiare idee e posizioni in modo netto. Forse è più facile prevedere che ognuno vada per conto suo a raccogliere voti per poi discutere nel nuovo Parlamento. Un Parlamento che a questo punto potrebbe anche avere una maggioranza di centrodestra. Chissà se è lo scenario preferito da Berlusconi. Forse no: l’idea di governare insieme a un Salvini trionfante non è proprio in cima ai desideri del “Rieccolo” di Arcore.

La Stampa 27.6.17
“Non è soltanto la sconfitta di Renzi
Fallisce il modello Pisapia-Bersani”
Cofferati: il Pd è in forte calo e il centrosinistra allargato non convince
di Alessandra Costante

«Se avessero ragione gli exit poll questa non è solo la sconfitta di Renzi, ma anche del centrosinistra allargato modello Pisapia-Bersani». I seggi elettorali sono chiusi da poco e Sergio Cofferati è appena tornato a casa dopo il voto. Nei confronti di Gianni Crivello, candidato retto da una coalizione con dentro Pd, Mdp e simpatizzanti di Campo Progressista oltre che alcuni movimenti civici, l’ex leader della Cgil e oggi esponente di Sinistra Italiana nei giorni scorsi aveva speso un endorsement diversamente unitario: «Meglio fare opposizione ad un sindaco progressista che ad uno del centrodestra» aveva detto spingendo i suoi al voto.
Gli exit poll parlano della sconfitta del centrosinistra...
«È la sconfitta del centrosinistra allargato, non solo di Renzi ma anche di Pisapia e Bersani. Qui c’era un candidato scelto dal Pd, perché l’indicazione del nome è arrivata da Roma, ma che non è iscritto al Pd. Ed era anche la sperimentazione più robusta del centrosinistra allargato».
Dice che Gianni Crivello era il candidato sbagliato?
«Ho grande stima e rispetto per Crivello, però per problemi interni al Pd e alla coalizione, è stato scelto un assessore uscente di una giunta che ha dato pessima prova di sé. Ha incarnato la continuità con Doria e, sinceramente, non poteva prenderne le distanze. La sua è stata una corsa ad handicap: schieramento vecchio e un giudizio politico negativo».
Da queste elezioni amministrative, Renzi esce rafforzato o indebolito?
«Qui c’è un problema che riguarda sia il Pd sia il centrosinistra largo di Bersani e Pisapia. Se si vanno a vedere i dati del primo turno, il Pd è molto calato (risultato: 19,8%, ndr) e Mdp e Pisapia non arrivano al 3%. È una doppia battuta d’arresto».
E quindi?
«C’è bisogno di costruire con pazienza un’alternativa che esca dagli schemi».
Considera già chiusa l’esperienza di Mdp?
«Se esci dal partito con quegli argomenti e poi dici al tuo elettorato che si allei proprio con quel partito, entri in una contraddizione insanabile».
Che peso hanno avuto in queste amministrative la sconfitta del centrosinistra alle regionali?
«Non credo un peso diretto. Ma c’è un’involuzione vistosa e continua del Pd che ha portato non solo alla perdita della Regione Liguria, ma anche di Savona lo scorso anno e di Genova quest’anno. E non si è voluto prendere atto di questa involuzione che riguarda la linea politica del Pd e la democrazia interna al partito, tanto che a Genova non hanno voluto fare le primarie per paura di non governarle».
E sulla politica nazionale quanto influiranno queste amministrative?
«Difficile dirlo. Bisogna vedere nelle prossime ore il risultato complessivo. Se fosse tutto così, metterei in conto il tentativo di Renzi di andare a votare presto. Questo anche perché la finanziaria sarà molto complicata per l’Italia dovendo osservare tutti i vincoli del fiscal compact e il varo della legge di bilancio sarà difficile».

La Stampa 27.6.17
Operazione tenaglia sull’ex premier
di Marcello Sorgi

Dopo quelle di Roma e Torino del 2016 a favore dei 5 stelle, la sconfitta del centrosinistra a Genova (e non solo, praticamente dappertutto), stavolta a vantaggio del centrodestra, ha un valore politico e simbolico doppio. Significa che anche nel caso, verificatosi quest’anno nella tornata di amministrative che ha coinvolto quasi dieci milioni di elettori, di riflusso populista (Genova, non va dimenticato, è la città di Grillo, ciò che rende più amaro per l’ex-comico il risultato di ieri), il Pd e i suoi alleati - al contrario del resuscitato centrodestra - non rappresentano più una scelta credibile di governo, neppure se si presentano uniti, in un capoluogo storicamente legato alla sinistra e che avevano amministrato ininterrottamente per tutta l’epoca della Seconda Repubblica, anche quando l’amministrazione regionale aveva cambiato di segno. A voler adoperare un po’ di malizia, si può dire che ha funzionato perfettamente lo schema di gioco messo in campo dagli avversari di Renzi, che prevedeva di inneggiare al ritorno della coalizione post-ulivista in caso di vittoria, e scaricare tutta la responsabilità di un eventuale insuccesso sulle spalle del segretario.
Per quanto il leader possa minimizzare, valutando l’esito dei ballottaggi come un voto locale, e mettendo in luce qualche risultato in controtendenza, resta il fatto che all’indomani della sua plebiscitaria riconferma alla guida del partito, dopo la conclusione funesta del referendum del 4 dicembre e la precipitosa archiviazione nelle urne della stagione delle riforme, al primo e al secondo turno Renzi, anche se non da solo, è stato battuto, e così anche il Pd e i suoi alleati.
D’altra parte, mettetevi nei panni di un elettore che abbia atteso dall’anno scorso un qualche segnale di resipiscenza rispetto al suicidio calcolato e consumato a dosi regolari dal centrosinistra negli ultimi dodici mesi. Al referendum, una parte del partito, l’ex-minoranza bersanian-dalemiana che poi ha dato vita alla scissione, s’è schierata contro il governo e ha contribuito alla vittoria del «No». Poi ha chiesto il congresso, di cui, una volta ottenuto, ha proposto il rinvio; e subito dopo, capito che Renzi lo avrebbe vinto, ha preferito andarsene. Ma uscita una minoranza, se n’è subito formata un’altra, che si comporta più o meno allo stesso modo e si prepara ad allearsi con partiti e gruppi collocati a sinistra del Pd. Mentre su questo stesso terreno, l’ex-sindaco di Milano Pisapia, messosi in moto per federare l’area rissosa in cui si muove tutto l’arcobaleno dei nemici di Renzi e riportarla all’alleanza con l’ex-premier, sta finendo col mettere su un partito concorrente, che se nascerà, nascerà sulla parola d’ordine «tutto fuorché Renzi».
L’elettore di cui dicevamo ha assistito così a una singolare campagna elettorale in cui il segretario era assente e gli altri leader di sinistra suoi avversari facevano a gara a sparargli addosso e a rinnegare ogni ipotesi di recupero a livello nazionale della coalizione con cui, tuttavia, si erano presentati nelle città in cui si votava, ottenendo spesso che il candidato sindaco fosse loro espressione e il Pd si rassegnasse a fare da portatore di voti e a pagare il conto in caso di sconfitta. Ora, appunto, per quale ragione il suddetto elettore avrebbe dovuto votare per il centrosinistra, invece di astenersi, o legittimamente, come prevede il meccanismo dei ballottaggi, votare per il centrodestra per punire i campioni del suo schieramento?
Spiace davvero per Romano Prodi, l’uomo che per due volte riuscì nel miracolo di rimettere insieme tutti i cocci dell’alleanza e portarla alla vittoria, per poi esser giustiziato le stesse due volte, una terza come candidato alla Presidenza della Repubblica, e malgrado questo, non pago, ci riprova una quarta; spiace per il governo Gentiloni, che in questo marasma riesce pure ad affrontare i terribili problemi del Paese; spiace per tanti seri amministratori, a cominciare dai pochi sindaci che ieri hanno vinto. Ma c’è una cosa che va detta a questo punto: il centrosinistra è finito, e far finta che questo non sia accaduto, o sia ancora rimediabile, non è più possibile.

La Stampa 27.6.17
Renzi: destinati a perdere se l’unico nostro schema è allearci con la sinistra
“Ragionavamo in chiave anti-Grillo, ma Berlusconi c’è ancora”. Sconfitta storica anche a La Spezia
di Francesca Schianchi

A poche ore dalla chiusura dei seggi, i vertici del Pd si sono confidati con onestà: se si perde Genova ma si riescono a vincere Taranto, Padova, L’Aquila più una città in Toscana e una in Lombardia, è “solo” una sconfitta. Meno di così, è una débâcle: proprio quella che si concretizza a notte, con sconfitte da L’Aquila a La Spezia a Lodi, nonostante le sorprese positive di Padova e Lecce. Un magro bottino che oggi commenterà il vicesegretario, Maurizio Martina. Resterà in silenzio Matteo Renzi, che ieri ha atteso i risultati in famiglia a Pontassieve esprimendosi via Facebook, dialogando con gli utenti del social network ma, in una giornata così delicata per il partito, per parlare solo di sport, la Ferrari e lo «scandalo arbitrale» di cui è stata vittima l’Italia del basket femminile. Forse nemmeno oggi scenderà a Roma, a fronteggiare chi, come l’avversario interno Andrea Orlando, già nella notte dava il via a una resa dei conti: «Il Pd isolato politicamente e socialmente perde quasi ovunque. Cambiare linea. Ricostruire il centrosinistra subito».
Già due settimane fa, dopo il primo turno, ai piani alti di Largo del Nazareno avevano ragionato sui risultati. Quelli già acquisiti, e quelli che sarebbero arrivati ieri, prevedendo un’ampia vittoria del centrodestra. Convinti con disappunto che, se il M5S è uscito male da questa tornata, i voti che loro perdono non vanno verso sinistra, ma verso destra. E lì, in quell’area, dove hanno rinsaldato l’alleanza tradizionale Forza Italia-Lega hanno vinto: a partire dalla città più attesa di questo voto, Genova, persa dopo anni di dominio incontrastato. Dove pure il centrosinistra si presentava unito, una coalizione sbilanciata a sinistra, sostenuta anche dagli scissionisti di Mdp perché, spiegano dal Pd ligure, «dopo la sconfitta della Paita di due anni fa si pensava che con un renziano non si potesse vincere». Ecco, è proprio a partire dai dati del capoluogo ligure che il segretario dem ieri sera discuteva con i suoi: «Berlusconi c’è ancora. Siamo andati al voto con uno schema anti-Grillo, ora bisogna trovarne uno più efficace contro il centrodestra: dobbiamo rafforzare il profilo riformista». Frase che i suoi interlocutori hanno interpretato in un solo modo: se per fronteggiare Grillo bisognava inseguire Pisapia, contro la destra serve un Renzi più prima maniera. Alla faccia della richiesta orlandiana di «ricostruire un centrosinistra».
Perché è ovvio che dal risultato di stanotte si trarranno anche conclusioni sul piano nazionale. Prima tra le osservazioni del segretario del Pd, quindi, è che l’ex Cavaliere è tornato, è di nuovo temibile, e queste comunali potrebbero convincerlo definitivamente a tornare a braccetto con Salvini. Non solo: dal Pd sono convinti che un Berlusconi di nuovo in auge potrebbe avere conseguenze anche sull’immediato, una grande forza attrattiva, nel Palazzo, sull’area di Alfano. E poi, seconda osservazione, il rapporto con la sinistra fuori dal Pd, a partire da Pisapia. Se Genova dopo anni di vittorie di centrosinistra è persa, se mettendo insieme il largo e plurale centrosinistra di cui parla Pisapia il risultato è stato quello di consegnare la città alla strategia di Toti e Salvini, allora forse non è quello lo schema vincente per il centrosinistra. Cioè non è utile rincorrere i pezzi di centrosinistra fuori dal partito – operazione che richiederebbe, secondo Prodi, di superare robusti «veti personali» - ma occorre accentuare piuttosto il profilo più riformista, o se si vuole “di destra” del Pd. Mentre Renzi ragionava così, mentre squadernava l’ipotesi di escludere del tutto una coalizione con Bersani, D’Alema e compagni, qualcuno dei suoi ha colto in lui un sospiro di sollievo: in fondo, non tutte le sconfitte vengono per nuocere.

La Stampa 27.6.17
“Cari compagni riflettete: con la destra che avanza basta logorare Matteo”
“Pd resta unico baricentro moderato. Con Pisapia dobbiamo cercare un accordo programmatico”
di Carlo Bertini

«Che la partita fosse difficile lo sapevamo, ma siamo convinti che queste restino elezioni amministrative e che la partita si giocherà a livello nazionale, con il Pd unico baricentro per l’elettorato moderato». Debora Serracchiani accusa il colpo, ma prova a contenere i danni, «perché se si deve parlare di débâcle questa riguarda i grillini che sono stati del tutto assenti».
Una botta del genere dovrebbe comunque sconsigliare un ritorno a breve alle urne, o no?
«Non credo ci sia una volontà di andare a votare anticipatamente, anzi, credo che il lavoro fatto in Parlamento in queste settimane dimostri la volontà di completare le riforme».
E come si giocherà la partita a livello nazionale con la sinistra lacerata e divisa?
«La ricerca di un campo di centrosinistra si consolida guardando a Pisapia. E mi auguro che di fronte all’avanzata della destra leghista che dialoga con i 5Stelle qualcuno a sinistra inizi a riflettere che non è la soluzione continuare a logorare Matteo Renzi e il Pd».
Consegnare una roccaforte rossa come Genova alla destra è sintomo di un grave problema politico nazionale per Renzi?
«La leadership del Pd non è discussione, visto che abbiamo appena fatto le primarie. Queste sono state elezioni in cui le dinamiche locali sono state preponderanti ma certo la perdita di Genova deve farci ragionare sul modo per riconquistare il consenso che era abituato ad avere il Pd nelle città».
Quale è la sua lettura sulla sconfitta genovese?
«Noi abbiamo purtroppo perso la regione due anni fa, il Pd ligure è stato commissariato e in questi mesi abbiamo cercato di ricompattare il centrosinistra per presentarci uniti a Genova. Ma non possiamo nascondere la testa sotto la sabbia, che ci sia difficoltà e affanno è chiaro. Dobbiamo arrivare preparati alle politiche, anche alla luce della complessità del sistema elettorale: con i sistemi con cui andremo a votare sarà necessario ricercare un allargamento delle alleanze verso sinistra e recuperare i tanti che non sono andati alle urne votare».
Inseguirete ancora l’accordo elettorale con Pisapia?
«Con lui intendiamo trovare un accordo programmatico, che tenga insieme le scelte del governo Gentiloni e prima ancora del governo Renzi: il jobs act, il reddito di inclusione, la nuova riforma delle pensioni con l’ape. E su questi temi dovremo trovare un dialogo che c’è sempre stato, visto che Pisapia ha votato sì al referendum. Sarà più complesso tenere insieme altri pezzi di sinistra, specie se ci sono divisioni basate su pregiudizi e personalismi».
Non crede che alla luce di questi risultati tornerà la spinta al proporzionale in Pd e Forza Italia?
«L’unico che ne parla è Berlusconi. Il Pd ha fatto tutto ciò che doveva per rispondere all’input di Mattarella e abbiamo visto come è andata vista l’inaffidabilità dei 5Stelle. E quindi tentare una riforma è complicato, se non impossibile: al momento è probabile che si vada a votare con i sistemi vigenti usciti dalla Consulta».

La Stampa 27.6.17
Scotto (Mdp): il Pd perde quando fa la guerra alla sinistra
“Così si afferma il centrodestra, bel risultato”
di Alessandro Di Matteo

Arturo Scotto, Mdp, le amministrative non vanno bene per il Pd ma nemmeno per chi è a sinistra di Renzi…
«Intanto vorrei dire una cosa sull’astensione: ormai metà degli elettori non vota più nemmeno per il proprio sindaco. Ci troviamo di fronte a una vera e propria emergenza democratica, una sconfitta per tutti ma che pesa soprattutto per il campo della sinistra e del centrosinistra. Complessivamente c’è il centrodestra in campo: torna ad avere un radicamento nel territorio e sembra l’unico in grado, oggi, di vincere le elezioni politiche. Avevamo detto nel corso degli ultimi mesi che bisognava guardare di là, al consolidamento di una destra aggressiva e protezionista, mentre il principale problema che sembrava affliggere il capo del Pd era come fare fuori la sua sinistra. Un bel risultato».
Tutta colpa di Renzi? Ma il centrosinistra perde anche a Genova, nonostante si sia presentato unito e con un candidato tutt’altro che renziano e dove il sindaco uscente viene da sinistra…
«La sconfitta a Genova è paragonabile alla sconfitta di Bologna di 15 anni fa. La sconfitta di Crivello va inserita in un flusso che portò due anni fa il centrosinistra a crollare con la Paita, e quest’anno il Pd a prendere meno del 20% al primo turno, mentre le liste civiche del candidato sindaco arrivano al 14%. Il Pd è un partito in profonda crisi in una regione dove prendeva percentuali tosco-emiliane. Il fatto è che pesa un giudizio nazionale, gli elettori sono molto critici rispetto a questi anni di governo. Se ti presenti alle amministrative dicendo viva il Jobs Act e la Buona scuola… Senza una svolta progressista il centrosinistra non ce la fa».
Non peserà anche la rissa continua? Voi non volete Renzi, Sinistra italiana e Montanari-Falcone non vogliono Pisapia e gli ex Pd. Prodi dice che ci sono troppi rancori personali…
«Il tema non è la rissa, ci sono divergenze politiche strategiche probabilmente insormontabili. Noi pensiamo che il tema non siano i rapporti personali a sinistra, ma una diversa idea del governo dell’economia. Renzi è ancora intrappolato in una visione subalterna al mercato, noi pensiamo che sia il tempo della solidarietà e della redistribuzione. Sabato primo luglio lanciamo una proposta larga al Paese. Non una sinistra che si chiude, ma una sinistra che vuole fino in fondo misurarsi con la sfida del governo insieme a Giuliano Pisapia e a tanti altri. Siamo autonomi e alternativi a questo Pd. Sarà una piazza aperta a tutti, anche a quelli che a sinistra considerano impossibile un centrosinistra nuovo e alternativo. E Pisapia avrà la funzione del federatore».


Repubblica 26.6.17
Cuperlo: “Una frattura con il nostro elettorato folle andare avanti così”
Ignorare questo allarme rosso che arriva dalle urne significa andare a sicura sconfitta anche alle politiche
di Mauro Favale

ROMA. «C’è una frattura tra noi e un pezzo della società che nel Pd dovrebbe riconoscersi. È inutile negarlo». Gianni Cuperlo, ex sfidante di Matteo Renzi alle primarie del 2013, esponente della minoranza Dem, non getta tutta la croce di questo risultato elettorale addosso al segretario.
Eppure i primi dati ci restituiscono la fotografia di un centrosinistra sconfitto nelle città più importanti. Di chi è la responsabilità?
«Se si perde la ragione non è mai una soltanto. Alle amministrative i candidati e il giudizio sui temi locali contano ma pesa anche il clima generale, il sentimento del Paese. Bendarsi gli occhi non aiuta a capire e meno ancora serve cercare un colpevole su cui rovesciare le colpe. L’errore più grave però sarebbe rimuovere l’eventuale sconfitta perché è la premessa per perdere di nuovo ».
Una sconfitta del genere non potrebbe fornire un argomento a Renzi? Queste Comunali dimostrano che nemmeno con le coalizioni il centrosinistra vince.
«Servirà ragionare sui numeri ma vedo tre questioni. Un’astensione sempre più massiccia che incrina la democrazia. Una successione di risultati negativi che investe il Pd da tre anni: le Regionali in Veneto, il trauma di Torino e Roma, e poi Perugia, Venezia, il referendum di dicembre e adesso lo schiaffo di Genova. Fingere che si tratti di eventi senza un legame vuol dire negare la realtà. La terza questione è come rilanciare oggi il centrosinistra perché la coalizione in diverse realtà c’era e non è bastato. Quindi la riflessione riguarda tutti e se ne esce solo con una grande volontà comune».
Il segretario è rimasto defilato in questa campagna: doveva spendersi di più?
«La rottura tra noi e un pezzo della società che nel Pd dovrebbe riconsocersi dura da alcuni anni e senza aggredire questo limite non si torna a vincere. Tanto più che la destra è viva e non vedo spazi per alcuna operazione alla Macron. La sola strada è ripartire dai nostri principi, da una discontinuità di contenuti, stile, linguaggio e ricostruire così una fiducia che si è smarrita».
Cosa succede adesso? Proverete a dare uno scossone alla segreteria Renzi?
«Toccherebbe a chi è alla guida farsi carico di questo warning, questo allarme rosso uscito dalle urne. Non vederlo equivale a spingere il Pd a una probabile sconfitta alle Politiche. La saggezza di una classe dirigente è nel coraggio di correggere i propri errori. Questa capacità finora non vi è stata ma continuare a passare col rosso a questo punto sarebbe un atto di incoscienza».
Qual è la prospettiva per la minoranza del Pd? Provare a convincere Renzi a cambiare linea? Oppure approfondire il dialogo con Pisapia?
«Non sono due cose in contraddizione. Continuo a battermi per un partito diverso e sabato saremo in piazza con Pisapia e molti altri per dire che un centrosinistra largo, civico, vincente si deve costruire e per riuscirci serve un Pd disposto a riaprire quel cantiere. Io non chiedo abiure a nessuno ma di ripartire dall’intelligenza e passione che fanno mettere il bene di tanti davanti a quello di uno».

Repubblica 27.6.17
Perché l’esaltazione del mercato resiste anche alle crisi più profonde
La morte annunciata (e mai avvenuta) del neoliberismo
di Roberto Esposito

Fra tante analisi, accuse e difese del neoliberismo, la vera domanda è quella posta da un celebre saggio di Colin Crouch, sulla sua “strana non-morte”. Come ha fatto a sopravvivere al suo palese fallimento, uscendo rafforzato da una crisi che avrebbe dovuto distruggerlo? Perché, dopo tanti avvisi di sfratto, continua a restare il paradigma di riferimento delle politiche globali – una specie di zombie, come lo chiamò Paul Krugman sul “New York Times”? Se l’interpretazione del neoliberismo si fermasse alle formule correnti che lo dipingono solo come generatore di povertà, nemico della democrazia e fomentatore di conflitti sociali, la sua lunga resistenza resterenne inspiegata. Probabilmente
c’è qualcosa di più da comprendere, prima di contrastarlo con strumenti adeguati al reale livello in cui si muove.
Già Pierre Dardot e Christian Laval, nel loro Guerra alla democrazia. L’offensiva dell’oligarchia neoliberista (DeriveApprodi), fanno un primo passo in questa direzione. Diversamente da quanti vedono nel neoliberismo un meccanismo puramente economico, essi lo considerano un vero sistema di governo della società, che modella in base alle proprie esigenze. Esso penetra nella stessa vita del lavoratore, facendone una sorta di imprenditore di se stesso. L’individuo non deve limitarsi ad avere un’impresa, ma deve esserlo, adoperando la sua medesima vita come un capitale umano su cui investire. In questo quadro la politica non si è eclissata, come spesso si dice, ma adeguata a tale orientamento. Siamo lontani dalle analisi economicistiche di Thomas Piketty, che attribuisce l’aumento delle disuguaglianze alla divaricazione tra tassi di crescita del reddito nazionale e tassi di rendimento del capitale. In realtà la strategia neoliberista è assai più capillare. Essa richiede da un lato interventi politici coerenti; dall’altro una modificazione radicale delle rappresentazioni simboliche che incidono profondamente sulla psicologia degli individui.
Un contributo ancora più sottile alla comprensione del fenomeno viene adesso dall’ultimo libro di Massimo De Carolis, Il rovescio della libertà( Quodlibet 2017). Tutt’altro che essere una forza negativa, impegnata soltanto nello smantellamento dello Stato sociale, il neoliberismo ha colto le potenzialità innovative contenute nella crisi della civiltà moderna. Contrariamente ai filosofi che vi hanno visto soltanto nichilismo e alienazione, esso ne ha legato i passaggi traumatici a un vero e proprio progetto antropologico. Piuttosto che condannare gli animal spirits, vale a dire la potenziale concorrenza degli individui, li ha valorizzati, incanalandoli in istituzioni capaci di contenerne la carica conflittuale entro limiti accettabili. Da qui una netta svolta rispetto al liberismo classico. Se questo intendeva ridurre al minimo ogni regolamentazione, immaginando che la libera fluttuazione dei prezzi determinasse un equilibrio ottimale, il neoliberismo affida alle istituzioni il compito di governare tale processo, proteggendolo, almeno in teoria, dall’ingerenza di fattori devianti.
Intanto bisogna distinguere, all’interno della galassia neoliberista, la scuola austriaca di Friedrich von Hayek e Ludwig Mises, influente soprattutto nel mondo anglosassone, da quella tedesca rappresentata da Walter Eucken, Alexander Rüstow, Wilhelm Röpke, riunita, già negli anni Quaranta del secolo scorso, intorno alla rivista Ordo. Se i primi si muovono ancora nel solco classico della riduzione al minimo dei vincoli sociali, i secondi abbandonano la via tradizionale del laissez faire, sostenendo un forte interventismo da parte dello Stato, che deve garantire la stabilità monetaria, difendere l’economia dall’inflazione, imporre il pareggio di bilancio. Che tale ideologia governi ancora la società tedesca è facile vedere.
Se si leggono libri come Civitas humana di Röpke e Human Action di Mises con gli occhiali fornitici da Michel Foucault vi riconosciamo una vera e propria “politica della vita”, tesa a disciplinarla secondo le esigenze del mercato. Al suo centro l’assunzione in positivo degli istinti biologici degli individui, destinati a produrre una continua dinamizzazione dei processi sociali. Quelle stesse mutazioni profonde delle società ipermoderne, interpretate dai filosofi primonovecenteschi come sintomi regressivi dello spirito europeo, vengono valorizzate come risorse innovative dai teorici neoliberisti.
Come tale progetto sia andato incontro a una serie di fallimenti epocali è dimostrato dagli effetti distruttivi delle attuali politiche neoliberiste, sempre più gestite da grandi agglomerati economico- politici a vantaggio dei ceti più abbienti con uno spettacolare incremento delle disuguaglianze. Quella in atto è una sorta di rifeudalizzazione del mercato che tende ad atrofizzare le stesse potenze che ha liberato, in un intreccio opaco tra affari e potere. In questo modo la crisi, assunta come forma di governo, alimenta nuove crisi, spingendo fasce sempre maggiori di popolazione verso la soglia di povertà. Ma la resistenza a questi processi involutivi deve essere condotta allo stesso livello di discorso. E cioè deve basarsi sulle medesime potenzialità innovative evocate, e tradite, dal progetto neoliberista. Le dinamiche di globalizzazione e i processi di tecnologizzazione delle competenze sono troppo avanzati per tentare di bloccarli dall’alto. Non resta che cercare di guidarli in una direzione diversa. Le nostre classi politiche appaiono largamente inadeguate. Ma, se si vuole spezzare l’avvitamento della crisi su se stessa, non c’è altra strada.

Repubblica 27.6.17
Marco Damilano racconta in un libro il male oscuro della politica italiana
E l’insostenibile leggerezza del nuovismo
di Massimo Giannini

Fu un tormentone, all’epoca. «Nuovo? No, lavato con Perlana!». Non c’era dibattito pubblico o chiacchiera tra amici in cui l’astuto slogan della Henkel non si intrufolasse, a proposito o a sproposito. I Magnifici Ottanta stavano per finire. Il lavacro di Tangentopoli stava per portarsi via tutto: gli yuppies e l’edonismo reaganiano, la Milano da bere e “la nave va” del Caf. Come spesso capita, i pubblicitari avevano fiutato il cambio di vento. Non buttare. Non cambiare. Lava, piuttosto. E il vecchio sembrerà nuovo. Che c’è di più vero, in tempi di marketing applicato alla politica? Chi potrebbe
negare che, da Tomasi di Lampedusa in poi, invece di acciuffare pantere studentesche o smacchiare giaguari bersaniani, continuiamo a cavalcare gattopardi italioti? Ci siamo illusi di attraversare almeno Tre Repubbliche, inseguendo leggiadri le solidissime Cinque della Francia semipresidenzialista e maggioritaria di cui in questi giorni celebriamo le meraviglie macroniane. E invece, dopo tanto vacuo peregrinare tra presunti e pretesi “cambiamenti”, ci ritroviamo sempre alla Prima. Ora persino con lo stesso sistema elettorale: un bel proporzionale, che spinge all’ammucchiata consociativa. Ma con un dramma in più che nel frattempo si è già consumato, rispetto alla Repubblica dei padri (e dei padrini): l’eclissi dei grandi partiti di massa.
Benvenuti nell’Italia Trasformista del Sempre Uguale, che dall’assassinio di Moro in poi è cambiata tante volte senza cambiare mai. Ce la racconta, con la competenza e la passione di sempre, Marco Damilano nel suo Processo al Nuovo. Più che un processo, una sacrosanta requisitoria contro i tanti «uomini dell’eterno presente» che popolano il nostro Truman Show. Che usano lo storytelling per manipolare la realtà e mutarla in reality. Che abusano degli annunci di trasformazioni epocali con l’unico scopo di mantenere il potere qui ed ora, raccontandosi come “innovatori permanenti”.
Le passa in rassegna tutte, il vicedirettore dell’Espresso, le velleità nuoviste degli ultimi decenni. Dai “ragionamendi” del criptico De Mita alla gioiosa macchina da guerra di Occhetto, dalle ambizioni del Craxi della Grande Riforma alle frustrazioni del D’Alema dimissionato dal voto regionale del 2000. Cosa è rimasto, di “cotanta speme”? Poco e niente. E se qualcosa è cambiato, è cambiato in peggio. La somma dei progetti traditi o falliti ci ha portato fin qui. Alle “note caratteristiche” del leader contemporaneo. Che è post-ideologico (la contrapposizione destra-sinistra appartiene al passato). È pragmatico (i fatti vengono prima degli ideali). È personale (il programma non c’è, lo incarna lui medesimo). È sentimentale (parla agli elettori per messaggi emotivi). È sempre innovatore (è un outsider, si candida per abbattere il vecchio). Se questo è il profilo, i “moderni” con i quali abbiamo a che fare oggi ci stanno dentro alla perfezione. Berlusconi, e dopo (o insieme a lui) quelli che Damilano chiama i “tre alieni”: Monti il Tecnico (al quale come ai tempi di Ciampi il Paese ricorre prima dell’estrema unzione), e poi Grillo il Comico e soprattutto Renzi il Giovane.
La metafisica pentastellata è complessa. Il Comico aveva promesso: «Apriremo il Parlamento come una scatoletta di tonno». L’impresa si sta rivelando più ardua del previsto. Il non-partito con il non-statuto continua ad essere “l’Isola che non c’è”, sospeso tra rivoluzione e conservazione. Ma è la patafisica renziana, che in questo libro è più stimolante. Il Giovane aveva promesso: “Rottamazione!”. Distruzione creativa di tutto ciò che non aveva funzionato. “Un’ambizione titanica”, simulata a stento da una comunicazione amichevole ma realizzata da un network di potere spregiudicato e votato a «impossessarsi di pezzi dello Stato, enti pubblici, consigli di amministrazione ». Il Giglio Magico, il pasticcio Consip, lo scandalo Banca Etruria. Eccolo, il Nuovo che è avanzato. In questo Processo la sentenza è già scritta: ed è una condanna, forse definitiva. Renzi è «intelligenza innata, istinto sano e talento per l’inganno, mancanza di vita interiore», una «mescolanza ormai non più distinguibile tra quello che c’è dentro, i valori, la biografia personale, l’esperienza, e quello che è necessario mostrare fuori: la tattica, la comunicazione, la propaganda». Matteo il Giovane è «il primo leader generalista che si muove senza confini visibili», senza «limiti ideologici e personali». Per costruire il suo totem, il “Partito della Nazione”, abbatte i tabù della sinistra, eletta a nemico irriducibile. In un crescendo di “contro”. Contro la Cgil («quelli che mettono il gettone nell’iPhone»). Contro l’articolo 18 (trasformato nella IV Clausola dello statuto del Labour, che Blair distrusse per rifondare l’Old Party). Contro l’associazione partigiani di Carlo Smuraglia. Contro Maurizio Landini. E infine contro Gustavo Zagrebelsky, nella dissennata battaglia ai “professoroni” che gli costerà la sconfitta referendaria.
Damilano, giustamente, sceglie proprio la disfatta del 4 dicembre come epilogo del renzismo, e come apologo del nuovismo. “L’uragano di no” alla riforma costituzionale rivela «tutti i limiti del Nuovo renziano: fragilità intellettuale, fiducia eccessiva nei media che prima ti creano e poi ti distruggono, nessun radicamento sul territorio, classe dirigente alle spalle del leader inadeguata ». Il Nuovo che consuma se stesso, e che per questo perde il consenso. E stavolta la delusione è più forte, perché davvero il ragazzo di Rignano sull’Arno, insieme a tante promesse, aveva alimentato anche tante speranze.
Dopo aver cullato per decenni “il mito del nuovo inizio”, ora precipitiamo nel Nuovo Trasformismo che, indifferente ai programmi e ai contenuti, «tutto accoglie, assorbe, divora»: Tocchiamo con mano che la politica del Nuovo ha solo «un grande avvenire dietro le spalle». Sognavamo l’Innovazione, torniamo alla Restaurazione. Eppure, in questo viaggio al termine della notte repubblicana, Damilano scorge ancora un fioco bagliore a sinistra. È il riformismo, «umile, tenace, paziente». Per farlo rinascere gli “uomini del Nuovo” non servono più. Servono gli «uomini della transizione, gli eroi della ritirata », gli «uomini del ponte», capaci «di rinunciare a qualcosa di se stessi» e soprattutto «di puntellare il tessuto che tiene insieme una società». Marco non lo scrive. Ma leggendo quest’ultima pagina del suo Processo ho pensato a Romano Prodi. Il Vinavil ulivista di cui, e non sarà un caso, si riparla in questi giorni. È lavato con Perlana, pure il Professore. Ma vuoi mettere la differenza?
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IL LIBRO Marco Damilano,
Processo al Nuovo, (Laterza, pagg. 114, euro 14), Il volume sarà presentato il 4 luglio a Roma, alla Casa internazionale delle donne

La Stampa 27.6.17
Un patto anti-Cina con l’India
Trump va in soccorso di Modi
Oggi il faccia a faccia alla Casa Bianca. Il premier preoccupato dall’espansionismo di Pechino nella regione: “Donald è un amico”
di Francesco Semprini

«La comunità indiana e gli hindu avranno un vero amico alla Casa Bianca». Con queste parole Donald Trump, a pochi giorni dall’appuntamento con le urne l’8 novembre scorso, costruiva il suo ponte verso New Delhi alla ricerca del consenso (e dei voti) della vasta comunità di origini indiane degli Stati Uniti. Un impegno suffragato dalla promessa di «lavorare in sintonia con il primo ministro Narendra Modi e di lottare al suo fianco per sconfiggere il terrorismo, specie quello proveniente dal vicino Pakistan».
«Abki Baar Trump Sarkar», «Questa volta un governo Trump», diceva il futuro 45esimo presidente Usa mutuando proprio lo slogan di Modi. E questo ponte all’«amico» Modi fa davvero comodo specie dinanzi all’espansionismo sino-pachistano nella regione. Tanto da essere stati definiti «strategicamente importanti» i punti dell’agenda che oggi pomeriggio (sera in Italia) saranno discussi nel bilaterale alla Casa Bianca, oltre ai colloqui a livello di delegazioni. Tra gli altri ci sono cooperazione in tema di Difesa, sviluppo delle relazioni economiche, nucleare, terrorismo, sicurezza nella regione.
Il nazionalista Modi vede con preoccupazione ciò che sta accadendo nella regione, con il progetto di Pechino pronta a realizzare un corridoio che da Kashgar in Xinjiang, terminerebbe a al porto di Gwadar, in Beluchistan, attraversando le zone occupate dal Pakistan in Kashmir, e Gilgit-Baltistan, Punjab, Sindh e Khyber Pakhtunkhwa. Un progetto dalle opportunità economiche e strategiche pericolose, una sorta di spina nel fianco per New Delhi. Il disappunto di Modi è sempre stato chiaro in tal senso, come conferma la sua assenza al «Belt and road Forum» di Pechino dove, assieme a 29 capi di Stato, tra cui quelli di Pakistan, Turchia e Russia, erano rappresentati persino gli Usa con l’inviato speciale Matt Pottinger.
L’iniziativa riguarda il progetto «One Belt One Road» (Obor) col quale Pechino mira a creare un corridoio intercontinentale in connessione con molte città dell’Asia centrale e occidentale, Mediterraneo ed Europa, attraverso la «nuova via della seta» di terra e di mare: ognuno delle quali passerebbe attraverso o intorno all’India stessa. A partire dal «China Pakistan Economic Corridor» (componente dell’Obor), che farebbe entrare Pechino di diritto nei territori del Kashmir occupati dal Pakistan conferendole una sorta di legittimazione del controllo. Delhi è inoltre convinta che l’obiettivo di Pechino sia quello di rafforzare il cosiddetto «filo di perle», ovvero costruire basi in Sri lanka, Africa orientale, Maldive e Bangladesh che la renderebbero vulnerabile in caso di conflitto. Oltre a depotenziarne l’influenza su quei Paesi e altri come Nepal e Buthan.
Trump, che da parte sua con la Cina ha un lungo conto aperto, ragiona secondo il principio del «nemico del mio nemico», oltre al fatto che mostrare al mondo di volere costruire un ponte, dopo tanti progetti di muri (a partire dal Messico), è un ottimo restyling di immagine della sua dottrina pseudo-protezionista, specie in questi tempi. Ecco perché è pronto a far valere quella promessa da «amico degli Hindu». Il presidente sembra disposto a fare concessioni persino su uno degli argomenti tabù, i visti di lavoro (a professionisti indiani). Non è un caso forse che Modi abbia dedicato la giornata di ieri alla comunità degli affari indo-americana.