lunedì 29 maggio 2017

SULLA STAMPA DI GIOVEDI 25/26 MAGGIO:

Internazionale 42 26.5.17
Le opinioni
Israele è colpevole Washington è complice
di Gideon Levy

Grazie America, per tutto il bene che ci hai fatto. Grazie per i soldi, le armi e il sostegno. Grazie anche per i danni, il marciume e le bugie. Un altro presidente statunitense è arrivato in Israele il 22 maggio. È diverso dai suoi predecessori, ma su una questione non lo sarà: Donald Trump continuerà a farci tutti questi regali.
Gli Stati Uniti saranno ancora il principale partner in una delle attività più ignobili che esistano al mondo: l’occupazione israeliana. Anche stavolta Trump darà denaro, armi e difenderà Israele. Grazie in anticipo, signor presidente.
Dobbiamo ringraziare gli Stati Uniti se siamo arrivati a questo punto, se stiamo festeggiando i primi, e probabilmente non ultimi, cinquant’anni d’occupazione. Israele è colpevole, masono gli Stati Uniti ad aver reso possibile questa situazione. Non si tratta solo dei soldi, delle armi e del sostegno. C’è qualcos’altro, qualcosa d’imperdonabile e che fa passare in secondo piano tutto il resto.
La scorsa settimana sul sito del quotidiano britannico The Guardian è uscito un saggio dell’intellettuale statunitense Nathan Thrall, dal titolo “Israel-Palestine: the real reason there’s no peace” (Israele–Palestina: il vero motivo per cui non c’è pace). L’articolo è un estratto del nuovo libro di Thrall, The only language they understand: forcing compromise in Israel and Palestine (L’unica lingua che capiscono: spingere al compromesso Israele e Palestina). L’autore punta il dito contro la radice di tutti i problemi che rendono impossibile un accordo: a Israele la pace non conviene, perché il prezzo che dovrebbe pagare è più alto del costo dell’occupazione. E questo è colpa anche di Washington. Gli Stati Uniti e il loro socio, l’Europa, permettono che lo stato ebraico porti avanti la costruzione degli insediamenti pagando un prezzo basso.
Washington non ha alzato un dito per rendere questo stato di cose insopportabile per Israele. E quindi non ci sarà nessun accordo di pace. L’unico modo di raggiungerlo è che Israele paghi di più. Inoltre il luogo comune secondo il quale il tempo gioca a sfavore dello stato ebraico si è rivelato falso, sostiene Thrall. Se le attuali minacce dovessero concretizzarsi, Israele potrà sempre interrompere l’occupazione. Ma fino a quel punto non ha motivo di accelerare le cose.
Gli Stati Uniti spesso hanno tentato l’approccio morbido, ma senza successo. Solo in un caso un presidente statunitense ha esercitato una reale pressione, e i risultati sono stati immediati. Nel 1956 Dwight Eisenhower minacciò delle sanzioni economiche nei confronti d’Israele se l’esercito non si fosse ritirato dal Sinai, cosa che successe pochi giorni dopo.
Dobbiamo ringraziare gli Stati Uniti se siamo arrivati a questo punto, se stiamo festeggiando i primi, e probabilmente non ultimi, cinquant’anni di occupazione
L’ultima volta che gli Stati Uniti forzarono la mano fu nel 1991, quando il segretario di stato James Baker spinse il primo ministro Yitzhak Shamir ad accettare le condizioni della conferenza di pace di Madrid, trattenendo dieci miliardi di dollari di garanzie sui prestiti. Da allora, anche se è difficile crederlo, sono passati più di venticinque anni e Washington non ha più fatto altri tentativi.
Al contrario, gli Stati Uniti stanno facendo tutto il possibile perché l’occupazione risulti sempre più confortevole per Israele. Hanno finanziato e addestrato le forze di sicurezza dell’Autorità palestinese, che in realtà seguono gli ordini delle autorità israeliane. Hanno anche difeso lo stato ebraico al Consiglio di sicurezza dell’Onu. Hanno bloccato la discussione sul disarmo nucleare nella regione e hanno permesso a Israele di mantenere la sua superiorità militare. Allo stesso tempo, hanno condannato gli insediamenti solo a parole, con “un’opposizione di facciata”, come la definisce Thrall. Una facciata che è diventata un bastione in difesa delle colonie. Presentandosi come “punitive”, le ricorrenti condanne hanno perso vigore e hanno sostituito una pressione reale. Naturalmente la colonizzazione va avanti. Anche la distinzione artificiosa tra Israele e gli insediamenti, portata avanti dagli Stati Uniti, ha liberato Israele dalle sue responsabilità. Oggi si può essere tranquillamente uno statunitense (o un europeo) progressista e sostenere lo stato ebraico. Gli insediamenti e il governo israeliano ne sono ben felici e continuano per la loro strada.
Washington, sembra incredibile, non ha mai posto condizioni per il suo sostegno inanziario. “Ascoltare [gli statunitensi] che discutono di come mettere fine all’occupazione è come sentire il guidatore di una ruspa che chiede come demolire un palazzo con un martello”, scrive Thrall. “L’ex ministro della difesa israeliano, Moshe Dayan, una volta disse: ‘I nostri amici statunitensi ci offrono denaro, armi e consigli. Noi accettiamo il denaro, accettiamo le armi e rifiutiamo i consigli’ ”. Niente è cambiato e, a quanto pare, niente cambierà. Grazie, America

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