giovedì 1 giugno 2017

Repubblica 1.6.17
Perché i figli d’Europa scelgono l’Isis
Ezio Mauro


Quando appassiscono i fiori che noi lasciamo sul luogo degli attentati (perché la compassione è per noi occidentali molto più facile della condivisione) resta una domanda nell’Arena di Manchester, sulla Promenade di Nizza, sul legno del Bataclan, nell’ufficio di “Charlie Hebdo”: com’è avvenuta sotto i nostri occhi l’ultima metamorfosi della modernità, quella che trasforma musulmani di seconda generazione da giovani europei cresciuti nelle nostre scuole e nel nostro stesso spazio di libertà e di democrazia, in testimoni di una cultura assassina che retrocede la religione in ideologia del terrore?
Tutto si compie sotto la linea d’ombra del pensiero moderno, rifiutandone le coordinate, respingendo il calcolo cartesiano dei costi e dei benefici. Anche il terrorismo che ha attaccato l’Europa negli anni Settanta, essendo una deformazione estrema del politico, stava dentro quel codice: e infatti per ogni azione valutava la proporzione tra l’attacco e la difesa, e in questa misura di precauzione criminale prevedeva ogni volta la via di fuga, l’uscita di sicurezza. Oggi il terrorismo jihadista viola il paradigma prima pensando l’impensabile con l’assalto alle Torri Gemelle, poi trasformando l’attentatore in arma e il suicidio in martirio, chiudendo nello stesso orizzonte sacrificale la vittima e il carnefice, ed escludendo così la razionalità fin qui frequentata in Occidente. Non ci si può difendere dalla vita che a nostra insaputa ha già scelto di diventare morte, e non solo di portarla, annientando gli altri con l’annientamento di sé.
C’è tuttavia un contesto — se non razionale, pseudoculturale — che tiene insieme la mitologia ideologica del Califfato, la minaccia globale dell’Isis, il jihadismo indigeno europeo e il singolo terrorista che progetta l’attentato sapendo che sarà il suo atto finale. Lo ricrea Olivier Roy nel suo ultimo libro, Generazione Isis, indagando sul profilo di cento soggetti coinvolti in progetti terroristici in Francia e Belgio, o convinti a lasciare il Paese per raggiungere la jihad globale, e analizzando lo schedario dei 4118 stranieri reclutati dall’Isis nel biennio 2013-2014. Molto spesso i terroristi arrivano all’azione dopo un passaggio nella jihad, ma non sempre e non tutti, così come non tutti i jihadisti vengono selezionati dall’Isis come idonei all’attacco. Ma il punto in comune di entrambe le “scuole” è la scelta della morte volontaria, la vera novità rispetto alle forme di terrorismo che avevamo conosciuto nel nostro mondo: partendo da Khaled Kelkal, ucciso a 24 anni dai gendarmi dopo una serie di attentati in Francia nel ’95, per arrivare agli ultimi attentati, tutti gli assaltatori si fanno esplodere come bombe umane o si lasciano uccidere dalla polizia senza preoccuparsi di cercare un riparo o di fuggire.
È l’incarnazione della profezia identitaria di Osama Bin Laden: «Noi amiamo la morte, voi la vita ». Però è anche uno scarto rispetto alla predicazione musulmana — e in particolare alla tradizione salafita — che esalta il martire di guerra ma considera la scelta di spezzare la propria vita come un’espropriazione illegittima della suprema potestà divina. Questa deviazione nasce da un rifiuto delle radici religiose dei genitori e del loro deposito culturale, considerato dai giovani radicali islamisti come un lascito di sottomissione, un’eredità coloniale, una passività rituale: e insieme da un’esasperazione dell’odio generazionale iconoclasta che chiede la distruzione non solo dei corpi e dei simboli, ma della memoria e della tradizione comunemente accettata, in una rottura senza ritorno.
Senza ritorno e senza alternativa, perché la strategia funebre jihadista azzera la politica e la uccide invece di chiederle soluzione, annulla qualunque geostrategia che non sia quella leggendaria e irreale del Califfato, spegne sul nascere qualsiasi diplomazia perché la scelta definitiva della morte cancella ogni negoziazione. Proprio questa trasposizione in un universo irreale, fuori dalla storia e dalla geografia per inseguire soltanto il tempo del Profeta nell’annichilimento finale della vicenda umana, autorizza e giustifica — ingigantendola — la scelta individuale di morte.
Solo il nichilismo come orizzonte cieco e insieme glorioso spiega infatti la morte come obiettivo. Religione e frustrazione non bastano, dice Roy, il fondamentalismo nemmeno, e neppure le colpe dell’Occidente, dal colonialismo al razzismo, tanto che gli autori degli attentati in Europa non sono geograficamente e propriamente le “vittime”, così come la mappa del terrorismo non coincide con quella dei quartieri più poveri e dimenticati. Questa mappa rivela invece una buona scolarizzazione (la maggior parte dei giovani terroristi ha finito le superiori), una discreta integrazione iniziale, una pratica religiosa modesta e discontinua, fino alla “rinascita” al nuovo Islam. La percentuale di “convertiti” è infatti molto alta tra i reclutati dell’Isis in Francia, Germania e Stati Uniti, una seconda generazione islamica che sceglie di diventare islamista dopo che i genitori hanno cercato un inserimento sociale europeo, mentre in Belgio si affac- cia già la terza generazione.
Da vent’anni, secondo questo studio, il profilo collettivo segue gli stessi passaggi individuali. Genitori musulmani che trovano lavoro nei nostri Paesi, figli nati in Occidente, scuole europee, poi molto spesso un ingresso nella microcriminalità, la radicalizzazione in carcere (dove si impara un salafismo basico di rivolta) o nel piccolo gruppo ristretto di amici d’infanzia, o addirittura familiare, se è vero che nella cellula degli attentati al Bataclan e a Bruxelles ci sono ben cinque coppie di fratelli: cioè metà degli attori, quasi una conferma della curva dei figli rispetto al percorso dei padri.
La mimetica generazionale nasconde la radicalità e insieme la universalizza. Gli jihadisti d’Occidente sono dentro il contemporaneo della cultura giovanile, prima della conversione bevono alcol, vanno in discoteca, fumano, conoscono la tecnologia della comunicazione, usano i cappellini e le felpe, amano il rap, frequentano i videogiochi, i manga e il cinema americano, passano per le palestre del kung-fu, del taekwondo e del thai-boxe. Tanto che dopo gli attentati, la morte o gli arresti si registra sempre uno straniamento nel mondo che li circonda, stupore, incredulità, sorpresa. In questo non c’è solo la rottura familiare, la convinzione dei born again di aver scoperto la vera fede e di avere realizzato così un’inversione di conoscenza religiosa rispetto ai genitori. C’è soprattutto la chiusura estrema e definitiva in una sorta di piccolo universo parallelo, una microsocietà — come la chiama Roy — fatta di fratelli, amici d’armi e di carcere, mogli che sono prima di tutto compagne d’ideologia, pronte a diventare subito “vedove nere”, presto madri di orfani di martiri.
Per Roy il terrorismo non deriva dalla radicalizzazione dell’Islam ma dall’islamizzazione della radicalità. Questo non assolve l’Islam, se proprio qui — e nel fondamentalismo cresciuto a dismisura negli ultimi quarant’anni — la ribellione trova un orizzonte culturale di riferimento, anzi di cattura, certo di giustificazione. Lo scopo della jihad non è soltanto la vittoria sul campo, ma ideologicamente la costruzione ex novo di un musulmano militante e globale pronto a lasciare ogni cosa per inseguire lo spazio mitologico del “vero Islam” puro, oltre i legami tribali, nazionali, di famiglia, le tradizioni religiose, la società con le sue regole. I giovani radicalizzati hanno una cultura religiosa approssimativa, ma l’-I-slam offre al loro immaginario estremizzato una razionalizzazione teologico-mitologica che per Roy «assume forme incantatorie », rende metafisico ogni conflitto, iscrive l’azione individuale — fino all’annientamento — in una fascinazione dell’Apocalisse. Perché se la fine del mondo è vicina, allora l’assassinio nel nome di Dio e la morte di sé non fanno altro che avvicinare il Paradiso, anticipando la battaglia finale a Dabiq, quando comparirà il Dajjal mentitore e regnerà 40 giorni per essere respinto da Gesù, prima che il mondo scompaia.
Nell’attesa, Roy invita nel suo libro l’Europa a riflettere sulla devitalizzazione del religioso nel nostro mondo, sulla sua riduzione a cultura fredda, singolarizzata, a segno strano e scandaloso in mezzo alla secolarizzazione, un segno che proprio per questo diventa rifugio, arma e strumento di rottura per chi cerca una ribellione identitaria. La “deculturazione” dell’elemento religioso apre la strada alla sua ricostruzione in forma fondamentalista, conclude il saggio. Potremmo aggiungere che in realtà c’è un’ultima questione, e riguarda addirittura la democrazia, cioè qualcosa che contiene la laicità e la religione insieme, e dovrebbe garantire la libertà nei diritti e nei doveri dell’individuo fatto cittadino: perché questa cornice non affascina e non tutela i ribelli della seconda generazione, non prevede e non include lo spazio antagonista della loro radicalità prima che fuoriesca in un’ideologia religiosa assassina? È una questione che riguarda noi e non solo loro: perché il miraggio abbacinato del martirio assassino, in ogni caso, non può prevalere sulla promessa di felicità imperfetta della democrazia.
Il rifiuto delle radici religiose dei genitori considerate un’eredità coloniale, una sottomissione
* IL LIBRO Generazione Isis di Olivier Roy ( Feltrinelli, trad. di Massimiliano Guareschi pagg. 144 euro 14)