lunedì 29 maggio 2017

Repubblica 29.5.17
Hannah & Benji
Lezioni d’amore e rancore nella Scuola di Francoforte
Una serie di lettere, documenti e testimonianze firmate dai due protagonisti ricostruiscono gli ultimi mesi di Walter Benjamin Ne esce un ritratto non edificante di Adorno e Scholem che insieme all’autrice della “Banalità del male” si contesero a lungo e con qualche colpo basso, l’eredità intellettuale del grande pensatore
di Antonio Gnoli

Conosciamo quasi tutto di Walter Benjamin. Perfino con quali indumenti si trascinava in fuga verso la via spagnola: due camice nella valigia, uno spazzolino da denti e, forse, un manoscritto al quale stava lavorando. Sappiamo della sua vita geniale e non propriamente fortunata. Vengono in mente certe fragili figure di marzapane che allietarono la sua fantasia di bambino precoce. Fu inattuale in tutto, ma di una inattualità difficilmente classificabile, nominabile, collocabile. Fu questa sfuggente sensazione di incerto possesso del suo pensiero a rendere complessa la rete di amicizie solidali che lo avvolse, soprattutto negli ultimi anni di vita. Una rete che somigliava a una costellazione di stelle (quasi
tutte di prima grandezza) di cui lui era la più brillante. Un’idea meno vaga di ciò che sto dicendo ce la si può fare grazie al libro a firma Hannah Arendt e Walter Benjamin L’angelo della storia, edito da Giuntina. Si tratta di una raccolta di testi, lettere, documenti, da cui emergono le complicate relazioni tra i vari protagonisti; le rivalità, i colpi bassi, le accuse che spesso, dietro un’apparente armonia, si scambiarono Theodor Adorno, Gershom Scholem e Hannah Arendt. Tutti e tre amarono realmente Benjamin ma ne usarono l’immagine anche per combattersi fra loro.
Arendt incontrò Benjamin a Parigi nel 1935. Entrambi esuli ebrei. Lei lo chiamava Benji. Spesso giocavano a scacchi. Impararono anche la lingua inglese. Volevano lasciare l’Europa e raggiungere l’America. Arendt riuscì a partire. Benjamin non ce la fece. Non resse la fatica di un viaggio che dalla Francia lo avrebbe condotto in Spagna e da qui negli Stati Uniti. Si suicidò sul confine, a Port Bou, nel settembre del 1940. Gershom Scholem fu l’amico della giovinezza. Si conobbero all’università. Fu tra i primi a lasciare l’Europa. Emigrò in Palestina nel 1923. Si scambiarono lettere bellissime. Ammirava il talento teorico dell’amico. Desiderava che lo raggiungesse. Entrambi, da posizioni diverse, nutrivano un forte interesse per la cultura ebraica. Scholem avrebbe scritto in seguito una densa biografia dell’amico scomparso. Adorno era già in America quando Benjamin tentò in qualche modo di raggiungerlo. Viveva a Los Angeles dove si era trasferito l’Istituto di ricerche sociali, di cui era insieme a Horckheimer tra i massimi esponenti. Anche Benjamin ne faceva parte. Molta della sua sopravvivenza dipendeva dal sussidio dell’Istituto. Ma in cambio di cosa? La Arendt si convinse che gli amici della Scuola di Francoforte, che lei molto brutalmente chiamava “banda di porci”, avevano nei riguardi del geniale Benjamin un atteggiamento da esigenti tutori spirituali. In una lettera a Scholem adombrò perfino una malversazione nell’uso dei fondi dell’Istituto. Qual era lo stato d’animo di Benjamin negli ultimi mesi di vita? Nella dettagliata ricostruzione della Arendt emerge un uomo spaventato dalla guerra, disperato per la reclusione in un campo di concentramento. A metà novembre del 1939 venne rilasciato. Tornò, almeno in apparenza, un uomo sereno. Tanto che nei mesi successivi lavorò alle Tesi di filosofia della sto- ria. Quel testo enigmatico e per nulla ortodosso gli procurò molta apprensione. Benjamin temeva che Adorno e Horckheimer, com’era già accaduto con il Baudelaire, lo giudicassero inadatto alla pubblicazione. Prima dello scoppio della guerra, l’Istituto lo aveva avvertito che il sussidio era a rischio. In questo oscillare di stati d’animo restava il progetto di riparare in America, ma l’horror, dice la Arendt, che provava per quel paese era indescrivibile. Confidò ad alcuni amici che preferiva una breve vita in Francia a una lunga vita in America. Tutto questo non spiega un suicidio. Ma lo colloca in una prospettiva plausibile. Ne era ossessionato e non faceva che parlarne, dice la Arendt.
Questa la situazione alla vigilia di quell’ultimo viaggio che fu senza ritorno. Quando, settimane dopo, si apprese della morte di Benjamin cominciarono le grandi manovre attorno al lascito dei suoi scritti. Chi ne era l’erede? L’amico di infanzia Scholem? Adorno il quale sostenne che Benjamin gli aveva affidato il lascito letterario? O la stessa Arendt che si stava prodigando per la pubblicazione, tanto in Germania quanto in America, di un’antologia significativa dei suoi scritti? Tutti e tre avevano in qualche modo l’autorità morale. Quando la macchina editoriale si mise in moto cominciarono le prime insinuazioni e sospetti. Vecchi rancori mai sopiti tornarono avvolti dalla cautela che ogni forma di potere altrui suggerisce. La Arendt insinuò il peggio su Adorno, ma disse anche che con lui bisognava essere dei “lecchini” se si voleva ottenere qualcosa in cambio. Adorno invocò a giustificazione di certi atteggiamenti il fatto che si vivevano tempi difficili, soprattutto per dei manoscritti che richiedevano una cura speciale. La verità è che il trio delle meraviglie — Arendt, Scholem, Adorno — diffondeva tre immagini profondamente diverse di Benjamin. Scholem non avrebbe voluto che Adorno scrivesse l’introduzione agli scritti di Benjamin per l’edizione tedesca. Quanto, all’edizione americana, rimase infastidito dall’introduzione della Arendt accusandola di “smania di originalità”, di fraintendimenti e controverse affermazioni. Siamo già nella seconda metà degli anni Sessanta ma il peso delle polemiche non è diminuito. A chiudere la vicenda è ancora una volta una risentita lettera di Scholem, provocata dai reportage della Arendt al processo Eichmann a Gerusalemme. Scholem prende le distanze da La banalità del male, un libro sfacciato, sbagliato nel tono «che trasforma precise e forse anche emozionanti o commoventi circostanze in perfide osservazioni ». Definisce l’autrice una donna abitata dal risentimento.
Ma c’è un convitato di pietra: Bertolt Brecht. L’amicizia con Benjamin venne considerata tanto da Adorno quanto da Scholem gravida di guai culturali. Troppo marxista, troppo rozzamente impregnato di analisi politiche, per non immaginare che quell’anima candida di Benjamin sarebbe caduta nella sua rete ideologica. Benjamin, convennero entrambi, aveva abbandonato la profondità del pensiero. La verità è che come in tutti i rapporti che egli strinse in vita anche quello con Brecht fu all’insegna di un’assoluta indipendenza mentale. Benjamin non era di nessuno e nessuno poteva rivendicare un possesso, o vantarsi di essere l’autentico interprete del suo pensiero.
Quando, rievocandone la figura, Hannah Arendt parlò all’università di Friburgo era il 1967. Quella mattina fece a sorpresa il suo ingresso Martin Heidegger. Era lì per l’antica allieva o per Benjamin? Qualche settimana dopo il filosofo scrisse alla Arendt mostrando apprezzamento per la lezione. Sono curiosi gli intrecci, spesso densi di involontari riverberi. Benjamin aveva letto Heidegger. Avevano concezioni della storia troppo diverse per capirsi. Dopo l’uscita di Essere e Tempo Benjamin si ripromise di fare a pezzi Heidegger. Forse non ne ebbe il tempo o la voglia. Sarebbe stato interessante misurare concretamente il confronto tra due anime che più diverse non potevano essere. Condivisero però l’affetto di una donna straordinaria che con nettezza comprese il loro genio.
PROTAGONISTI
Qui sopra, Hannah Arendt. In alto, Walter Benjamin ( a destra) mentre gioca a scacchi con Bertolt Brecht
IL LIBRO
L’angelo della storia
di Hannah Arendt e Walter Benjamin ( Giuntina a cura di C. Badocco pagg. 262 euro 15)Corriere 29.5.17
La chiesa, l’impegno politico e il nuovo vertice della Cei
di Ernesto Galli della Loggia

La designazione del cardinale Bassetti alla presidenza della Conferenza episcopale italiana è stata generalmente considerata la prova di quella definitiva svolta «antipolitica» voluta da tempo da papa Francesco e finalmente adottata dall’episcopato della Penisola. Una svolta, bisogna aggiungere, giudicata perlopiù con favore dall’opinione pubblica, che è in grande maggioranza ostile anch’essa all’idea che la Chiesa «faccia politica».
Infatti, nella prospettiva che oggi sembra prevalere nel mondo cattolico e fuori di esso, alla Chiesa dovrebbero venire affidate principalmente due missioni. Occuparsi in special modo di coloro che a vario titolo sono vittime di situazione di disagio, di privazione, di sofferenza — di situazioni cioè che richiedono per l’appunto la sua misericordia e/o il suo aiuto e conforto. E in secondo luogo essa dovrebbe rivolgere la sua attenzione nel denunciare e far luce sui grandi mali strutturali del mondo: dalla distruzione della natura all’ingiusta divisione delle risorse, dal commercio delle armi alle grandi migrazioni umane. La vasta popolarità di papa Francesco è dovuta in misura significativa proprio all’immagine che ci si è fatta del suo pontificato come orientato precisamente in queste due direzioni.
Le quali, tuttavia, mi pare che lascino in un certo senso irrisolto il problema non da poco del ruolo delle Chiese nazionali: un problema che ha un rilievo tutto particolare in Europa.
So bene che l’espressione Chiese nazionali — tipica delle Chiese riformate luterane — è dottrinariamente inapplicabile all’universalismo delle Chiese cattoliche pur operanti nei diversi Stati. Ma è anche vero che specie in Europa, le Chiese cattoliche stabilite nei vari Stati nazione, a causa del loro insediamento più che millenario nonché dello spessore e della ricchezza della loro presenza, sono quasi divenute un tutt’uno con le vicende storiche delle rispettive collettività nazionali. Divenendone, si voglia o no, delle protagoniste. E tuttavia, su quale possa o debba essere oggi la loro specifica missione, se esse conservino ancora o no un significato, e quale, si direbbe che l’opinione pubblica cattolica e lo stesso pontificato attuale siano però assai parchi d’indicazioni. Tra il livello planetario dei mali del mondo da un lato, e dall’altro quello dell’«ospedale da campo» per le moltitudini di individui, manca insomma una chiara messa a fuoco del senso specifico da attribuire a quell’ambito, chiamiamolo così intermedio, che invece è in certo senso proprio delle Chiese nazionali. Devono esse ancora mantenere un rapporto con la loro tradizionale identità storica? Hanno ancora un compito specifico?
Il problema riguarda soprattutto quei Paesi come l’Italia rimasti fino all’Ottocento di forte tradizione e in stragrande maggioranza cattolici. Nei quali, però, proprio nell’Ottocento si creò un violento antagonismo (non importa qui vederne le ragioni) tra una politica di orientamento liberale forte di uno Stato ultralaico da un lato, e la Chiesa cattolica e per certi aspetti lo stesso cattolicesimo dall’altro. Ne risultò che è stato assai difficile per la Chiesa, attaccata politicamente e forte a sua volta di un ampio sostegno popolare, poter decidere, seppur ne avesse avuto mai voglia, di tenersi lontana dalla politica, di non «fare politica».
Il fatto è che «fare politica» può voler dire molte cose. Può voler dire brigare per posti, denari e favori, o invece avere una visione del mondo diversa da quella vigente, organizzare pezzi di società, dare loro voce, proporre soluzioni. E naturalmente, come accade in tutte le faccende umane, capita che vi sia un’area in cui i due ambiti si lambiscono o addirittura si sovrappongono. Il che è di sicuro capitato anche alla Chiesa, al clero e ai cattolici italiani quando hanno «fatto politica»: cioè sempre. Dal momento che — in un modo ovviamente ogni volta diverso — hanno fatto politica don Bosco e don Sturzo, don Morosini e i sacerdoti della Brigata Osoppo, hanno «fatto politica» la Fuci di Montini e L’Azione cattolica di Gedda così come la «Comunità di Sant’Egidio» (il cui presidente è stato addirittura ministro della Repubblica) o «Comunione e Liberazione». E per dirne un’altra: c’è per caso qualcuno convinto che nelle elezioni del ‘48 la Chiesa avrebbe fatto meglio a non «fare politica»? Senza il suo impegno non solo probabilmente non ci sarebbe stato De Gasperi ma non ci sarebbero state le cooperative, le società di mutuo soccorso, le associazioni sindacali, le lotte per l’emancipazione, che hanno rappresentato una parte non proprio indifferente dell’Italia migliore. Certo, insieme ai detriti che il legno storto dell’umanità produce immancabilmente. Ma alla fine che cosa è più importante?
In verità la storia di un Paese è una cosa maledettamente complessa, che si fa e va considerata nei tempi lunghi, evitando soprattutto di restare prigionieri dei propri giudizi e delle proprie passioni dell’oggi o dell’appena ieri. Ovvero, per restare all’argomento, avendo un’opinione o l’altra a seconda che la Chiesa faccia politica come a noi piace o come a noi non piace. A me pare che la storia dell’Italia moderna ci dica che in generale il Paese non ha certo scapitato dall’impegno politico dei cattolici, e sarei davvero sorpreso che non fosse d’accordo proprio il cardinale Gualtiero Bassetti che appena eletto ha indicato come sue figure di riferimento Giorgio La Pira e don Milani, due personalità che fino a prova contraria la politica l’avevano nel sangue. Di quell’impegno dei cattolici l’Italia ha forse ancora oggi bisogno. La domanda allora è: può mai esserci senza la Chiesa o a prescindere da essa? Mi sembra difficile pensarlo.

Repubblica 29.5.17
La benedizione grillina al patto del Nazareno
di Massimo Giannini

NEGATE, temute, e alla fine volute, ecco le elezioni anticipate. Sull’accordo già blindato tra Renzi e Berlusconi arriva adesso la sorprendente benedizione di Beppe Grillo sul modello proporzionale tedesco, che apre la via al voto in autunno. Eccolo, dunque, l’approdo. Dopo tre anni di inutile pellegrinaggio tra vocazioni maggioritarie e Italicum, democrazie “decidenti” e premierati forti.
LA Generazione Telemaco della “nuova politica”, quella che doveva “uccidere il padre” e rottamare il vecchio, torna nel luogo dove tutto era cominciato, e dal quale forse non se n’era mai andata. Il Nazareno. E al Nazareno, inteso appunto come Patto, ha la pretesa di riportare quel che resta della sinistra italiana. Ancora una volta smarrita, confusa, divisa. Incapace di produrre una qualunque alternativa, se non quella di abbracciare un Caimano per resistere a un Grillo.
L’accordo Renzi-Berlusconi, alla luce delle parole del segretario del Pd al Messaggero, è ormai cosa fatta. Con la scusa che “lo chiede Mattarella”, l’ex premier e l’ex Cavaliere sono pronti a fare quello che pareva chiaro dal giorno dopo la Caporetto sul referendum costituzionale, e che solo i ciechi, gli ipocriti o le anime belle si erano rifiutati di comprendere. Un’intesa sulla riforma elettorale, poi sulle elezioni anticipate, e infine sulla prospettiva di una Grosse Koalition all’italiana.
Come dice Roberto Saviano del Ventennio Berlusconiano, con la “svolta nazarena” tutto è dimenticato, tutto è perdonato. Ed è vero che è “uno scandalo” una politica che a pochi mesi dalla scadenza della legislatura costruisce meccanismi elettorali tagliati a misura dei propri bisogni. Ma così è, purtroppo. Ormai da almeno dodici anni, quando a questo “uso privato” delle istituzioni e delle Costituzioni ci abituò il disastroso Porcellum voluto dal Polo della destra per non far vincere l’Unione di Prodi. Anche il sì di Grillo fa parte della svolta. Ma il furbo via libera del capocomico al sistema proporzionale tedesco, attraverso la solita farsa del clic tra gli attivisti della Rete, è tutt’altro che disinteressato. Per Pd e Forza Italia risolve il problema dei numeri al Senato, che altrimenti sarebbero mancati, e che invece adesso ci saranno grazie ai pentastellati. Ma per il Movimento è manna dal cielo: gli consentirà di lucrare dividendi incalcolabili in una campagna elettorale tutta giocata contro il “Renzusconi” dell’inciucio neo-consociativo.
Ci sarà ancora qualche dettaglio tecnico da mettere a punto. Per esempio la soglia di sbarramento. Ma la strada è già aperta, da almeno due casi paradigmatici di queste ultime ore. Il primo caso è la sfiducia bipartisan a Campo Dall’Orto in consiglio d’amministrazione Rai: un “ribaltone” che ha ragioni tuttora imprecisate, se non quelle legate all’urgenza di avere un servizio pubblico televisivo ancora più malleabile e controllabile in campagna elettorale. Renzi nega, e porta come prova il fatto che il consigliere che lui conosce «meglio nel cda è Guelfo Guelfi, l’unico ad aver votato a favore del piano di Campo Dall’Orto». Tesi tartufesca, e facilmente controvertibile: più che una prova a discapito, il voto di Guelfi (difforme da quello degli altri consiglieri pd) sembra la smoking gun sul siluramento del direttore generale.
Il secondo caso è il ripristino dei voucher, sia pure con una formula “geneticamente modificata”. L’emendamento che reintroduce i buoni lavoro passa proprio grazie alla stampella azzurra del Cavaliere, perché nel frattempo viene meno la stampella rossa non solo dell’Mdp di Bersani, ma anche dei dissidenti di Orlando. Anche su questo Renzi ha una sua versione. La norma sui voucher ci sarà perché «abbiamo fatto quello che il ministro Finocchiaro ci ha chiesto di fare». Tesi pilatesca, e palesemente in-credibile: Gentiloni non avrebbe mai preso un’iniziativa autonoma, su un tema “sensibile” per la sinistra come i buoni lavoro. Ad annunciare l’emendamento in Commissione è stato il capogruppo dem Rosato. E su quello, poi, il governo ha dovuto convergere. È una forzatura della quale obiettivamente non si sentiva alcun bisogno. Sia per ragioni di metodo: i voucher erano stati appena abrogati per decreto proprio per evitare il referendum chiesto a tutta forza dai sindacati. Sia per ragioni di merito: i voucher non hanno risolto la piaga del lavoro nero (ormai superiore ai 100 miliardi l’anno) e non hanno offerto nessuna tutela contributiva a quel milione e 600 mila precari che ne hanno “beneficiato” (dovrebbero lavorare fino a 75 anni per avere una pensione da 208 euro al mese).
Dunque, anche questa mossa non nasce per caso. Non nasce a Palazzo Chigi. Nasce a Largo del Nazareno. E si inquadra nello stesso percorso che potrebbe portarci, in sequenza, al sistema tedesco, alla caduta di Gentiloni, al voto in autunno e alla Grande Coalizione. Non siamo più in presenza di un’episodica geometria variabile (che talvolta in Parlamento può capitare) ma di un’autentica mutazione della maggioranza (che stavolta il Quirinale deve valutare). Tutti i soggetti in campo non possono non esserne consapevoli. Se vanno avanti lo stesso, vuol dire nella migliore delle ipotesi che hanno accettato il rischio, nella peggiore che hanno concordato l’esito. E l’esito, ancora una volta, è quello ormai noto, nonostante le smentite a tamburo di questi mesi: un bel # paolostaisereno, e poi tutti alle urne.
In questa rincorsa congiunta alla rivincita di Renzi e alla rinascita di Berlusconi non c’è già più spazio per le prudenze istituzionali o per le pendenze finanziarie. L’idea è che il tripolarismo che paralizza l’Italia, con il modello tedesco, si risolve con la creazione e la contrapposizione di due blocchi: il Sistema (Renzi-Berlusconi) e l’Anti- Sistema (Grillo-Salvini). Comunque vada, un mezzo disastro.
Il rischio dell’instabilità, proprio durante una delicatissima sessione di bilancio, non è contemplato. Anzi, è inopinatamente ribaltato a nostro vantaggio. Anche questo dice Renzi: «Dopo le elezioni tedesche e fino al voto, l’Italia sarà l’osservato speciale sui mercati. L’eventuale anticipo del voto non genera l’incertezza, ma la anticipa… ». La scommessa è stravagante, e a dir poco azzardata. Non ci sarebbe nulla di strano se i due “pattisti” la giocassero in proprio. Purtroppo non è così: la posta in palio è il Paese.

Repubblica 29.5.17
Le amministrative, il primo vero test politico
di Ilvo Diamanti

IN ITALIA tutte le elezioni hanno significato “politico nazionale”. Le consultazioni amministrative del mese prossimo non fanno eccezione. Anzi. D’altra parte, si voterà in oltre 1000 Comuni, distribuiti in tutto il Paese. Tra questi, 4 capoluoghi di Regione (Catanzaro, Genova, L’Aquila e Palermo) e 25 Capoluoghi di Provincia. Ancora: 8 città al voto hanno più di 100mila abitanti e 153 più di 15 mila.
PER questo si tratta di un test “politico” importante. Il più importante, dopo il referendum costituzionale dello scorso dicembre. Ed è probabile che l’esito stesso dell’imminente voto amministrativo contribuisca ad assecondare oppure a scoraggiare la tentazione di chiudere anzitempo la legislatura. Le elezioni “comunali”, d’altronde, hanno assunto un ruolo “politico” particolare, fin dai primi anni Novanta. Quando permisero di sperimentare nuovi modelli istituzionali, di fronte alla crisi della Prima Repubblica. L’elezione diretta dei sindaci, nel 1993, divenne, infatti, il metodo per rispondere alla crisi dei partiti e della classe politica, in mezzo al terremoto di Tangentopoli. I sindaci: divennero, allora, gli interpreti delle istituzioni. Per dare un volto a una democrazia “impersonale”, lontana dalla società. Dal 1993 in poi, non a caso, l’elezione diretta è stata estesa in ogni direzione. In particolare, ai Presidenti delle Regioni. In seguito, anche ai leader dei partiti, attraverso le primarie. Infine, agli stessi Capi di governo, “indirettamente eletti in modo diretto”, vista la tendenza a indicare sulle schede elettorali il nome dei leader delle coalizioni. In questo modo, la politica si è “personalizzata”. Spinta dai media e, in particolare, dalla televisione, che hanno progressivamente riempito il vuoto lasciato nella società e sul territorio dal declino dei partiti di massa. Difficile dimenticare la generazione dei sindaci eletti direttamente in quella fase. In tutte le latitudini del Paese. Da Nord a Sud, passando per il Centro. Basti pensare, fra gli altri, ad Antonio Bassolino, Francesco Rutelli, Riccardo Illy, Massimo Cacciari, Leoluca Orlando, Enzo Bianco. Così, i sindaci si sono imposti come soggetti di democrazia — e di rappresentanza — diretta. In soccorso al logoramento della democrazia rappresentativa. Anche per questo, in seguito, alcuni di essi sono divenuti leader “nazionali”. Talora: capi del governo. Si pensi (ancora) a Rutelli, Veltroni. Allo stesso Renzi.
Infine, le elezioni comunali hanno favorito l’affermazione di nuovi soggetti politici. Da ultimo, ma non certo per importanza, il M5s. Proprio 5 anni fa. Nel 2012. Quando Federico Pizzarotti conquistò Parma. E offrì al M5s non solo visibilità, ma fondamento. Perché fornì la prova che il M5s non era solo una rete di movimenti e di associazioni. Ma un “partito”. Magari, un “non-partito”. In grado di conquistare il governo. Delle città, dapprima. Poi, si vedrà… Le ambizioni di governo del M5s, peraltro, sono state amplificate alle amministrative dell’anno scorso. Per questo il voto di giugno sollecita tanta attenzione. Perché, comunque vada, determinerà effetti rilevanti. Non solo nelle città coinvolte. Ma sul piano nazionale. Sul consenso dei leader di partito e di governo. Sulle alleanze attuali e potenziali.
I sondaggi condotti da Demos per Repubblica e pubblicati nei giorni scorsi sono, dunque, interessanti. Anche se mancano due settimane dal primo turno e un mese dall’eventuale ballottaggio. La realtà potrebbe rivelarsi diversa, com’è già avvenuto in passato. Perché, senza considerare i limiti del metodo adottato, la campagna elettorale è tuttora in corso. Molti elettori (oltre 2 su 10) devono ancora decidere. E l’esito del primo turno può cambiare profondamente il clima d’opinione. Com’è avvenuto l’anno scorso, quando ha, certamente, “lanciato” i candidati del M5s. A Roma, ma soprattutto a Torino. Il sondaggio di Parma, comunque, suggerisce come Pizzarotti oggi disponga di una notevole legittimazione personale. Se 5 anni fa era il portabandiera della sfida del M5s al sistema, oggi appare protagonista della sfida del sistema al M5s. Un “non-partito” che, tuttavia, ha assunto alcuni vizi dei partiti contro i quali è nato e dichiara di combattere. Anzitutto, la centralizzazione. Meglio: la “personalizzazione centralizzata”. È, infatti, significativo come al possibile successo di Pizzarotti, a capo di una lista “personale”, corrisponda l’insuccesso (possibile) del candidato e della lista del M5s. Anche a Genova, dove la storia di Grillo ha “radici” profonde, il candidato del M5s, Luca Pirondini, è minacciato dalla concorrenza, per quanto limitata, espressa dalle liste presentate da due fuoriusciti. Fra loro: Marika Cassimatis, bocciata da Grillo, dopo essersi affermata alle Comunarie. Ma Genova appare un caso esemplare dell’equilibrio instabile che oggi caratterizza l’Italia.
La conferma viene da Palermo. Un osservatorio particolarmente significativo della personalizzazione, in ambito urbano e nazionale. Leoluca Orlando, infatti, è “nato”, politicamente, a Palermo. Negli anni Ottanta. Prima della stagione dei sindaci. Che ha, peraltro, interpretato, nel decennio successivo. Quando, tuttavia, ha svolto un ruolo significativo anche in ambito nazionale. In partiti-movimenti apertamente critici verso il sistema. Dalla Rete all’Italia dei Valori. Orlando: non ha mai rinunciato alla parte del Capo popolar- populista, che, soprattutto nel Mezzogiorno, è utile ad allargare i consensi. Proprio per questo, attrae e divide. Potrebbe passare subito, al primo turno. Ma, in caso di ballottaggio, rischia di subire l’aggregarsi del “voto contro”.
Naturalmente, molte altre e diverse sono le ragioni di interesse offerte dalle prossime amministrative. Ci sarà tempo per valutarne il significato. Per ora, mi limito a osservare che si tratterà, a mio avviso, di “elezioni critiche”. Perché potrebbero segnare il tramonto della stagione dei sindaci. E, insieme, dei “partiti personali”, che ne sono gli eredi. Ma anche dei “non-partiti”, poco credibili di fronte alla prospettiva di governo, anche in ambito locale. E indeboliti dalla debolezza degli “antagonisti”: i partiti. Personali e impersonali. L’Italia dei Comuni, insomma, non si rassegna alla politica della non-politica.

Corriere 29.5.17
E Calvino creò la puntualità
il riformatore fu spesso denigrato ma cambiò la cultura occidentale
di Paolo Mieli

Colpisce nella vita di Giovanni Calvino l’assoluta precarietà esistenziale. Emanuele Fiume, nella straordinaria biografia, Calvino. Il Riformatore profugo (di imminente pubblicazione per i tipi della Salerno), mette in grande evidenza questa sua caratteristica. Martin Lutero e Huldrich Zwingli, fa osservare Fiume, passarono entrambi gran parte della loro vita «a non più di qualche decina di chilometri dai rispettivi villaggi natii». Calvino, invece, fu l’unico tra i grandi della Riforma ad aver vissuto per la maggior parte della sua esistenza — «e per la quasi totalità della sua vita attiva», sottolinea Fiume — da esule. Ginevra non fu la sua patria e, fino a pochi anni dalla sua morte, Calvino vi dimorò come straniero immigrato, «con il permesso di soggiorno che gli veniva rinnovato di sei mesi in sei mesi». Forse fu per questo, prosegue lo storico, che fornì «una motivazione spirituale e vocazionale» a un gran numero di «profughi per ragione di fede»; così come fu l’unico che vide nella formazione di questo genere di profughi uno «strumento di diffusione della Riforma a livello continentale» e di tessitura di una «rete di contatti teologici e politici che risulterà fondamentale per gli sviluppi internazionali del protestantesimo».
Fiume si interroga sulla demonizzazione di cui Calvino è stato fatto oggetto per secoli («eresiarca per i cattolici, intollerante per gli illuministi, inventore del capitalismo per i marxisti»). Ad integrazione delle opere di tre studiosi italiani novecenteschi — Renato Freschi, Giovanni Calvino (Corticelli); Adolfo Omodeo, Giovanni Calvino e la Riforma in Ginevra , opera curata postuma da Benedetto Croce (Laterza); Giorgio Tourn, Giovanni Calvino. Il riformatore di Ginevra (Claudiana») — offre un saggio dal quale, per sua stessa dichiarazione, non emanano «né olezzo di incenso, né puzza di zolfo».
Calvino, Jehan Cauvin venne alla luce, secondogenito di un notaio, il 10 luglio 1509, a Noyon in Piccardia. La sua prima biografia «autorizzata», scritta dall’allievo e amico Teodoro di Beza, racconta con qualche vaghezza — come già mise in evidenza Jean Cadier in Calvino (Claudiana) — che fu a Parigi all’età di dodici anni. Alister McGrath, in Giovanni Calvino. Il Riformatore e la sua influenza sulla cultura occidentale (Claudiana), ha approfondito la questione del «beneficio ecclesiastico» che gli fu assegnato in quegli anni giovanili senza però dare eccessivo rilievo alla borsa di studio offertagli dalla Chiesa.
Il futuro riformatore fu poi al Collège de Montaigu dove aveva studiato trent’anni prima Erasmo da Rotterdam e che, dopo di lui, avrebbe avuto tra i suoi allievi Ignazio di Loyola. A proposito di Erasmo va ricordato che — come ha messo in risalto McGrath — il primo libro del ventitreenne Calvino (un commento al De clementia di Seneca pubblicato, a spese dell’autore, nel 1532) fu un’aperta sfida all’edizione critica erasmiana dello stesso testo, data alle stampe appena quindici anni prima. Una sfida che lo stesso Fiume considera «quantomeno eccessiva». Questo libro di Calvino, polemico nei confronti di Erasmo da Rotterdam, fu un fiasco, «l’unico fiasco editoriale» di colui che fu «uno degli autori più letti nel corso del XVI secolo».
Tema centrale del saggio di Fiume è la ricostruzione di come la Francia (e così gran parte dell’Europa occidentale) fu percorsa da «fremiti di Riforma religiosa» ben prima dell’entrata in scena di Lutero. Calvino entrò in contatto con simpatizzanti della Riforma (tra i quali suo cugino Pierre Robert, detto Olivetano) da giovanissimo, in un periodo che trascorse tra Orléans e Bourges. L’incontro più importante con un riformatore fu senza dubbio quello con il rettore della Sorbona Nicola Cop, alla cui prolusione dell’anno accademico 1533, Calvino diede un apporto notevole (probabilmente ne fu il ghost writer ). Quel discorso, che sostanzialmente sposava le tesi di Lutero, causò un’aspra reazione del re di Francia Francesco I. Reazione che costrinse Cop e Calvino a fuggire da Parigi e, sulla loro scia, portò all’incriminazione di una cinquantina di persone.
La tensione con l’autorità francese era destinata a crescere: l’anno successivo (1534), nella notte tra il 17 e il 18 ottobre, a Parigi, Tours, Blois, Rouen e Orléans furono affissi dei placard (manifesti) contro «i grandi, insopportabili e orribili abusi della messa papale». A riprova di quanto fosse articolata e tentacolare la rete cospirativa, due copie di quel manifesto che stroncava la messa tradizionale furono ritrovate nell’anticamera della stanza da letto del re nel castello di Amboise. Una era appesa alla porta d’ingresso alla stanza, l’altra, piegata, nel vaso in cui il sovrano riponeva il suo fazzoletto. Francesco I, grande protettore della Chiesa di Roma, capì al volo la gravità dell’avvertimento e per ritorsione mandò al rogo un discreto numero di evangelici, primo tra tutti Barthélemy Milon. Fiume mette in risalto come Calvino prese subito la distanze da quei ribelli e tenne a esibire, nei loro confronti, un «profondo disprezzo». Per lui il rispetto dell’autorità restava fondamentale.
Quando, nel corso delle sue peregrinazioni, Calvino giunse a Ginevra, si imbatté nell’autorità di Guillaume Farel che aveva vent’anni più di lui ed era stato collaboratore, a Meaux, del vescovo riformatore Guillaume Briçonnet. Dal 1530 Ginevra era governata da un Consiglio cittadino. Nel 1534 arrivò il domenicano Guy Furby che accusò Farel di essere «un pupazzo» in mano ai nemici della Chiesa cattolica, in particolare quelli di Berna, città che aveva aderito alla Riforma. Il risultato dell’azione di Furby fu tuttavia opposto a quello sperato: Ginevra si schierò sempre più dalla parte di Berna. Nell’estate del 1535, dopo una predica di Farel, la città si rivoltò contro la Chiesa di Roma e un’importante reliquia, un presunto frammento del cervello di San Pietro, venne gettata nel Rodano. A quel punto il clero lasciò in tutta fretta la città e il Consiglio incamerò i beni ecclesiastici.
È la rottura. Ha inizio una lunga stagione repubblicana in cui Ginevra sarà alleata della Confederazione svizzera nella quale, però, entrerà solo nel 1815. Nel settembre del 1536 Calvino inizia il suo ministero nei panni di «lettore della Scrittura». Ma dai documenti trovati da Fiume emerge che anche lui è mal tollerato dalla città: lo pagano in ritardo, malvolentieri e lo definiscono «ille gallus», quel francese. Lui reagisce con arroganza. Un difetto che viene alla luce in occasione di una sua polemica con il riformatore alsaziano Martin Bucer, che lo tratta invece con dolcezza. Farel, il pastore cieco Jean Corauld ma soprattutto Calvino si battono da quel momento per una presa di distanze di Ginevra da Berna e per una ricucitura del rapporto con la Francia. Calvino sostiene pubblicamente che il Consiglio della città è ispirato dal diavolo. Corauld definisce i membri del Consiglio «ubriaconi» e viene arrestato. Calvino e Farel sono costretti a emigrare. Strana e per certi versi misteriosa congiura.
Dopo qualche peregrinazione, nel 1538 Calvino arriva a Strasburgo che ha come riferimento spirituale il testé citato Bucer, che lo accoglie con sé senza dar peso alle polemiche di cui s’è detto. Bucer già nel 1521 s’è avvicinato a Lutero, ha sposato una suora e nel 1523 è stato scomunicato. È una figura importante dell’Europa riformatrice: Enrico VIII lo consulta al momento del divorzio con Caterina d’Aragona. Calvino lo aiuta nella costruzione del progetto di convivenza delle diverse anime del protestantesimo: nel rispetto dei grandi teologi del Medioevo e nel riferimento costante alla figura di Paolo di Tarso. Su spinta dell’imperatore Carlo V tra il 1540 e il 1541 si svolgono colloqui tra protestanti e cattolici per una pacificazione che restituisca serenità alla Chiesa. Papa Paolo III e Martin Lutero però sono diffidenti, Calvino se ne tiene ai margini e l’insuccesso dell’iniziativa brucia Bucer.
È in questo periodo, 1540, che Calvino decide di prender moglie (una vedova), perché, scrive Fiume, «anche ragioni di immagine richiedevano che i ministri riformati fossero sposati». Ma il rapporto con la sposa — nove anni — fu sostanzialmente casto. L’annotazione alla «castità» del matrimonio di Calvino da parte di Teodoro di Beza ha provocato allusioni, anche in tempi recenti, a una sua possibile omosessualità. In proposito si è fatta menzione di un suo ruolo di imputato a un processo per sodomia in Francia. Ma si tratta di un caso di omonimia. Per giunta imperfetta. E comunque Calvino ai tempi di quel caso giudiziario non poteva essere in Francia. Inoltre, scrive Fiume, «se è vero che il temperamento dello schivo teologo non ci sembra caratterizzato da incontenibili istinti sessuali come poteva esserlo quello di Enrico VIII o Filippo d’Assia, è altrettanto vero che nella sua predicazione i rapporti sessuali tra coniugi costituiscono una parte fondamentale del matrimonio». Nel 1541, nonostante la città di Strasburgo da due anni gli avesse concesso la cittadinanza, decide di tornare a Ginevra dove la cittadinanza l’avrebbe ottenuta solo diciotto anni dopo. Sente che Ginevra è e ancor più sarà la città della sua rivoluzione...
Nel 1545 Ginevra è sconvolta da un’epidemia di peste e Calvino — che è uno strenuo fautore della persecuzione degli «untori» nonché della caccia alle streghe — ne approfitta per sostituire numerosi pastori deceduti a causa del morbo con altri a lui fedeli. Nasce in quel clima, peraltro di progressivo distacco dal luteranesimo, l’ homo calvinisticus di cui ha parlato lo storico francese Emile-Guillaume Léonard nella sua monumentale Storia del protestantesimo (il Saggiatore). Unico passo falso la condanna al rogo del teologo antitrinitario spagnolo Michele Serveto (1553) che sarebbe costata a Calvino un marchio d’infamia. Ma Fiume lo assolve, almeno in parte. Perché? Calvino avrebbe potuto denunciare Serveto dal 1547 e non lo fa. Non ci è pervenuto nessun dato storiografico che attesti il compiacimento di Calvino per quell’uccisione. Serveto, poi, non fu condannato da un tribunale ecclesiastico, bensì da uno civile. Per di più, nella Ginevra della Riforma, fu l’unico mandato a morte. Ragion per cui, anche se fosse provato un coinvolgimento di Calvino nella decisione di mandare Serveto al rogo, la sua responsabilità, secondo l’autore, non sarebbe così schiacciante come l’hanno giudicata i critici della Riforma ginevrina.
Ma la rivoluzione di Calvino fu molto importante. L’abolizione delle festività cattoliche, mette in evidenza Fiume, offrì la disponibilità di un mese e mezzo di giorni lavorativi in più che «costituì un investimento di peso per l’economia familiare e sociale». Le sue «leggi contro il lusso» andrebbero ristudiate ancora oggi dal momento che seppero coniugare moderna efficienza e guerra alle sperequazioni sociali.
Nel libro L’ordine del tempo (Claudiana) lo storico svizzero Max Engammare dimostra come persino la puntualità sia un’invenzione del XVI secolo venuta fuori dalla Ginevra riformata dove iniziarono a diffondersi gli orologi pubblici e «il calvinismo reimpostò il rapporto tra la spiritualità e lo scorrere (o l’incalzare) del tempo». Calvino parlò di «uso responsabile» del tempo e impose la clessidra sui pulpiti per verificare la durata dei sermoni. Riformatore? In realtà Calvino fu un rivoluzionario sotto molti aspetti più importante dello stesso Lutero.

Corriere 29.5.17
Cina: appuntamenti al buio (di massa) Il partito diventa agenzia matrimoniale
Linee guida anche alle aziende che obbligano i single a incontri «per trovare l’anima gemella»
di Guido Santevecchi

PECHINO Il matrimonio è una grande questione nello sviluppo della personalità, dice il compagno He Junke, alto dirigente del Comitato centrale della Lega della Gioventù comunista cinese. Così importante, la questione, che il Partito offre ai ragazzi il proprio aiuto nella ricerca dell’amore. Fino al punto di favorire «appuntamenti al buio» per far scoccare la scintilla.
Non è uno scherzo, questo del Partito comunista cinese disposto ad agire da agenzia matrimoniale: la notizia è stata pubblicata con rilievo dalla stampa statale di Pechino sotto il titolo «La Lega guiderà i giovani nella ricerca dell’anima gemella». Il Primo segretario He Junke ha espresso la sua teoria nel corso della presentazione del «Piano di medio e lungo termine di sviluppo della Gioventù, 2016-2025».
«È una tendenza accertata che i nostri cittadini si sposano e hanno figli più tardi che in passato. Ormai moltissimi prima si laureano e cominciano a pensare alle nozze solo tra i 25 e i 26 anni. Lo stile di vita è cambiato, si cerca un lavoro soddisfacente, socializzare è diventato più difficile e così non si trova il partner ideale», ha spiegato He.
In realtà, per decenni c’è stata l’odiosa legge del figlio unico per disinnescare la bomba demografica e ora che il progetto scellerato è stato abbandonato, il danno è fatto. Il risultato, dicono le statistiche ufficiali, è che nel 2015 c’erano 200 milioni di single in Cina. Un problema sociale che turba il Partito perché il tasso di natalità è crollato al punto da restringere il bacino della forza lavoro e rischia di frenare la crescita della seconda economia del mondo. Oltretutto in Cina l’assistenza sociale è ancora molto limitata, la famiglia svolge ancora il compito predominante nel welfare.
Soluzione in tre punti, comunicata dal leader della Lega della Gioventù che conta 88 milioni di iscritti e 3,87 milioni di sezioni sparse nel territorio: 1) La Lega guiderà i suoi membri in un percorso di formazione sul valore di matrimonio e famiglia. 2) La Lega lavorerà con altre organizzazioni per impegnare i giovani in attività sociali. 3) La Lega si coordinerà con le autorità per standardizzare i servizi di incontro e unione. In Cina proliferano le agenzie e le app online a scopo matrimoniale, ma sono poco regolate e piene di truffe, il Segretario He ha detto anche questo e ha concluso che in ultima analisi il matrimonio «è una questione molto personale». Nella quale però il Partito vuole entrare per dirigere le masse.
Leggendo le cronache di questi giorni si scopre che diverse aziende hanno già risposto alle nuove linee guida e hanno spinto (costretto) i dipendenti scapoli e nubili a partecipare ad appuntamenti al buio di massa organizzati in parchi e stadi. In diecimila sono stati riuniti in una piazza di Hefei, nella provincia dell’Anhui; 300 datori di lavoro hanno convocato i dipendenti per un «carnevale» d’amore a Wuhan, nello Hubei. Chi si è rifiutato è stato contato come «assenteista», scrive il Global Times , quotidiano governativo. «Tutti i single della mia azienda sono stati obbligati a partecipare alla festa sabato scorso e agli uomini è stato detto di prendere in braccio una donna, una cosa davvero imbarazzante», ha riferito Xiao Qiu, impiegato di una società statale di Nanchino. Il tema è serio, è giusto che preoccupi il governo, ma non bisognerebbe ricorrere a questi sistemi, ha commentato il professore Yuan Xin, esperto di pianificazione familiare. Forse nemmeno il Partito-Stato ha il diritto di ordinare ai single: amore e matrimonio. Forse il Segretario He non ha visto il film «The Lobster» del 2015 con Colin Farrell e Rachel Weisz, che immaginava un futuro distopico nel quale per legge i single vengono inviati in un hotel in cui sono costretti a trovare, entro 45 giorni, un compagno o una compagna con cui fare coppia.
Chi fallisce viene trasformato in un animale (a propria scelta).

La Lettura del Corriere 28.5.17
Una tigre un po’ reale e un po’ no: con lei un collage di belve filmate

È la tecnologia a dar vita sullo schermo alla toccante storia d’amicizia tra una feroce tigre del Bengala di nome Richard Parker e il giovane Pi Patel, costretti a condividere una piccola barca in mezzo all’oceano dopo un naufragio. Nel film del premio Oscar Ang Lee, Vita di Pi (2012), il ragazzo e la tigre non hanno mai condiviso il set, per questioni di sicurezza. Il loro incontro è il frutto di un’attenta orchestrazione tra realtà e computer grafica. Nella maggior parte delle scene la tigre che appare con l’attore Suraj Sharma è una creazione digitale realizzata da Rhythm & Hues, società di Bill Westenhofer specializzata in effetti speciali (anche questi da Oscar). Ma in alcune inquadrature, quelle in cui Richard Parker è sola sullo schermo, è proprio una tigre vera quella che vediamo: reale è per esempio la tigre che nuota nell’oceano. Il resto è frutto di un minuzioso lavoro di animazione digitale che ha ricostruito l’animale a partire dall’analisi di footage di tigri reali e di quattro animali ripresi dal vero. Così gli animatori hanno elaborato scheletro, ossa, pelle e pelliccia. Con l’intenzione di antropomorfizzare l’animale il meno possibile.

La Lettura del Corriere 28.5.17
Confini aperti o chiusi? I migranti dividono i filosofi
Nida-Rümelin: senza frontiere si scioglie lo Stato
Di Cesare: ma il territorio non è proprietà privata

DONATELLA DI CESARE — Professor Nida-Rümelin, nel suo libro Über Grenzen denken («Pensare oltre i confini») lei prende posizione sulla questione scottante delle migrazioni, di solito evitata dai filosofi. Va detto, però, che in questi ultimi tempi sono usciti in Germania molti contributi intorno a questo tema, forse per reazione al «dramma dei profughi» nell’estate del 2015. È stato allora che Angela Merkel, contravvenendo a ogni regola, rompendo il patto di Dublino e l’accordo di Schengen, ha aperto le porte lasciando entrare quasi un milione di rifugiati, in gran parte provenienti dalla Siria. Lei però critica la cancelliera perché — dice — quella decisione «nella sua spontaneità non è stata meditata». Il mio giudizio è diametralmente opposto al suo. Tuttavia ho l’impressione che l’estate del 2015 sia un punto di non ritorno. È finita in Germania la «cultura del benvenuto»?
JULIAN NIDA-RÜMELIN — Nella politica del governo federale, e della cancelliera, c’è stato in effetti un cambio di rotta. Adesso la questione è da un canto come impedire altri flussi di profughi, o come canalizzarli meglio, dall’altro come rendere più efficaci le espulsioni su larga scala. D’altronde in Germania la politica, insieme con l’economia e la società civile, compie enormi sforzi per consentire un’integrazione a lungo termine. In questo senso la «cultura del benvenuto» non è finita.
DONATELLA DI CESARE — A proposito dell’etica. Anche in questo suo ultimo libro, come in altri, lei mette l’accento sul «normativo», sulla normatività, e cerca perciò di dare risposte, anzi perfino di fornire postulati per una politica della migrazione. Invece io credo che il compito della filosofia sia quello di mettere in questione, nella loro legittimità, tutte quelle pratiche che appaiono ovvie. Gli Stati nazionali avanzano la pretesa di decidere dei loro confini territoriali e politici, se è necessario perfino respingendo i migranti. Questo corrisponde, certo, alla norme internazionali. Ma si può dire che sia un diritto eticamente giustificato? A me non pare proprio. E che ne è del diritto di migrare? Non dovrebbe essere universale?
JULIAN NIDA-RÜMELIN — Io sostengo le norme del diritto internazionale dalla prospettiva dell’etica e della filosofia politica. E critico teoria e pratica degli open border , dei confini aperti, da un punto di vista cosmopolitico, non nazionalistico. Importante è per me il primato della politica e della capacità della politica di articolare la realtà. Un mercato del lavoro globale e illimitato metterebbe a rischio quelle strutture della solidarietà sociale che si sono sviluppate nei secoli. Anzi, guardando ai dati empirici, le distruggerebbe in tempi brevi. All’Accademia delle Scienze di Berlino dirigo un gruppo di lavoro sulla giustizia internazionale e la responsabilità istituzionale al di là degli Stati nazionali. Penso che la politica debba poter esercitare, anche al di là dei confini nazionali, la sua forza plasmatrice, democraticamente legittimata. In tal senso è auspicabile che gli Stati nazionali siano disposti a cedere un po’ delle loro competenze, non solo all’interno dell’Unione Europea. Ma non si può certo perorare e raccomandare quella dissoluzione della responsabilità che deriverebbe da una ulteriore espansione del mercato globale. In tal senso le regole che vigono oggi nel diritto internazionale sono, nella sostanza, anche etiche, perché assicurano il primato della politica.
DONATELLA DI CESARE — Nonostante la cautela con cui si esprime, sembra che, alla fin fine, lei sia favorevole alle porte chiuse. Certo, lei presenta molti motivi, soprattutto economici, che giustificherebbero la chiusura. Ad esempio sostiene che i Paesi poveri diventeranno più poveri a causa della migrazione. Forse sarà così a lungo andare. Chissà. Ma che ne è delle generazioni odierne? Dei giovani che aspirano oggi a una chance? Perché dovrebbero essere puniti?
JULIAN NIDA-RÜMELIN — Non sono per i confini chiusi, bensì per confini controllati politicamente. A questo scopo non sono necessarie barriere e muri; basta anzitutto un’amministrazione pubblica che funzioni. Che negli Stati Uniti ci siano più di dieci milioni di persone senza documenti è la prova della disfunzionalità dell’amministrazione pubblica americana. In Germania questo non è accaduto neppure dopo la decisione di aprire le frontiere presa da Angela Merkel nel settembre del 2015. Forse lei sarà sorpresa, ma in diverse occasioni ho detto con chiarezza che oggi viviamo in un mondo dai confini chiusi e che di certo possiamo sopportare più migrazione a livello globale. Ma purché sia orientata a criteri etici e politici.
Tra i giovani uomini delle regioni dell’Africa sub-sahariana è molto diffusa la convinzione che valga almeno la pena tentare di giungere in Europa. Questa convinzione nasce da un errore drammatico con cui si pretende di valutare la situazione. In Europa non c’è richiesta di forza lavoro non o poco qualificata. In Paesi come Italia, Spagna, Grecia, e anche, sebbene in misura minore, in Francia, abbiamo un tasso di disoccupazione estremamente alto. Perciò è ingannevole l’aspettativa di una integrazione nel mercato europeo del lavoro che sia semplice e priva di problemi. Qui tutte le parti potrebbero perdere. Anzitutto perdono quelli che hanno investito almeno 7 mila dollari (o anche più) per arrivare dal Ghana a Lampedusa, che hanno rischiato la vita nel viaggio e che, una volta arrivati a Cagliari, Catania, Palermo riescono a malapena a guadagnarsi un paio di euro al giorno nei parcheggi di auto. Perdono le famiglie che, dopo aver racimolato tutti i risparmi, li investono in questa forma di migrazione. Infine perdono anche quei benintenzionati che, nei Paesi ospiti, si aspettano un arricchimento e una rivitalizzazione delle società che accolgono i profughi. È palpabile la disillusione di coloro che in Germania sono impegnati nell’accoglienza. Tre quarti di quelli che sono entrati nel settembre 2015 sono giovani uomini tra i 16 e i 35 anni. Molti di loro provengono da ambienti di tradizione musulmana e da strutture familiari autoritarie; lasciati a se stessi, per la prima volta nella vita, sono disorientati nella nuova situazione. Alcuni sviluppano perciò, come dimostrano i numerosi atti di violenza, una avversione contro la cultura liberale che li circonda, contro le donne emancipate, e si ghettizzano in gruppi chiusi. Capisco che vogliano migliorare le loro condizioni di vita, anche esponendosi a tutti i rischi del viaggio intercontinentale. Ma ad attenderli, una volta giunti, è nella maggior parte dei casi un’amara delusione. Le qualifiche dei loro profili non corrispondono alle esigenze dei mercati del lavoro nelle regioni economicamente avanzate del mondo. Le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti. Per esempio in Italia, sopratutto nelle città del Sud: molti giovani provenienti dall’Africa sub-sahariana, che non hanno la prospettiva di un lavoro regolare, si arrangiano con lavoretti mal pagati, vendono fiori spostandosi da un locale all’altro, senza essere in grado di realizzare un reddito decente... Il tasso di occupazione tra i rifugiati arrivati in Germania nell’autunno del 2015 si attesta attualmente al 6%!
DONATELLA DI CESARE — La sua posizione emerge con chiarezza nella discussione di importanti problemi politici. Ad esempio mi sembra che lei non sia contrario al patto tra Unione Europea e Turchia per fermare l’immigrazione sulla rotta balcanica. Io lo considero una macchia e concordo con la denuncia di Amnesty International. Ma colpisce soprattutto che lei non denunci abbastanza i muri, mentre critica la politica italiana d’accoglienza. Lei scrive che l’Italia ha fatto «piuttosto poco» per l’integrazione. L’argomento è che bisognerebbe investire di più in Africa. Ma intanto sbarcano in migliaia a Lampedusa e la ripartizione dei profughi non funziona. Che cosa dovrebbe fare l’Italia, più di quel che fa? Non crede che tutti i Paesi dell’Europa meridionale siano stati lasciati soli? Non crede sopratutto che l’Europa abbia dimenticato sotto ogni aspetto, anche positivo, il Mediterraneo?
JULIAN NIDA-RÜMELIN — No, non difendo il patto Ue-Turchia. Al contrario, mi sembra che i Paesi d’Europa, e in particolare la Germania, siano divenuti dipendenti dalla benevolenza della Turchia. E andrei oltre sostenendo che il gesto caritatevole della cancelliera Merkel e il messaggio della «cultura del benvenuto» vengono garantiti da un patto con uno Stato avviato già verso una dittatura. La tesi, sostenuta veementemente dalla cancelliera e da altri membri del governo federale, secondo cui oggi nessun confine è più difendibile, viene di fatto falsificata dall’esigenza di rendere impenetrabili i confini esterni dell’Unione Europea. Secondo il motto: non ne vogliamo sapere più dei confini, a meno che non siano sufficientemente lontani. Ho criticato solo lievemente l’Italia per la mancanza di una politica di integrazione, ma ho criticato più aspramente la Germania per aver piantato in asso l’Italia quando, per via degli sbarchi che aumentavano drammaticamente e per via dei tanti che morivano nel Mediterraneo, il Paese si è trovato al limite delle proprie capacità. Questo non va: rifiutare la solidarietà e poi richiederla quando si è colpiti, come è avvenuto in Germania nell’autunno del 2015. Credo che una amministrazione pubblica funzionante, una meditata legge sull’immigrazione e una politica globale di giustizia renderebbero superflui frontiere, steccati e muri. Come presidente della giuria ho proposto per il «Premio Willy Brandt» il nome di Agnes Heller, la voce critica più famosa ed eminente contro il regime ungherese di Orbán. E la mia proposta è stata accolta. D’altronde le mie critiche alle correnti (Le Pen, Alternative für Deutschland, Lega Nord...) e ai governi populisti (Polonia, Ungheria) sono ben note. Manca la solidarietà europea, anche per quel che riguarda il tema della migrazione, così come mancano fondamenti etici e una politica stringente. Perciò prendo parte al dibattito pubblico.
DONATELLA DI CESARE — Alla fine del suo libro lei propone un’analogia che mi è capitato di trovare anche in altri articoli pubblicati in Germania: il profugo sarebbe come un senzatetto che viene sorpreso dal cittadino nel salotto di casa. Lo scopo della sua argomentazione, che definirei statocentrica, è di legittimare i confini. Non trova però che quell’analogia sia del tutto fuorviante? Come cittadini non abbiamo la proprietà del suolo nazionale. Non è come una proprietà privata. Di conseguenza, secondo me, non abbiamo alcun diritto di escludere gli altri.
JULIAN NIDA-RÜMELIN — Questa analogia è meditata. Nella Costituzione tedesca è scritto che il potere viene dal popolo e al popolo appartengono lo Stato, il territorio, le risorse, le infrastrutture. Sono proprietà dei cittadini che ne dispongono. E possono decidere di imporsi restrizioni, per rispettare gli obblighi internazionali, come la Convenzione di Ginevra. Il dovere di proteggere i profughi di guerre civili è per me molto importante. Perché fondamentale è l’idea che la prassi, individuale e collettiva, sia possibile solo all’interno di strutture vincolanti. Perciò la mia etica della migrazione fa parte di un progetto più ampio che chiamo «razionalità strutturale». La razionalità è possibile solo nel quadro di regole, norme e istituzioni che rischierebbero di dissolversi se tutto diventasse un mercato globale. Questa è per me un’etica intesa come ottimizzazione possibile solo entro i limiti della razionalità strutturale. Questi limiti includono i confini statali. Senza confini statali la politica non avrebbe forza plasmatrice, non ci sarebbe cooperazione né Stato sociale. Sono un seguace del cosmopolitismo, dell’idea che al di là degli Stati-nazione debba esserci una responsabilità istituzionale, democraticamente controllata, che affronti i problemi del mondo, non solo la migrazione, ma anche i cambiamenti climatici, l’utilizzo delle risorse. Mi ritengo un cosmopolita in senso letterale, cittadino del mondo. Si tratta di plasmare le condizioni globali di vita, si tratta del primato della politica a livello nazionale e internazionale. La dissoluzione dello Stato non può essere, come sembra credere lei, il passo verso un ordine mondiale che sia politicamente progettato.

La Lettura del Corriere 28.5.17
La razza non c’entra Il razzismo è politica
Il pregiudizio è una faccenda complicata, mostra lo storico portoghese Francisco
di Antonio Carioti

Bethencourt nel suo libro Razzismi (il Mulino). Si nutre in primo luogo di fattori politici, sostiene, ma anche culturali e religiosi. Varia inoltre radicalmente da un Paese all’altro, tanto è vero che la stessa persona può oggi essere considerata nera negli Stati Uniti e bianca in Brasile. «Il contesto storico è cruciale per capire il razzismo», dichiara a «la Lettura» l’autore, docente al King’s College di Londra. «La discriminante del colore divenne più importante nelle colonie inglesi d’America (poi staccatesi da Londra e divenute Usa), dove le persone di razza mista persero posizioni nel volgere tra il Seicento e il Settecento e poi di nuovo con il dibattito sull’estensione della schiavitù nei nuovi territori dell’Ovest, prima della Guerra civile. Negli Stati Uniti, dove gli schiavi non furono mai in maggioranza, neppure al Sud, la solidarietà bianca venne costruita a spese degli afroamericani e dei mulatti, etichettati come neri. La regola dell’ipodiscendenza, per cui una goccia di sangue africano rende una persona nera, escluse i meticci. Invece in Brasile la maggioranza della popolazione coloniale era nera già nel Seicento e i bianchi avevano bisogno di un ammortizzatore per mantenere l’equilibro sociale. Questo è il motivo per cui gli individui di razza mista venivano emancipati e riconosciuti. A lungo andare in Brasile la classe sociale divenne più importante della razza: oggi i mulatti di ceto medio o elevato sono considerati bianchi, mentre negli Usa sono classificati neri. Negli Stati Uniti l’eredità dello schiavismo non è stata superata, benché in Brasile la pelle scura sia generalmente identificata con le classi umili».
Il razzismo, secondo Bethencourt, nasce da motivazioni politiche, non dalla classificazione sedicente «scientifica» delle stirpi umane: «Il pregiudizio riguardante la discendenza combinato con azioni discriminatorie precede le teorie razziali. La prova schiacciante si trova nella penisola iberica del Quattrocento, dove il pregiudizio contro ebrei e musulmani venne proiettato sui mori e gli israeliti convertiti al culto cattolico, creando una barriera tra cristiani mai vista prima, che contraddiceva il messaggio universalista predicato da San Paolo. Ho trovato anche prove del fatto che la teoria delle razze non sorge nel Settecento, ma nel Cinquecento, alimentata dall’espansione oltremare delle potenze europee. Il frontespizio dell’ Atlante di Abraham Ortelius (1570) mostra già una prima classificazione gerarchica tra gli esseri umani, attraverso la rappresentazione dei continenti con l’Europa in posizione preminente rispetto all’Asia (seconda) e l’Africa in terza posizione, America e Oceania in fondo».
Che ruolo gioca la religione nelle pratiche discriminanti? «Conta ancora oggi. I musulmani, nella percezione occidentale, sono tutti aggregati in una stessa categoria, anche se appartengono a etnie molto diverse, dall’Indonesia ai Balcani. Nella Spagna della prima età moderna il pregiudizio abbinato a misure discriminatorie contro ebrei e musulmani convertiti a forza dimostra che il motore del razzismo è il progetto politico di monopolizzare le risorse a vantaggio del gruppo dominante. Ho trovato conferma di questa tesi analizzando casi del genere in varie situazioni geografiche e cronologiche. La religione ha sempre giocato un ruolo, specie nei pogrom antisemiti della Russia zarista, nel genocidio degli armeni, nella Shoah».
Ma perché il libro comincia con le crociate? Nel mondo antico il razzismo non esisteva? «I pregiudizi circa la discendenza etnica — risponde Bethencourt — esistevano certamente nell’antichità: li ha studiati lo storico Benjamin Isaac. Ciò che mi è stato più difficile provare è l’esistenza di discriminazioni sistematiche contro etnie specifiche in quel periodo storico. Il libro comincia con le crociate perché la mia ipotesi è che il razzismo sia collegato all’espansione europea. E le crociate furono il primo periodo in cui gli europei conquistarono nuove terre dopo la fine dell’Impero romano d’Occidente. Ho trovato chiari elementi di razzismo nelle “crociate occidentali”, cioè la Reconquista cristiana della penisola iberica. Il caso delle crociate in Oriente per il controllo della Terrasanta, come osservo nel libro, è più complesso».

La Lettura del Corriere 28.5.17
La fuga senza fine dei mancati Lutero italiani
di Micaela Valente

Mentre tutti discutono di Lutero e dell’eredità della Riforma a distanza di 500 anni dalla presunta affissione delle tesi a Wittenberg (31 ottobre), spesso dimentichiamo il grande contributo al rinnovamento del pensiero e della teologia che arrivò da ogni Stato europeo. Molte idee provennero dalla penisola italiana, ormai sotto l’egemonia spagnola, e molti di quelli che partorirono queste idee morirono fuori dall’Italia, esuli per cause religiose. Tutti scapparono dal Sant’Uffizio dell’Inquisizione e molti si trovarono poi a fuggire dalla repressione degli Stati conquistati dalla Riforma di Lutero e di Calvino. Furono perseguitati per il loro appello alla riforma della Chiesa che nasceva dalla lettura filologica della Bibbia e dalle grandi conquiste dell’Umanesimo. In seguito sempre più si spinsero a rivendicare il diritto alla libertà di coscienza, trovando argomentazioni forti nel Vangelo.
In ogni parte d’Italia, in ogni ceto, ecclesiastici e laici, donne e uomini respirarono i germi contagiosi della Riforma e li diffusero, talvolta schierandosi e allineandosi con i Riformatori, ma più spesso allontanandosene. Seguendo le orme di questi pensatori, rimaniamo affascinati dall’intreccio di vite, di energico slancio al sapere, di meschine invidie accademiche, di continue ricerche di sostegni economici e di solidarietà insperate.
Si rimane sorpresi dallo scoprire che tra i più ricercati dal Sant’Uffizio ci fosse persino il generale dei Cappuccini, Bernardino Ochino, predicatore affascinante e animatore del circolo napoletano dell’esule spagnolo Juan de Valdés, frequentato anche da Michelangelo Buonarroti e da Vittoria Colonna. Contro dogmi e pratiche esteriori inutili, Valdés, che riportava Cristo al cuore della fede, conquistò tanti. Invitato a presentarsi davanti all’appena riorganizzato tribunale dell’inquisizione romana nel 1542, Ochino, sapendo di non essere al sicuro, prese la via dell’esilio e poi dichiarò di essere stato costretto a predicare Cristo in maschera, poiché aveva cercato di predicare le nuove dottrine (che nuove non erano affatto, dal momento che Lutero riprendeva Agostino) senza essere «scoperto». Ma Ochino non trovò rifugio nemmeno in terra protestante poiché chiedeva libertà di confronto su alcuni temi religiosi che non erano così certi e chiari. Le sue idee si scontravano con le altre Chiese e lo costrinsero a un lungo peregrinare in Europa finché morì povero e vecchio, in Moravia, nel 1564.
Meno drammatico fu il destino di Lelio e Fausto Sozzini: il primo (zio dell’altro) insolentì Calvino, che per questo condannò la curiositas degli italiani, mentre il secondo fondò la Chiesa unitariana in Polonia. Figlio dell’autorevole giurista senese Mariano, Lelio prese la via dell’esilio da Bologna nel 1547, si iscrisse all’Università di Basilea per studiare l’ebraico e poi si spostò di continuo fino a morire nel 1562 a Zurigo. Grazie a protezioni e alla pratica nicodemitica (simulava di appartenere alla Chiesa cattolica), Fausto rimase in Italia fino al 1575 e poi si rifugiò in Polonia, in tempo per evitare il processo inquisitoriale. Zio e nipote ritenevano che il dogma della Trinità fosse da respingere poiché era stato stabilito da un concilio; i Riformatori avevano chiarito che si doveva far riferimento soltanto alle Scritture e rifiutare tutto quello che era stato imposto dal magistero della Chiesa e quindi dai concili. Tuttavia, in questo caso, come già con gli anabattisti, i Riformatori (Calvino in prima linea) si contraddissero e affermarono la validità del dogma trinitario. Perché i Sozzini negavano la Trinità? Non solo perché questione solo sfiorata nelle Scritture, ma anche perché, seguendo Erasmo da Rotterdam ed altri, si erano accorti che l’incipit del Vangelo di Giovanni si prestava a varie interpretazioni. Attraverso la critica razionalistica, i Sozzini mettevano così in discussione la natura divina di Gesù, del cui insegnamento però esaltavano il fondamentale valore etico.
La peste ereticale, come la chiamavano gli inquisitori e i pii cattolici, contagiò persino le donne e l’ammiratissima nobildonna Giulia Gonzaga, allieva di Valdés, visse e pagò la sua adesione al dissenso intellettuale e religioso. Fu accusata di conoscere il latino e di essere «curiosa di veder cose et scritture di heretici» e, per sottrarsi all’Inquisizione, Gonzaga si schermì come donna dedita alla casa e ignara di ogni discussione teologica.
Da Trento si mosse invece Iacopo (o Giacomo) Aconcio: prima si spostò in Svizzera e poi, nel 1559, riuscì a trovare asilo e sostegno economico in Inghilterra. Lì svolse attività come ingegnere militare per Elisabetta I, e pubblicò un’opera, presso un editore italiano, anch’egli esule per motivi religiosi, Pietro Perna, sugli stratagemmi di Satana che, per conquistare anime, provocava le dispute ed era fautore della persecuzione. Prefigurando una separazione tra Stato e Chiesa, Aconcio, conscio della possibilità di errare, invitava ad astenersi dal giudicare i dissidenti e a lasciare i segreti dei cuori a Dio.
Ci furono italiani che fuggirono a Basilea, dove l’eredità degli ideali erasmiani ancora resisteva, e a Ginevra, dove il rogo del medico spagnolo Miguel Serveto nel 1553 avrebbe fatto tramontare anche quella speranza di approdo, mentre naufragava, seppure per un breve periodo, il rifugio dell’Inghilterra, con la regina Maria Tudor che cercava di reintrodurre il cattolicesimo.
Chissà se Papa Bergoglio, quando ha voluto il giubileo della misericordia, pensava anche a Erasmo e a Celio Secondo Curione, che aveva dedicato un’opera molto importante all’ampiezza della misericordia divina. Forte di un impegno rigoroso nell’edizione di testi classici e sacri, Curione infondeva speranza a tutti, sostenendo che Dio non avrebbe dimenticato nessuno nel suo abbraccio misericordioso e salvifico.
Crocevia di vite, di idee e di aspirazioni religiose e politiche come quelli che segnarono l’umanista ferrarese Olimpia Morata o il coraggioso profeta siciliano Giorgio Siculo, che rifiutò di abiurare e fu ucciso a Ferrara nel 1551; sorti infauste come i roghi del calabrese Valentino Gentile, a Berna nel 1566, del fiorentino Francesco Pucci, a Roma nel 1597, e del corpo, riesumato e bruciato insieme alle opere e al ritratto, di Marcantonio De Dominis, arcivescovo di Zara, nel 1624. Insidie accademiche costellarono la vita del marchigiano Alberico Gentili, regius professor a Oxford, considerato uno dei padri del diritto internazionale.
Furono questi italiani che seminarono in Europa i migliori frutti del vivace umanesimo: pur in fuga, avendo abbandonato famiglie che spesso subivano le conseguenze della loro scelta ereticale, affrontarono sospetti e rappresaglie, ma non rinunciarono a offrire stimoli e spunti di riflessione, difendendo la libertà della coscienza e promuovendo il dubbio come metodo per giungere alla verità. Ma di questo ricchissimo e complesso patrimonio intellettuale la penisola italiana, che ne era stata culla, non poté beneficiare per via della Chiesa (almeno di una parte), che giunse a mettere la Bibbia al rogo con il bando del volgare, come ci ha mostrato Gigliola Fragnito. Alle dottrine riformate mancò l’appoggio del potere politico e per questo un avversario dei Riformatori, il predicatore Francesco Panigarola, avrebbe scritto: «In libertà siamo noi; che sotto la paterna cura de sacri inquisitori dormiamo sicuri, viviamo quieti, godiamo le nostre facoltà, non sentiamo strepiti d’armi, e conserviamo intatto il fondamento istesso della salute nostra, che è la fede».

Il Sole 28.5.17
A tavola con. Carlo Rovelli
Il fisico che gioca d’azzardo con il tempo
di Paolo Bricco

Nell’esplosione del tempo. Nell’incedere della vita. E nel sobbalzare delle anime. «A volte mi alzo nel cuore della notte e fermo tutti gli orologi». Carlo Rovelli (nel disegno) utilizza un verso di Hofmannsthal per fissare la sua linea di luce e di ombra. Indossa una maglietta verde militare, sotto a un maglioncino blu scuro. Ha una particolare abitudine: porta la mano destra dietro all’orecchio destro, quasi per sentire meglio, poi si accarezza il lobo.
Siamo seduti sotto al pergolato in paglia della Trattoria Arisentimpò di Albano Laziale, sui Colli romani. Il suo nuovo saggio, L’ordine del tempo, è appena uscito da Adelphi. La vertigine è garantita: la pila dei libri venduti con il precedente Sette brevi lezioni di fisica (nate sulle pagine della Domenica del Sole) è formata da oltre un milione di copie (di cui 350mila in Italia, 200mila sia in Inghilterra che negli Stati Uniti, 160mila in Cina). «Le Sette brevi lezioni erano una sorta di storia d’amore fra me e la scienza. Questa volta, l’argomento è invece uno solo: il tempo. Ed è la storia di un inseguimento. Più lo si studia, più si sciolgono i misteri, più sorgono le domande», dice.
Rovelli ricomincia da qui: dal provare a unificare il pensiero attraverso il racconto. Facendo dialogare la scienza e la filosofia. Con l’inserimento in questa architettura – culturale e esistenziale - della poesia e dei romanzi. Così da costruire, in forma di saggio, una sorta di autobiografia della mente, dei sentimenti e dell’interiorità. Per iniziare, entrambi ordiniamo all’oste abbondanti bruschette condite con olio, sale e pomodori a pezzetti (aglio solo per me, non per Rovelli). Coca Cola per lui e acqua minerale per me. È appena arrivato da un viaggio in fuoristrada nel deserto dell’Oman, dove ha trovato «silenzio, spazio e solitudine». Partirà fra pochi giorni per il Brasile.
Albano Laziale ospita la Specola Vaticana, l’osservatorio astronomico della Chiesa Cattolica. Rovelli è qui per partecipare a un seminario sui buchi neri, le onde gravitazionali e il concetto di singolarità nello spazio tempo. In questa trattoria, all’ora di pranzo, la frescura è godibilissima. A un tavolo all’ingresso del giardino tre muratori mangiano piatti di pasta ricchi di sughi, con una spolverata alta un dito di pecorino. Tiro fuori dalla mia borsa il libro. È una copia staffetta, una delle prime recapitate dalla casa editrice nelle redazioni giornalistiche. Rovelli – anzi, in questo caso solo Carlo – si emoziona: «È la prima copia che vedo. È bellissima». Fa scorrere un pollice sul dorso rilegato, di un elegante color rosso Pontormo. Sembra felice come un bimbo che, scartando e rompendo l’uovo di cioccolato, ha trovato la sorpresa che ha sempre desiderato.
Rovelli, all’età di sessanta anni, è una specie di puer ludens. Nella costruzione intellettuale e estetica di questo saggio, compare una speciale sfacciataggine che non è mai sfrontata, una naïveté che non diventa sbruffoneria. Ma sono quella sfacciataggine e quella naïveté che spingono Rovelli a usare la prima persona singolare contraddicendo – signora mia, così non si fa – le regole dell’accademia, valide in particolare per la saggistica scientifica e filosofica, dell’autore che si nasconde dietro al libro.
Rovelli, invece, è dentro ed è davanti al libro. E, per riuscirvi, si confronta con i “Maggiori”, come avrebbero detto Carlo Dionisotti e Norberto Bobbio. Anche se, nel farlo, non trasmette un senso di presunzione vanitosa o di fredda alterigia. Assomiglia piuttosto al bimbo che gioca come Cristiano Ronaldo o Lionel Messi. E, magari, in campo non sfigura affatto. «Giacomo Leopardi a sedici anni ha scritto una storia dell’astronomia densa e coltissima, che ha una sua intima dimensione insieme narrativa e scientifica. Il Discorso sul metodo di Cartesio è un’opera scritta in prima persona», spiega senza alcuna posa professorale e con un entusiasmo che ricorda nel timbro della voce le eccitate passioni di un adolescente che, nell’estate solitaria, scopre i grandi classici. «Io penso sia importante, in tutto ciò che si fa, cercare l’unità e l’organicità», afferma.
Rovelli è titolare della cattedra di fisica teorica all’università di Aix-Marsiglia, dove insegna relatività generale e storia della scienza antica. In particolare, si occupa di teoria della gravità quantistica a loop, esponente di una comunità di specialisti che in tutto il mondo contempla un centinaio di scienziati. «La scienza – ricorda Rovelli – mostra come il tempo sparisca dalla struttura fondamentale del mondo». Non a caso, scrive nel suo libro: «La gravità quantistica a loop dimostra che scrivere una teoria coerente senza spazio e tempo fondamentali – e ciò nonostante usarla per fare predizioni qualitative – è possibile. In una teoria di questo genere, spazio e tempo non sono più contenitori o forme generali del mondo. Sono approssimazioni di una dinamica quantistica che di per sé non conosce né spazio né tempo. Solo eventi e relazioni. È il mondo senza tempo della fisica elementare».
Ma torniamo sotto al pergolato della Trattoria Arisentimpò. Nota Rovelli: «Il paradosso è che, se il tempo non c’è, è invece indubitabile che noi esistiamo nel tempo. Dunque, diventa fondamentale capire la nostra condizione nell’essere nel tempo». La condizione umana nell’essere nel tempo non viene analizzata soltanto attraverso le leggi scientifiche, ma è esplorata dai concetti filosofici e soprattutto tramite le categorie della narrativa e della poesia che distillano e coagulano, trasfondono e uniscono la comprensione e l’intuizione, il sapere e il sentire. Nel suo libro, una cui copia è adesso appoggiata a fianco di una bottiglia di acqua minerale, si legge: «Mondi sterminati. Sono quei mondi che il giovane Marcel ritrova confuso ogni mattina nella vertigine del momento in cui la coscienza emerge come una bolla da profondità insondabili, nelle pagine iniziali della Recherche. Quel mondo in cui si dischiudono poi a Marcel vasti territori quando il sapore della madeleine gli riporta il profumo di Combray. Un mondo immenso, di cui Proust dipana lentamente una mappa che si svolge lungo le tremila pagine del suo grande romanzo».
Il profumo del cacio e pepe dal tavolo vicino mi riporta al mio essere affamato. La conversazione procede spedita. La simpatia fluttua nell’aria. In qualche maniera, astraendosi dagli odori della cucina dei Colli romani, prende forma - mentre lui mangia con gusto una caprese di pomodori, mozzarella di bufala e basilico e io mi fiondo su una deliziosa bistecca con crema di funghi - una concezione neo-platonica della conoscenza del mondo. Con l’emozione – il dolore e il piacere, l’amore e la sofferenza – che provoca lo scatto di conoscenza dell’uomo che è nel tempo. Quest’ultimo «non è altro – si legge nel suo saggio – che una labile struttura del mondo, una fluttuazione effimera nell’accadere del mondo, ciò che ha la caratteristica di dare origine a quello che noi siamo: essere fatti di tempo. A farci essere, a regalarci il dono prezioso della nostra stessa esistenza, a permetterci di creare quell’illusione fugace di permanenza che è la radice di ogni nostro soffrire».
In qualche maniera – con un senso di giocosità autoironica – emerge nella persona che è a tavola con me il profilo dell’intellettuale del Quattrocento. In ogni caso, qualcosa di molto differente rispetto allo specialismo iper-tecnico dell’intellettuale contemporaneo. In questa identità da gambler impegnato a giocare su più tavoli una unica partita - scommettitore magari inconsapevole - Rovelli è un autore che, appunto, è dentro e davanti al suo L’ordine del tempo e che, peraltro, sta perfettamente in quel gioco d’azzardo continuo che è il catalogo di Adelphi.
Nel suo essere un autore, compare anche la traccia di una biografia intensa e marcata. La Verona dell’adolescenza, città conservatrice e segnata – nella sua borghesia e fra gli insegnanti – da nostalgie per il Ventennio: «Al liceo classico, ho iniziato a covare un senso di ribellione fortissimo verso tutto e tutti». La Bologna del 1977, dove si iscrive a fisica: «Volevo fare il vagabondo. Stare con i miei amici. Farmi le canne. Lo studio era l’ultimo dei pensieri». La Bologna di allora era vitale e violenta, grassa e veloce. Continua Rovelli: «Davo un esame all’anno per non partire militare. Una volta alcuni professori si allarmarono vedendomi arrivare con i capelli lunghi fino ai fianchi e con una fascia da indiano in testa». È la città che, a quel tempo, tiene insieme Andrea Pazienza e il Mulino, Freak Antoni e il dossettismo, Pier Vittorio Tondelli e il Partito Comunista, la semiotica di Umberto Eco e le ragazze più desiderate d’Italia. Poi, qualcosa cambia. Il giovane Rovelli inizia a studiare il libro di Paul Dirac su I principi della meccanica quantistica. «Fu sconvolgente. Una esperienza simile a quella provata da adolescente con I Fratelli Karamazov. Iniziai a leggere. E non riuscii più a smettere. Andavo avanti e capivo. Capivo e andavo avanti».
Da allora, tutta una corsa nel tempo e nel flusso della vita, fino a oggi e fino al domani. Mentre passiamo alle fragole (io le chiedo all’oste con zucchero e limone, lui le preferisce lisce), intuisci la chiusura del cerchio secondo Rovelli, che scrive: «Poi il canto si attenua, si placa. “Si rompe il cordone d’argento, la lucerna d’oro si infrange, si rompe l’anfora alla fonte, la carrucola cade nel pozzo, ritorna la polvere alla terra”. E va bene così. Possiamo chiudere gli occhi, riposare. E tutto questo mi sembra dolce e bello. Questo è il tempo».

Il Sole Domenica 28.5.17
I Vizi di Giotto spiegati in poesia
Importante recupero nella Cappella degli Scrovegni: decifrate tutte le iscrizioni sotto i Vizi e le Virtù ritenute perdute. Si tratta di versi che descrivono le figure
di Salvatore Settis

Come due fiumi inarrestabili che corrano entro una vasta pianura, testi e immagini si alternano, si compongono, si separano e si integrano mutuamente nella tessitura culturale dell’Europa medievale. Come è stato spesso osservato, sia i testi che le immagini costituiscono, ciascuno per suo conto, un corpus (e un thesaurus) separato, con proprie regole, ricorrenze, articolazioni, variazioni; e sarebbe ingenuo pregiudizio cercare dietro ogni immagine un testo che l’abbia direttamente ispirata, o vedere dietro i testi (perfino quelli più scopertamente ecfrastici) una specifica immagine-fonte, e una sola. Certo, esempi di questo mutuo rapporto 1:1 esistono, ma vanno rilevati e documentati quando sia il caso; mentre più frequente è il carattere per così dire self-contained del corpus testuale da un lato, di quello iconografico dall’altro, essendo chiaro che testi e immagini vengono ogni volta composti secondo principi di selezione entro un repertorio (o lessico) corrente, di accrescimento di quel ventaglio espressivo, e di affinamento stilistico finalizzato alla sua miglior rappresentazione entro un determinato contesto comunicativo, ogni volta differenziato secondo coordinate proprie (tempo e luogo, committente e pubblico, e così via).
Proprio perché questa è la regola, vanno distinti come una “famiglia” a sé i casi in cui – viceversa – testo e immagine sono dichiaratamente concepiti insieme, per fini comunicativi e/o espressivi convergenti, e messi in tensione l’un con l’altra. In questo genus mixtum si contano svariate modalità d’interazione, che potrebbero accorparsi a seconda di una semplice gerarchia: testi nati senza immagini, ma più tardi illustrati (per esempio Dante); opere concepite sin dall’inizio secondo un’accentuata complementarietà testo-immagini (come i Regia Carmina in onore di Roberto d’Angiò); e infine immagini concepibili senza alcun testo, ma che vengono talvolta arricchite, integrate o spiegate da più o meno lunghe addizioni testuali: tali sono ad esempio le scene bibliche, evangeliche o agiografiche, a cui a volte viene agganciata una veloce didascalia in parole. Senza negare il diffusissimo topos delle immagini come litterae laicorum, tale adiacenza lo sottoarticola rendendolo più pregnante, perché presuppone, com’è storicamente e statisticamente probabile, un pubblico non di soli illetterati né di soli chierici, ma stratificato e ricco di mediazioni. Si disegna in tal modo, intorno alle immagini, tutto un ventaglio di tecniche e strategie dell’osservazione, tutto un discorrere di quelle figure, in un «visibile parlare» che si nutre, anche, di una dimensione squisitamente orale, alla quale le immagini e le loro scritte danno continuo alimento.
È in questo quadro che il prodigioso recupero dei tituli delle Virtù e dei Vizi dipinti da Giotto agli Scrovegni, dovuto alla tenacia e alla competenza di Giulia Ammannati, prende tutto il suo risalto. Senza sprecar parole a ricordare la suprema importanza del ciclo giottesco, per l’altezza irraggiungibile del pittore ma anche per le ambizioni del committente, basti ricordare che ogni figura di quel ciclo si collocò all’origine al centro di uno scontro tra Enrico Scrovegni e gli Eremitani. Il ricco mercante l’aveva concepita come una cappella di palazzo, talché il vescovo lo autorizzò a erigere unam parvam ecclesiam in modum quasi cujusdam oratorii, pro se, uxore, matre et familia tantum con l’assicurazione che non vi sarebbe mai stato alcun concursus populi; ma gli Eremitani, il cui convento sorgeva nei pressi del palazzo dell’Arena (ora distrutto), presto si accorsero che le intenzioni del committente celavano alia multa, quae ibi facta sunt potius ad pompam et ad vanam gloriam et quaestum quam ad Dei laudem, gloriam et honorem, con conseguente grave scandalum, damnum, preiudicium et iniuria in tutta Padova. Su questo contrasto non è qui da insistere, ma esso è sufficiente a dire che ogni pennellata di Giotto, ma anche ogni parola dei tituli che questo libro ci permette ormai di leggere non va vista solo come privato ornamento di un ricchissimo cittadino né come oziosa ostentazione erudita, bensì come uno spaccato di concezioni etiche e religiose che appartengono al tempo stesso a una insistita autorappresentazione dello Scrovegni e a una sorta di programmatica praedicatio di valori morali e civici proposti sul teatro della città di Padova.
Grazie al minuziosissimo lavoro di Giulia Ammannati, le figure di Giotto e i versi latini che le accompagnano tracciano questo quadro con una chiarezza che pareva impossibile, tale da innescare, c’è da credere, nuove interpretazioni e ricerche, destinate a coinvolgere l’intero ciclo della Cappella. Per citare solo qualche esempio, il “metodo” dell’estensore dei tituli è esplicitato in quello di Karitas: Hec figura Karitatis [cioè proprio quella lì dipinta] / sue sic proprietatis / gerit formam, cioè viene rappresentata in modo aderente alle sue caratteristiche morali.
Analogamente il titulus di Fortitudo, mentre ne descrive atteggiamento e attributi, esplicita il nesso con l’immagine: sicut est similitudo / depicta subtiliter. L’attitudine di Ira che si strappa le vesti viene descritta come aderente al suo significato morale: Vestis actus hic [cioè: in quest’immagine] scissure / signant hoc [cioè che claritate rationis / Ira privat hominem]. Patet hic Invidia [«ecco qui Invidia»], dichiara il titulus relativo: e insomma le scritte, con quell’insistito hic, hec, sicut est e così via, intendono richiamare l’osservatore a un puntuale riscontro fra la personificazione rappresentata, i suoi attributi, spesso descritti e spiegati uno per uno, e la “moralità” che deve trarsene. Spe depicta sub figura / hoc signatur, quod…: da un lato la figura o la forma, dall’altro quello che esse signant, cioè significano. Nelle immagini complementari di Iusticia e Iniustitia, le sole dove sotto la figura allegorica si disponga una sorta di predella, il titulus ne dà piena ragione alludendo alle singole scenette, dal miles probus che venatur (sotto Iusticia) agli homicidia che figunt spolia all’ombra di Iniustitia; e ancora (ultimo esempio) dal titulus di Prudentia si ha conferma che la figura fu concepita con due volti, uno dei quali orientato all’indietro, ma si ricava anche la precisa indicazione degli attributi significanti come lo specchio e il compasso. In questo dialogo tra il poeta e il frescante, che agiscono entrambi in nome e per conto del committente, tra testi e immagini non c’è gerarchia, ma piena complementarietà. Perciò l’estensore dei tituli espressamente sigilla le scelte del pittore elogiandone la subtilitas (nel dipingere Fortitudo), e ancor di più l’industria docte mentis che lo guidò nel comporre (pinxit) la figura di Invidia, tanto ricca di attributi. Allusione, quest’ultima, al frequente topos della docta manus degli artefici, richiamato ad esempio nel Battistero di Pisa per la tam bene docta manus di Nicola Pisano (1260). Insomma, la doctrina di Giotto non è in nulla inferiore a quella di chi ne commenta le immagini in un latino a suo modo ricercato.
Che un’indagine essenzialmente paleografica (ma anche metrica e letteraria) come questa debba a pieno titolo integrarsi nella storia dell’arte e nell’interpretazione degli affreschi di Giotto, non c’è bisogno di mostrare. Vorremmo sapere di più su chi scrisse quei versi, vorremmo ascoltare – se mai fosse possibile – il suo discorrerne con Enrico Scrovegni e col grandissimo maestro toscano, via via che l’uno dipingeva e l’altro componeva, variando il metro, i suoi versi; vorremmo guardare i padovani che, accorsi in processione il giorno dell’Annunciazione di ogni anno (25 marzo), si raccoglievano nella Cappella. Ma questo contrasto fra i Vizi e le Virtù, che lascia intravedere la città con le sue tensioni sociali e politiche, ci basta a dire che (nonostante l’opposizione degli Eremitani) davvero Enrico Scrovegni aveva edificato la sua parva ecclesia non solo in remedium suae animae, ma soprattutto in honorem et bonum statum civitatis et communis Paduae (così in un atto nota rile del 1317).

Il Sole Domenica 28.5.17
Dibattito sulla scuola
L’equilibrio tra sapere e saper insegnare
di Manuela Ghizzoni e Mila Spicola

Con la pubblicazione del decreto legislativo n. 59 è decollata la riforma del sistema di formazione e selezione dei docenti della scuola secondaria. L’idea risale ad un progetto congiunto dei ministeri dell’istruzione e dell’università del Governo Prodi di dieci anni fa, rimasto inattuato per la conclusione anticipata della legislatura, in cui si collegavano organicamente formazione e selezione dei docenti e si rimuoveva la separazione tra università che forma (lauree e abilitazioni) e scuola che seleziona (concorsi e precariato).
Il nuovo schema prevede ogni due anni un concorso nazionale per laureati magistrali, con due prove scritte e una orale, i cui vincitori, e solo loro, saranno ammessi ad un percorso triennale retribuito di formazione e tirocinio, gestito in collaborazione tra scuola e università. Al termine del percorso, se supereranno tutte le valutazioni intermedie e finali, saranno immessi in ruolo. Gli stessi tirocinanti provvederanno durante il triennio a svolgere, almeno in parte, le supplenze necessarie alla scuola. Non più graduatorie ad accumulo di punti, corsi abilitanti vari (SSIS, TFA, PAS), concorsi elefantiaci a scadenze imprevedibili, bensì un sistema regolare nel tempo in cui gli aspiranti docenti hanno l’occasione di mettersi alla prova, prima in un concorso per merito e poi in tre anni di approfondimento culturale e professionale e di tirocinio “in corsia”, senza dover spendere fortune, anzi essendo retribuiti, e senza perdere freschezza docente in defatiganti precariati.
La sfida ha anche natura epistemologica. Servono docenti non solo ben preparati nelle loro discipline ma anche dotati di quelle professionalità pedagogiche, relazionali ed organizzative che consentano loro di traghettare una scuola molto centrata sulle conoscenze verso una in cui conoscenze e competenze si integrino armoniosamente. Per insegnare bene non basta sapere bene, ma serve anche saper trasmettere, condividere, innovare, organizzare i saperi nel rapporto educativo con gli studenti e con gli altri docenti. Serve un curriculum verticale di formazione dei docenti, che inizi con l’acquisizione dei saperi disciplinari durante gli anni universitari e prosegua, mediante un’inedita collaborazione strutturata e paritetica di scuola e università, con un progressivo approfondimento e integrazione tra teoria e pratica, in cui gli insegnanti in formazione si mettono alla prova tra i banchi con la guida di tutor scolastici e universitari, fino a maturare un’autonoma e matura professionalità.
Dopo decenni di dibattiti e tentativi abortiti il cambiamento di paradigma richiede la soluzione di molti problemi. Ma qui ci preme analizzare solo due aspetti su cui hanno attirato l’attenzione il filosofo De Caro e il matematico Di Martino in un intervento sulla Domenica del 7 maggio scorso. Il primo riguarda i 24 crediti (corrispondenti all’incirca a quattro corsi semestrali) in metodologie didattiche e in discipline antropo-psico-pedagogiche che costituiscono un requisito per partecipare al concorso e sui cui contenuti verterà la seconda prova scritta. Questi crediti non sono certo esaustivi degli strumenti pedagogici, psicologici, antropologici e di didattica disciplinare che devono essere posseduti da un docente per un approccio corretto e professionalmente esperto alle variegate e complesse realtà della scuola odierna, ma ne costituiscono una prima base e possono giocare un ruolo auto-orientativo riguardo all’effettiva propensione e attitudine all’insegnamento, soprattutto per i laureati in quelle discipline in cui la presenza delle scienze umane è molto ridotta. Sarà anche un’occasione per sviluppare nelle università questi ambiti del sapere, troppe volte mortificati, imitando l’esperienza delle discipline che li hanno già sviluppati, come la matematica, addirittura da oltre un secolo, o la musica.
Il secondo aspetto riguarda invece i requisiti formativi per accedere ad una classe di concorso. Questo tema è strutturalmente indipendente da quello della riforma e ne sono distinti i relativi provvedimenti, per cui sussiste il rischio che, sovrapponendoli, si attribuiscano le pecche dell’uno all’altro e si finisca con l’indebolire la riforma soffocando un dibattito centrato sulle sue complesse e fertili implicazioni. L’ultima revisione delle classi di concorso è del 2016 ma ne è già in corso un’altra per rimediare ad alcune manchevolezze.
È condivisibile che si riaprano ai laureati in filosofia le porte dell’insegnamento delle materie letterarie (chiuse loro da molti anni) e che non si consenta a chi ha una limitata preparazione in filosofia di insegnarla. Così come è condivisibile una migliore preparazione in matematica di chi vorrà dedicarsi ad insegnare matematica e scienze alle scuole medie – una delle classi di concorso a spettro più multidisciplinare, difficilmente compatibile con una qualunque laurea.
Ma si comprenda preliminarmente che occorre trovare un ragionevole equilibrio tra gli approcci monodisciplinari tipici del mondo universitario e quelli multidisciplinari e interdisciplinari che sono necessari, anche per ragioni di flessibilità organizzativa ma non solo, al mondo della scuola. La riforma ha segnalato l’importanza e l’urgenza di un riassetto delle classi di concorso collegandolo ad una revisione degli ordinamenti didattici universitari e ha posto le basi per realizzarlo più facilmente derubricandolo da decreto del Presidente della Repubblica a decreto ministeriale. Speriamo che quest’occasione sia colta pienamente e saggiamente con il contributo di tutti, senza agitare bandiere corporative o spettri inesistenti.
– Deputata Pd, ricercatrice presso l’Università di Bologna
– DIPE, giàconsulente tecnico MIUR
– Manuela Ghizzoni
– Mila Spicola
La chiara e cortese risposta di Manuela Ghizzoni e Mila Spicola al nostro articolo del 7 maggio sul processo di riforma della formazione degli insegnanti conferma l’importanza di una discussione ampia e costruttiva su un tema tanto delicato. Di ciò non possiamo che ringraziare le autrici.
Il nostro articolo si proponeva di iniziare una discussione propositiva sul complesso del nuovo percorso formativo degli insegnanti. Non era nostra intenzione difendere corporativismi o individuare presunte responsabilità, anche perché l’idea di fondo del percorso formativo è a nostro giudizio convincente. È molto apprezzabile che, nel loro articolo, Ghizzoni e Spicola riconoscano la necessità di correggere alcune evidenti storture nelle norme già approvate (in particolare, l’ingiustificata penalizzazione dei laureati in filosofia). E parimenti condivisibile è il loro richiamo al ruolo cruciale che le didattiche disciplinari dovranno giocare nelle varie fasi del percorso formativo degli insegnanti, a integrazione delle metodologie didattiche generali. In alcuni ambiti, come quello matematico, queste didattiche hanno una lunghissima tradizione e si sviluppano in uno specifico settore di ricerca; in altri ambiti, andranno costruite con attenzione (come rilevava la scorsa settimana, su questo supplemento, Claudio Giunta). Questa sarà una delle tante sfide che il mondo accademico dovrà affrontare nel prossimo futuro, con l’obiettivo di formare adeguatamente insegnanti pluridisciplinari.
Il successo di questo percorso dipenderà dall’attiva partecipazione di tutte le componenti in gioco, ognuna per la sua parte: politica, scuola e università. E se, oggi come in futuro, la politica saprà coinvolgere e ascoltare tutte le parti coinvolte – come, in questa loro lettera, hanno dimostrato di saper fare Ghizzoni e Spicola – i risultati di questa e delle prossime riforme della formazione insegnanti, e più in generale della scuola, non potranno che essere positivi.
– Mario De Caro
– Pietro Di Martino

Il Sole Domenica 28.5.17
Critica della ragion fisica
Credere nell’inflazione cosmica?
Moda, fede e fantasia: Roger Penrose mostra con grande maestria i lati deboli di Big Bang e teoria delle stringhe
Vincenzo Barone

Sir Roger Penrose, illustre fisico matematico di Oxford, autore di importantissimi studi in campo cosmologico, è uno dei più acuti pensatori della scienza contemporanea, e il suo ultimo ponderoso saggio si presenta come un’opera di riflessione critica sullo stato e sulle tendenze della fisica fondamentale. Un libro non agevole – va detto subito – ma straordinariamente stimolante (e attento nel distinguere tra dati di fatto e proposte personali).
Il titolo originale, molto più significativo di quello italiano, è l’indice stesso del volume: Fashion, faith and fantasy in the new physics of the universe («Moda, fede e fantasia nella nuova fisica dell’universo»). E inevitabilmente ci si chiede: è davvero possibile che una disciplina rigorosa come la fisica, in cui dovrebbero contare solo il potere esplicativo delle teorie e il confronto delle loro predizioni con l’esperimento, sia terreno di mode, di fedi e di fantasie?
Chi conosca la storia e le pratiche della scienza, in realtà, non si sorprende: mode, fedi e fantasie fanno spesso parte del lavoro del fisico, ma a lungo andare i programmi di ricerca più fecondi e corroborati vincono, quelli sbagliati o improduttivi spariscono, i criteri oggettivi hanno la meglio su quelli soggettivi, le speculazioni lasciano il campo alle ipotesi solide. Affinché ciò si verifichi, però, è necessario che ci sia un costante e fruttuoso dialogo tra teoria ed esperimento, e che il fisico teorico possa lavorare su basi empiriche ricche. Il problema oggi è proprio questo: le teorie fondamentali – quelle che tentano di unificare le forze della natura e di quantizzare la gravità – si applicano ad ambiti dell’esperienza inaccessibili, non solo adesso ma anche in un prevedibile futuro, oppure, come nel caso della cosmologia, devono fare i conti con dati osservativi indiretti e non decisivi. Per di più, lo sfondo di tutte queste teorie, la meccanica quantistica, presenta ancora problemi fondazionali non del tutto risolti. Accade allora che mode, fedi e fantasie siano più persistenti del solito, in una misura che Penrose giudica patologica.
Il libro raccoglie, in forma aggiornata, le lezioni che Penrose tenne nel 2003 all’Università di Princeton, il “santuario” della teoria delle stringhe. È proprio questa teoria, per lo studioso britannico, il maggior esempio di fenomeno di moda nella fisica contemporanea. Il problema delle stringhe, agli occhi di Penrose, non è tanto la loro limitata capacità predittiva, o l’impossibilità di verifiche sperimentali, quanto l’ipotesi delle dimensioni addizionali dello spazio-tempo. L’idea di uno spazio-tempo allargato risale a Theodore Kaluza e Oskar Klein, i quali circa un secolo fa immaginarono di unificare la gravità e l’elettromagnetismo (le due forze note all’epoca) in uno spazio-tempo pentadimensionale, aggiungendo alle solite dimensioni una in più, arrotolata in un cerchio piccolissimo, che non percepiamo. La teoria delle stringhe fa qualcosa di simile – salvo il fatto che le dimensioni in più sono sei e organizzate in spazi matematici piuttosto complicati – ma, come nota Penrose, c’è una differenza sostanziale: mentre la quinta dimensione di Kaluza e Klein serviva solo a far posto alla forza elettromagnetica ed era vincolata da una simmetria, le sei dimensioni extra delle stringhe sono pienamente dinamiche e di conseguenza aprono «un vero e proprio vaso di Pandora di gradi di libertà indesiderati, con scarsissime speranze di tenerli mai sotto controllo».
Senza contare che la compattificazione dimensionale non è predetta dalla teoria, ma semplicemente imposta, mentre, come già osservava Richard Feynman, a decidere che le dieci dimensioni dello spazio-tempo si riducono precisamente a quattro (invece che a due o a cinque) dovrebbero essere le equazioni stesse, e non il nostro desiderio di dar conto di ciò che osserviamo. Ispirandosi ai suoi maestri – in particolare al grande Paul Dirac – Penrose ritiene che la matematica delle quattro dimensioni sia così ricca e peculiare da rendere impensabile che la natura non se ne sia servita direttamente (e la sua teoria dei twistori, un approccio alla gravità quantistica alternativo alle stringhe, in effetti la sfrutta in pieno).
«Vai avanti e la fede ti verrà», consigliava nel Settecento Jean d’Alembert a un giovane studente che gli aveva confessato le proprie perplessità riguardo ai fondamenti ancora incerti del calcolo infinitesimale. Nella fisica d’oggi, la fede, secondo Penrose, è quella riposta nel formalismo della meccanica quantistica, teoria di enorme efficacia predittiva e ricchissima di conferme, ma fondata su postulati che il fisico matematico inglese giudica ancora non definitivi. I problemi interpretativi e concettuali della meccanica quantistica emergono quando si cerca di mettere in relazione il livello classico e il livello quantistico della descrizione fisica del mondo (come nell’esperimento concettuale del gatto di Schrödinger), e sono legati al fatto che la teoria prevede due dinamiche molto diverse tra loro: l’evoluzione temporale delle funzioni d’onda, retta da una legge deterministica (l’equazione di Schrödinger), e la dinamica della misura quantistica, in cui la funzione d’onda iniziale del sistema collassa istantaneamente e indeterministicamente in un’altra funzione d’onda.
Penrose crede che la meccanica quantistica così come la conosciamo oggi sia un’approssimazione di una teoria più profonda, non lineare, in cui la gravità svolgerebbe un ruolo determinante, come responsabile del collasso della funzione d’onda. È un’idea suggestiva, ma sostenuta solo da considerazioni generiche e per di più molto difficile da sottoporre a controllo: è probabile che alla fine i rompicapo quantistici troveranno soluzione senza dover invocare nuove leggi di natura.
Infine, le fantasie. Non stupisce che queste si annidino in cosmologia: è sempre stato così e non potrebbe essere diversamente. La fantasia per eccellenza è, a giudizio di Penrose, l’inflazione, quella brevissima fase di espansione esponenziale del cosmo che, secondo la teoria cosmologica standard, sarebbe avvenuta una frazione di secondo dopo il Big Bang e avrebbe dilatato di venticinque ordini di grandezza l’universo, rendendolo omogeneo e piatto. Ci sono diversi modelli al riguardo, e i dettagli del meccanismo non sono del tutto chiari, ma i dati riguardanti la radiazione cosmica di fondo sembrerebbero avvalorare tale scenario.
Non tutti, però, ne sono convinti. La critica di Penrose all’inflazione si basa soprattutto su un’analisi dell’entropia dell’universo dal Big Bang a oggi, alla luce della seconda legge della termodinamica. Più drastica è la posizione di un altro insigne cosmologo, Paul Steinhardt (tra gli iniziatori della teoria inflazionaria), che, in un recente articolo su «Scientific American» (tradotto su «Le Scienze», n. 584, aprile 2017), oltre a evidenziare i difetti empirici dei modelli di inflazione, ha sottolineato il loro sempre più debole status epistemologico, dovuto a un’eccessiva flessibilità, che li rende poco esplicativi e tendenzialmente inconfutabili. Quanto alle controproposte, Penrose e Steinhardt sono del parere che le attuali osservazioni possano essere interpretate in maniera più soddisfacente nell’ambito di una teoria del rimbalzo, che preveda una successione ciclica di collassi ed esplosioni dell’universo.
Sosteneva Albert Einstein che il fisico non deve lasciare ad altri la considerazione critica dei fondamenti teorici, perché è lui «che sa meglio e sente più nettamente dov’è che la scarpa fa male». Penrose sembra aver fatto propria questa osservazione e si impegna a mostrarci dove secondo lui la scarpa fa male. Le sue riflessioni cadono in un momento in cui la fisica fondamentale attraversa una fase di stallo, in attesa di qualche nuova idea risolutiva o magari di una piccola crepa nell’edificio attuale che faccia intravedere che cosa c’è oltre. Non molti colleghi condividono le diagnosi e soprattutto le terapie dello scienziato inglese, ma vale più che mai in questo caso l’insegnamento di John Stuart Mill: «Le nostre convinzioni più giustificate non riposano su altra salvaguardia che un invito permanente a tutto il mondo a dimostrarle infondate».
Roger Penrose, Numeri, teoremi & minotauri. Perché la nuova scienza non è affatto scientifica , trad. di C. Capararo, D. Didero, S. Galli, Rizzoli, Milano, pagg.672, € 28

Il Sole Domenica 28.5.17
Neuroscienze
Cervelli «autoreferenziali»
di Arnaldo Benini

Il cervello non è, come molti scienziati e filosofi credevano una trentina d’anni orsono, una macchina passiva che accumula ed elabora informazioni. Il cervello è altamente selettivo con gli impulsi trasmessi alla coscienza dagli organi di senso e dalla riflessione. Circa nove decimi di loro rimangono incoscienti. Il criterio della selezione è sconosciuto. Il cervello non percepisce il mondo com’è, ma seleziona, trasformandolo, ciò che è rilevante per il mantenimento dell’individuo e della specie. Pur sapendo che la razionalità dimostra che la realtà è diversa, noi percepiamo la terra ferma e il sole che le gira attorno, cioè un ambiente infinitamente più gradevole per la nostra specie che sentire di stare sopra una palla che gira su sé stessa e intorno al sole a velocità folle.
Il dilemma che ne deriva non è nuovo: se noi viviamo nel mondo costruito, come ribadiva il cibernetico Heinz von Foerster, dalla percezione (su questo neuroscienziati e molti filosofi concordano) fino a che punto di affidabilità i meccanismi cognitivi del cervello sono in grado di conoscere sé stessi? Questo è il dilemma che nove neuroscienziati tedeschi di alto livello trattano in questo notevole libro, curato dal filosofo della scienza Mathias Eckoldt. La base comune degli specialisti di diverse discipline (neuropsicologia, neurolinguistica, neurobiologia, neuroinformatica) è l’autoreferenzialità del cervello che organizza il suo funzionamento e, con la metodologia delle neuroscienze, studia sé stesso. L’autoreferenzialità è assoluta, perché nessun altro meccanismo stimola e controlla i dati che il cervello raccoglie, elabora, produce e in parte rende coscienti. Il problema della capacità del cervello di indagare e capire sé stesso come organo della coscienza (meglio, dell’autocoscienza) implica la domanda circa i limiti della conoscenza non solo della natura, la cui circonferenza, ammoniva David Hume, è infinitamente più grande di quella della mente che l’indaga, ma dell’intera conoscenza.
Anche la matematica, epìtome della creatività cerebrale, ad esempio, ha limiti insuperabili. Come pensate di costruire un’intelligenza umana artificiale, chiedeva von Foester negli anni ’50 del secolo scorso agli esaltati neofiti della cibernetica, se il cervello umano sa così poco di come esso stesso funziona? La scelta degli interlocutori di Eckoldt è felice. Non si tratta di filosofi della speculazione astratta o di ricercatori delusi e sarcastici circa la neuromania, ma di scienziati che avvertono i limiti della conoscenza al fronte più avanzato della ricerca, condotta con i criteri rigorosi del fisicalismo.
Nonostante ostacoli, difficoltà e delusioni, essi (a differenza di molti loro colleghi) sanno di non potervi rinunciare. Tutti concordano sui progressi indubbi delle neuroscienze, i più importanti dei quali sono le scoperte della neurogenesi e della plasticità cerebrale, alle quali sono dedicate pagine acute. Neuroni vengono formati per tutta la vita, e ad essi, verosimilmente, è dovuta la memoria episodica e semantica: ogni ricordo sembra essere legato a nuovi neuroni che sostituirebbero neuroni vecchi, per cui il ricordare s’accompagna al dimenticare. Una scoperta ha posto nuovi ed inattesi problemi: nel cervello umano ci sono circa mille tipi di neuroni, diversi per struttura, ultrastruttura e mediazione chimica: strutture diverse presuppongono funzioni diverse, e resta in gran parte da capire il senso di una tale immensa diversificazione.
La neuroplasticità è il meccanismo alla base dell’esperienza: diventa cosciente solo ciò che trasforma la corteccia cerebrale. Ogni esperienza, anche interiore come la meditazione, per il neurofisiologo Gerald Edelman è un atto creativo, perché se ne diventa coscienti solo se e quando essa modifica, cioè ricrea, il parenchima del cervello. I neurobiologi sottolineano l’origine evolutiva dei meccanismi cognitivi umani, perché non esiste funzione cognitiva, emozionale e sociale che non abbia antecedenti nei primati e in altri animali, anche piccolissimi. A maggior conferma che la coscienza è un evento chimico-fisico evolutivo. Lo confermano gli studi di Rudolf Menzel sulle straordinarie capacità comunicative e organizzative del mi- nuscolo sistema nervoso delle api.
Più cose si conoscono, più complessi sono i loro collegamenti. Wolf Singer, famoso per la scoperta della sincronizzazione elettrica dei neuroni attivi simultaneamente, dice di sapere oggi sul cervello meno di quanto credeva di sapere 20 anni fa. Si sanno molte più cose, ad esempio a livello molecolare, e proprio per questo è diventato più difficile formulare una teoria generale del funzionamento del cervello. Le nuove tecnologie della visualizzazione del cervello umano attivo (risonanze magnetiche, TAC, ecc) sono molto apprezzate, senza trascurare che esse segnalano quale area cerebrale è attiva ma non che cosa in quell’area avvenga.
Inoltre è recente l’evidenza che parte dei dati della visualizzazione cerebrale è inattendibile per l’imprecisione della tecnica (Nature Neuroscience 20, 299-303,2017). Alla domanda circa la natura e la conoscenza dei meccanismi nervosi dell’evento naturale della coscienza, la risposta è stata unanime: la coscienza è e rimarrà oltre i limiti della possibilità di conoscere, perché, dice Singer con grande acutezza, con le neuroscienze che la studiano cerchiamo di chiarire le oscurità dell’universo in noi stessi.
Gerhard Roth propone l’analogia fra autocoscienza e forza di gravità: sentiamo che entrambe esistono e che noi viviamo dentro di loro, ma non riusciamo a capirle. La risposta dei nove neuroscienziati alla domanda circa il cervello alla ricerca di sé stesso è unanime: i dati delle neuroscienze sono preziosi, ma, come in ogni campo della ricerca, impongono cautela. Ci si deve avvicinare alla verità, ma essa non è alla nostra portata.
Le difficoltà del cervello a capire sé stesso potrebbero essere all’origine degli ostacoli, fino ad ora insormontabili, nello studio, e quindi nella prevenzione e nella cura, di orrende malattie neurodegenerative come quella di Alzheimer. Il libro è nella migliore tradizione della pubblicistica scientifica.
Matthias Eckoldt (Curat.) Kann das Gehirn das Gehirn verstehen? Gespräche über Hirnforschung und die Grenzen unserer Erkenntnis (Il cervello può capire il cervello? Colloqui sulle neuroscienze e i limiti della conoscenza) Contributi di A.D. Federici, G. Hüther, Ch. von der Malsburg, H.J. Markowitsch, R. Menzel, F. Rösler, G. Roth, H. Scheich, W. Singer, Carl-Auer Verlag Heidelberg, pagg.250 € 30

Il Sole Domenica 28.5.17
La caduta del duce
Il giallo del Gran Consiglio
Troppi verbali postumi rimettono in discussione il resoconto di quella notte drammatica del ’43. Di sicuro rimane solo il voto finale
di Emilio Gentile

La recente acquisizione di carte di Luigi Federzoni, uno dei più autorevoli protagonisti del regime fascista, da parte della Direzione Generale Archivi, è un evento di grande importanza, perché quasi tutti i documenti riguardano la seduta del Gran Consiglio del fascismo a Palazzo Venezia, iniziata alle 17 del 24 luglio 1943 e terminata alle 2.30 del 25 luglio. Per volontà del duce, non fu redatto un verbale ufficiale della seduta. Il Gran Consiglio era stato creato da Mussolini dopo l’ascesa al potere, alla fine del 1922, e nel 1929 fu da lui trasformato nel supremo organo costituzionale dello Stato monarchico e fascista.
Dopo dieci ore di discorsi e polemiche, 19 gerarchi su 28 votarono un ordine del giorno presentato da Dino Grandi, nel quale il Gran Consiglio dichiarava necessario «l’immediato ripristino di tutte le funzioni statali, attribuendo alla Corona, al Gran Consiglio, al Governo, al Parlamento, alle Corporazioni i compiti e le responsabilità stabilite dalle nostre leggi statutarie e costituzionali»; e invitava «il Governo a pregare la Maestà del Re» a riassumere «l’effettivo comando delle forze armate di terra, di mare e dell’aria», che il re aveva delegato al duce al momento dell’intervento italiano nella Seconda guerra mondiale, il 10 giugno 1940.
In seguito all’approvazione dell’o.d.g. Grandi, il re dimise Mussolini da capo del governo, nominò al suo posto il generale Pietro Badoglio, e fece arrestare l’ex duce. Fu la fine del regime fascista. Il fascismo, disse Badoglio il 18 ottobre 1943 in un discorso ad alcuni ufficiali, «non è stato rovesciato da noi: da Sua Maestà o da me», ma «lo hanno abbattuto gli stessi componenti del Gran Consiglio».
La memorialistica e la storiografia hanno scritto molto sull’ultima seduta del Gran Consiglio. Ora, la documentazione inedita acquisita dalla Direzione Generale Archivi apre la strada a nuovi interrogativi su quanto effettivamente fu detto nell’ultima seduta soprattutto da Grandi, da Federzoni e dagli altri 17 gerarchi, che per la prima volta, dopo un ventennio di incarichi autorevoli e prestigiosi sotto il comando del duce, osarono negargli la loro fiducia, giudicandolo responsabile della degenerazione totalitaria del regime fascista.
Un ampio resoconto dalla seduta fu pubblicato nel 1967 da Federzoni in appendice al libro di memorie Italia di ieri per la storia di domani. Il resoconto era preceduto da queste parole: «Durante l’ultima seduta del Gran Consiglio, per antica abitudine di giornalista, ebbi cura di prender nota particolareggiata di ciascun intervento. Nei giorni immediatamente seguenti la riunione completai questo resoconto con l’animo di chi sente di adempiere un preciso dovere». Il testo, in 46 pagine a stampa, riportava fedelmente, secondo quanto asserito da Federzoni, quel che Mussolini e gli altri gerarchi dissero nella notte fra il 24 e il 25 luglio 1943.
Nei decenni precedenti alcuni protagonisti dell’ultima seduta del Gran Consiglio avevano pubblicato già i loro resoconti. Aveva cominciato Mussolini, nell’agosto 1944, col libro Storia di un anno, dando la sua versione degli interventi suoi e dei gerarchi che parlarono a favore e contro l’o.d.g Grandi. Dopo il 1945, altri resoconti furono pubblicati da vari membri del Gran Consiglio, ciascuno proponendo una sua versione degli interventi. Nel 1946, Federzoni pubblicò un racconto sommario dell’ultima seduta, come anticipazione di un libro intitolato Memorie di un condannato a morte, che rimase inedito, e fu poi rifuso nel libro del 1967.
Del resoconto sul Gran Consiglio pubblicato in questo libro, c’è una versione in 71 cartelle dattiloscritte, conservata nel Fondo Luigi Federzoni dell’Archivio Storico Istituto Enciclopedia Italiana. È una versione ben più ampia del testo del 1967, con molte cancellature e rifacimenti manoscritti dello stesso Federzoni.
Tuttavia, da testimonianze di altri firmatari dell’o.d.g. Grandi, risulta che Federzoni non fu l’unico estensore del verbale che lui sosteneva di aver compilato nei giorni successivi al 25 luglio sulla base di note particolareggiate prese durante la seduta. Infatti, in un libro sul 25 luglio, scritto nel 1944 ma pubblicato solo nel 1983, Grandi afferma di aver parlato a braccio «cioè senza l’ausilio di note od appunti», ma di avere poi dettato il testo dei suoi interventi alla sua segretaria, la mattina del 25 luglio, su richiesta di Federzoni: «La copia dattiloscritta – scrive Grandi – venne da me personalmente rimessa a Federzoni poche ore dopo, perché la inserisse nel verbale della seduta, come da noi convenuto». Inoltre, nel diario di Giuseppe Bottai, pubblicato nel 1982, alla data dell’8 agosto 1943, si legge: «fu domenica 25 alle ore otto di sera che rientrai da casa Federzoni, ove avevamo su note “verbalizzato” la seduta della notte». Anche Bottai aveva fatto nel suo diario un resoconto della seduta del Gran Consiglio, in parte pubblicato nel 1949 nel libro di memorie Vent’anni e un giorno. Infine, la figlia di Federzoni, Elena, ricorda nelle sue memorie inedite che il 25 luglio «quasi tutti i diciannove firmatari dell’ordine del giorno Grandi vennero a casa nostra a Roma per stendere il verbale della seduta».
Queste testimonianze provano che per compilare il resoconto pubblicato nel 1967, Federzoni non si avvalse solo delle sue note, ma ebbe la personale collaborazione di altri gerarchi. Fra le carte acquisite dalla Direzione Generale Archivi, vi sono infatti testi manoscritti di interventi di altri firmatari dell’o.d.g. Grandi, quasi letteralmente riprodotti nel resoconto del 1967. Ma altri documenti ancora, compresi nelle carte di Federzoni, fanno dubitare che il resoconto del 1967 sia stato effettivamente compilato poco dopo il 25 luglio.
Innanzi tutto, fra i nuovi documenti, vi sono due differenti verbali della seduta. Uno consiste in otto fogli, scritti da Federzoni: sono, quasi certamente, gli appunti da lui scritti durante la seduta, ma sono molto succinti, anche una sola parola , e non una «nota particolareggiata» degli interventi. L’altro verbale, più dettagliato, consiste in 22 fogli manoscritti, con grafia diversa da quella di Federzoni: si tratta, molto probabilmente, della «verbalizzazione» fatta in casa sua nella giornata del 25 luglio, ma non coincide con il testo del 1967 perché è molto più lacunoso.
Altri due documenti della recente acquisizione inducono a pensare che il resoconto del 1967 non sia stato compilato da Federzoni nel luglio 1943, bensì una decina di anni dopo. Il 22 aprile 1956, Federzoni scriveva a Grandi che intendeva pubblicare «un libercolo» scritto durante l’occupazione tedesca, contenente un «diffuso e esatto verbale della famosa seduta», nel quale però «si deplora una sola lacuna, ma gravissima: manca il riassunto del tuo discorso illustrativo del tuo ordine del giorno». Grandi gli rispondeva il 26 giugno: «Ti accludo il testo del mio discorso pronunciato in Gran Consiglio il 25 luglio 1943, nonché il testo di un mio secondo “intervento” successivo nella discussione». Anche Alfredo De Marsico, altro firmatario dell’ o.d.g. Grandi, su richiesta di Federzoni inviò il testo del suo intervento l’11 giugno 1956. I testi inviati da Grandi e da De Marsico nel 1956 sono riprodotti quasi interamente nel resoconto del 1967. È quindi plausibile concludere che questo resoconto non sia stato compilato nel luglio del 1943 bensì nel giugno del 1956 o successivamente.
Una così stridente discordanza fra le diverse versioni e le diverse date in cui furono redatte, ripropone alla storiografia quesiti molto rilevanti sull’ultima seduta del Gran Consiglio. L’unica cosa certa è il risultato della votazione finale. Ma i nuovi documenti sollecitano nuove indagini e nuove riflessioni, per cercare di conoscere come sono andate effettivamente le cose in Gran Consiglio, nella notte il 24 e il 25 luglio 1943, quando avvenne il suicidio del regime fascista.

Il Sole Domenica 28.5.17
Provocazioni
Caporetto non fu una Caporetto
di Alfredo Sessa

A cento anni di distanza non ci basta più conoscere le cause dello sfondamento delle linee italiane a Caporetto. Gli studiosi di storia militare ci spiegano, certo, che l’offensiva austro-tedesca, iniziata il 24 ottobre 1917, ottenne un successo travolgente perché il Regio Esercito sottostimò i preparativi che fervevano dietro le linee nemiche e le confidenze dei disertori. O ci ricordano che l’avversario utilizzò abilmente la tattica dell’infiltrazione e concentrò lo sforzo, con la complicità della nebbia, contro i punti deboli dello schieramento italiano, individuati soprattutto nei fondo valle. Ma ora, un secolo dopo, di Caporetto ci interessa soprattutto conoscere brandelli di vera vita quotidiana. Voci, pensieri, desideri, dubbi, errori, sofferenze degli uomini e delle donne dell’Italia di allora. Per capire come eravamo veramente, senza il filtro della censura e della propaganda. E per capire, nel raffronto centenario, cosa siamo diventati, oggi, noi italiani.
Stefano Lucchini, direttore International and Regulatory Affairs di Intesa Sanpaolo, appassionato di storia contemporanea, ci accompagna in questa opera di scavo nel passato. Lucchini ha ricostruito la disfatta di Caporetto attraverso un serrato montaggio di confidenze di soldati e ufficiali, uomini politici, giornalisti, scrittori e gente comune. Un’antologia di testimonianze vive, provocatorie, direttamente in arrivo dall’inferno dell’autunno-inverno 1917. Il risultato è un libro, A Caporetto abbiamo vinto, che alle voci umane affianca una raccolta di fotografie, cartoline patriottiche, vignette satiriche, poesie, canzoni. Nel centenario degli eventi, riaffiora così la drammatica successione dei fatti.
Il titolo del libro è paradossale, ma non troppo. «Potremmo infatti dire - osserva Lucchini nella prefazione - che occorreva una disfatta come quella di Caporetto per liberare l’Italia dalla dittatura di Cadorna, arrivare a una riorganizzazione sotto la guida del generale Diaz, risparmiare ai soldati inutili assalti, assicurare riposi e avvicendamenti».
Le testimonianze sono dure. Protagonista è la guerra vera, fatta di eroismo ma anche di diserzioni, fucilazioni, decimazioni. Le divise non sono pulite, le azioni non sono sempre vittoriose come nelle copertine di Achille Beltrame sulla Domenica del Corriere. «Oh, non si muore per la patria, così. Si muore per l’imbecillità di certi ordini e la vigliaccheria di certi comandanti» scrive il fante Carlo Salsa. «[....] Ah, se i comandi comprendessero che contro un reticolato intatto e una mitragliatrice che funzioni non c’è massa che conti! Se comprendessero che questa è una guerra di materiali, e che il coraggio inerme non può nulla! Ma i generali sono incrostati alle norme tattiche distillate dai libri: sono inzuppati di ricordi garibaldini, in cui la guerra si fa cantando, con le fanfare e le bandiere in testa!»
Lucide testimonianze di ufficiali a stretto contatto con il comandante in capo dell’esercito italiano, Luigi Cadorna, danno conto del basso morale delle truppe, logorato da sanguinosissimi e quasi sempre inutili assalti durante le battaglie sull’Isonzo: «L’esercito è buono, ma è un esercito, rispetto all’antico, rassegnato: va dove si manda, ma piangendo» scrive nel suo diario di guerra, che ci restituisce anche lo stato d’animo degli alti comandi, il colonnello Angelo Gatti, capo dell’Ufficio storico del Comando supremo.
Alla vigilia di Caporetto si arriva con un esercito divenuto nei suoi ranghi pensieroso e cupo, facile alla diserzione e allo sbandamento, come successe, in effetti, nei tragici giorni dell’offensiva austro-tedesca. Tanto da indurre Luigi Cadorna a parlare di «reparti vilmente ritiratisi senza combattere o ignominiosamente arresisi al nemico».
«Maledetto sia Cadorna» replica altrettanto duramente, dando voce ai tanti caduti italiani, una vecchia canzone popolare di protesta. Cento anni dopo, anche Lucchini mette Cadorna, il grande teorico degli attacchi frontali senza risparmio di vite umane, sul banco degli accusati. Tanto da proporne l’espulsione dalla toponomastica delle nostre città, una damnatio memoriae che possa, in qualche modo, punire retrospettivamente la condotta di guerra di un generale che per ventinove mesi spedisce i soldati all’assalto nella terra di nessuno, a strisciare sotto i reticolati e a farsi falciare dalle mitragliatrici austriache. L’esempio lo ha dato la città di Udine, sede del Comando supremo italiano fino ai giorni di Caporetto, che nel novembre 2011 ha ufficialmente cambiato il nome del piazzale Luigi Cadorna in piazzale Unità d’Italia. «Questo libro - conclude Lucchini - aggiunge la sua voce alle tante che chiedono di togliere il nome di Luigi Cadorna dalle vie e dalle piazze d’Italia».
A Caporetto abbiamo vinto , a cura
di Stefano Lucchini, Rizzoli, Milano, pagg. 200, € 24

il manifesto 28.5.17
Israele cede, successo per lo sciopero della fame dei detenuti palestinesi
Israele/Territori occupati. Dopo 40 giorni il digiuno è terminato venerdì notte, dopo ore di trattative tra gli scioperanti, le autorità carcerarie e la Croce Rossa. Israele costretto ad accettare alcune delle richieste presentate dal promotore della protesta, il leader incarcerato di Fatah Marwan Barghouti che emerge ancora più popolare e influente
di Michele Giorgio

RAMALLAH Si festeggiava la “vittoria” ieri in piazza Yasser Arafat a Ramallah dove per 40 giorni, sotto la tenda del “presidio permanente”, centinaia di persone, in maggioranza giovani, hanno partecipato a dibattiti e incontri a sostegno dello sciopero della fame cominciato lo scorso 17 aprile da 1500 detenuti palestinesi nelle carceri israeliane. Il digiuno di protesta è terminato nella notte tra venerdì e sabato, all’inizio del mese di Ramadan, con un accordo tra gli scioperanti, le autorità carcerarie israeliane e la Croce Rossa. Caldo e il digiuno per il Ramadan non hanno impedito alla folla di sostenitori, attivisti e familiari dei detenuti, di celebrare, con canti politici e danze tradizionali, quello che i palestinesi descrivono come un successo sull’ostinazione del governo Netanyahu che – a differenza dello Shin Bet, il servizio di sicurezza interno – si era dichiarato contro qualsiasi ipotesi di trattativa con i detenuti che chiedevano migliori condizioni di vita nei penitenziari. E invece quel negoziato escluso per oltre un mese i funzionari del “Servizio delle prigioni israeliane”, alla fine hanno dovuto avviarlo, nel carcere di Ashkelon, prima con i rappresentanti degli scioperanti – Ahmad Barghouthi, Nasser Uweis, Ammar Mardi e Nasser Abu Hmeid – e poi con l’ispiratore principale della protesta, con l’anima del digiuno andato avanti per 40 giorni, Marwan Barghouti. Il leader del partito Fatah in Cisgiordania, in carcere del 2002, con il quale sino a quel punto avevano evitato ogni forma di dialogo è stato centrale per sbloccare la trattativa. «Soltanto quando (gli israeliani) hanno coinvolto Marwan è stato possibile arrivare all’intesa che garantirà ai nostri fratelli incarcerati migliori condizioni di vita», spiegava ieri Issa Qaraqe, del Comitato nazionale di sostegno ai detenuti.
Sui miglioramenti strappati a Israele, fino a ieri sera regnava l’incertezza. I detenuti hanno ottenuto l’aumento delle visite dei familiari, da una a due volte al mese. Le autorità israeliane si sono impegnate a revocare le restrizioni che limitavano l’accesso alle prigioni ai familiari adulti dei reclusi. Invece non è chiaro se i detenuti godranno davvero dell’installazione di telefoni pubblici nelle prigioni e della possibilità di accedere alla visione di un maggior numero di canali televisivi. Niente da fare per la fine delle detenzioni amministrative, quelle senza processo.
Dallo sciopero della fame appena terminato è emerso anche un traguardo personale raggiunto da Marwan Barghouti. Superando l’ostruzionismo di non pochi palestinesi, molti dei quali ai vertici del suo partito, e la non collaborazione del movimento islamico Hamas – impegnato in un nuovo scontro con Fatah e il presidente dell’Anp Abu Mazen – il principale promotore della protesta ha confermato la sua popolarità nelle strade dei Territori occupati, anche se i suoi familiari preferiscono ridimensionare questo aspetto. «Non è la vittoria di mio padre, è la vittoria di tutti i prigionieri e di tutti i palestinesi. La battaglia portata avanti da tanti detenuti, di ogni orientamento politico, ha confermato che i palestinesi otterranno i loro diritti solo quando saranno di nuovo uniti e determinati», ripeteva ieri Qassam Barghouti, il figlio del leader di Fatah, tra militanti e amici che si abbracciavano nella sede del Comitato “Free Marwan Baghouti” a Ramallah.
L’esito dello sciopero della fame avrà un impatto anche sui rapporti di potere ai vertici di Fatah dove sono diversi i candidati a prendere il posto dell’82enne presidente dell’Anp Abu Mazen. «Marwan Barghouti era già molto popolare e adesso lo è ancora di più. Il suo prestigio è più forte nella base di Fatah – spiega l’analista Ghassan Khatib – ora è il principale candidato a succedere ad Abu Mazen, gli altri pretendenti si sono tutti indeboliti». Come Barghouti potrà diventare presidente è un interrogativo senza risposta da anni. È in carcere, sconta cinque ergastoli, ed è difficile immaginare che Israele possa scarcerarlo alla luce delle dichiarazioni nettamente contrarie a questa possibilità espresse dal premier Netanyahu e da altri leader politici. «Mai dire mai» avverte Khatib «le condizioni attuali non permettono la liberazione di Barghouti. Le cose però potrebbero cambiare e, comunque, a decidere non sarà solo Israele».

La Stampa 29.5.17
Viaggio nei luoghi di Israele dove cinquant’anni fa morì il nazionalismo arabo
Dopo i conflitti con gli Stati ora le minacce arrivano dai gruppi islamici
di Domenico Quirico

Passata avanti la guerra non si possono riconoscere i luoghi. Ai luoghi restano i nomi della geografia, e alle battaglie la data.
Quello che conta non sono le battaglie, ma i giorni e i mesi e gli anni che sono durate con gli uomini aggrappati alla terra, alla sabbia, alle pietre in una lotta sepolta. Qui cinquanta anni fa, sei giugno 1967, una data densa della storia del mondo, tutto durò appena sei giorni. Una guerra breve, un lampo, eppure in un tempo così breve molte cose che sembravano eterne morirono: il nazionalismo arabo, innanzitutto, sconfitto e archiviato. Su quelle rovine l’Islam politico iniziò a costruire i suoi disegni. E anche Israele cominciò a morire: sì, il trionfatore. Quello eroico dei pionieri, degli irriducibili sopravvissuti fondatori di uno Stato, nel momento della vittoria, come spesso il ghigno della Storia decide, raggiunsero l’apogeo e iniziarono il declino. Israele invincibile peccò della greca hybris, l’arroganza.
Mezzo secolo fa Israele sconfisse alcuni Stati, la Siria l’Egitto la Giordania. Oggi combatte con Daesh, Hamas, Hezbollah, Al Nusra, gente che prescrive e dogmatizza, perseguita e punisce, dà degli esempi. Messi, investiti, scomunicatori, giustizieri: l’abiezione fanatica. Con gli Stati, seppure autocrazie spietate, si poteva trattare, fare la pace come è accaduto, faticosamente. Ma oggi?
Percorro luoghi delle guerre di ieri per capire le ragioni di quelle di oggi. Il tempo si vendica come si vendica di chi non riesce ad adoperarlo o lo usa per uccidersi. La guerra è purtroppo la cosa più semplice del mondo. Se non fosse così, se i soldati dovessero conservare a giustificarla un’ombra solo dei discorsi e delle polemiche, gli resterebbe in mente di aver patito il più grande sopruso, l’inganno più scellerato. Ma alla guerra si dimentica tutto. Gli israeliani 50 anni fa, rialzando il capo dopo la mischia breve e crudele, guardando il Canale e l’Egitto davanti a loro, e il Muro di Gerusalemme riconquistato, e Damasco laggiù nella bruma calda a un passo dal monte Hermon, dissero: è finita. E invece le nazioni, vinte e vincitrici, hanno i loro fornitori di miserie e di illusioni e dopo quella vennero altre guerre, il ’73 il giorno più lungo di Israele, e Beirut, e ancora il Libano e l’intifada. La guerra così diventa un mestiere e una obbedienza.
Salgo dalla Galilea verso il Golan, sfioro il monte delle beatitudini e il lago di Tiberiade folgorato dalla luce sciancata dell’alba. Il Golan è paese proprio alla guerra. Non ci sono distrazioni di cieli, albe e tramonti vi sono lenti, le acque se le bevono le rocce e i calcari, le quote si allineano per lungo e per largo guardate dalle nevi ormai minime del monte Hermon e dalla rocca crociata di Nimrud, castello ariostesco tra boschi fitti e piantagioni. È un paese che permette soltanto lontani orizzonti di pianura di mare e di montagne, privo di vicinanze. Quel che fa l’idea di andare sono le strade. Qui le strade spariscono alle svolte oppure lontane conducono a quei luoghi di orizzonte, borghi di cui si chiede il nome con cautela. Lì comincia il Libano laggiù è Siria qui la Galilea con la sua campagna sfruttata di tutti i suoi succhi. Paese adatto a viverci nelle pietre fino al mento e che nasconde due eserciti l’uno all’altro. Sembra fatto da dio con i sassi avanzati dalla fabbrica del mondo, mi ha detto un kibuzzin guardando soddisfatto l’opera sua che ha corretto e fecondato quella distratta di dio.
«Il confine è a un passo» mi hanno avvertito, venti minuti a piedi e sei davanti alla Siria. E pure quando il dirupo finisce e mi affaccio sulla pianura siriana mi manca il respiro. La valle a perdita d’occhio ben spezzata di campi segnati e macchie di verde e di giallo, è piena di aria cruda, di estraneità e di sofferenza. In quello spazio stanno palesi le ragioni di una tragedia infinita. Sotto di me, li tocco, due villaggi con grida di bimbi e minareti. E poi, di colpo, in mezzo a un gregge, un uomo comincia a gridare e a fare segni verso di me, sì verso di me, agita uno straccio per richiamare l’attenzione, le sue parole arabe me le porta via il vento. Rispondo agitando la mano e allora lui grida grida con gioia e ripete, e stavolta lo sento, in inglese grazie grazie.
In quei villaggi, nel mistero che li avvolge, non c’è l’esercito siriano ma le sigle nere del califfato. Ogni tanto qualche colpo che scambiano con i soldati di Bashar Assad cade per errore nella zona controllata di Israele. Per sbaglio: non hanno tempo per occuparsi dei sionisti, devono regolare i conti tra loro. E forse il calcolo israeliano è questo e non so se sia segno di lungimiranza. Ogni guerra sosta di tanto in tanto. Il sole accolto risale e trabocca dai sassi del Golan. Colonne di blindati candidi, i mezzi della annosa missione Onu di interposizione, risalgono le strade degli escursionisti e dei gitanti, salutano con larghi cenni chi accosta per lasciarli passare.
Oltre questa frontiera di guerra sospesa è diventato indebito il mio contegno con gli uomini e le cose di questa parte di mondo. L’appello di quel pastore siriano oltre la griglia di questo confine di odio mi spoglia di guerra e di passione, anzi di umanità di qua e di là del fronte troppo stanca. Come loro non saprei dire cosa mi duole, come loro, ebrei e arabi, ho nella mia costituzione il dolore.
Appena dentro la frontiera dell’armistizio c’è il moshav, che è una versione addolcita del kibbuz, di Majdal Shams. Religiosi, anche se non ultra-ortodossi che ormai hanno in ostaggio la politica di Israele. Questa era Siria fino al ’67, l’unico confine dove la guerra non è mai finita con un accordo di pace. Ci aspetta Rifka, Rebecca, che è arrivata bambina da Parigi. E ha vissuto prima in una colonia a Hebron, terra dura e feroce di scontro. Mi parla con entusiasmo goloso del fatto che sta per iniziare la raccolta delle fragole, la stagione è buona e ricca, e dice che non lascerà mai questo posto perché qui può ascoltare gli uccelli e il vento. E capisci che non potrebbe mai accettare la relegazione in un altro posto che la escluda dalla cornice dei frutteti, dei poggi e delle casette del moshav con il suo rifugio antibombe. Poiché ha compreso che quei contorni sono i soli, gli unici a poter racchiudere i suoi giorni futuri.
Ora pieghiamo di nuovo verso Ovest e questa è frontiera del Libano, che ormai per gli israeliani equivale a Hezbollah, il partito-esercito sciita. Siamo al punto 105, ogni sezione della frontiera è segnata per consentire in caso di infiltrazione ai soldati di intervenire più rapidamente. Solo qui ho sentito voci preoccupate, sguardi farsi attenti scrutando i villaggi sciiti sulle colline di fronte. Hezbollah è l’unico nemico di cui Israele ha rispetto, forse paura: più dell’Isis, più dei siriani. Davanti a me c’è Marum Harash dove nel 2006 i combattimenti costarono a Israele molti inutili morti. Le montagne fitte di boschi impenetrabili sono come scalpate dalle scavatrici, affiorano ferite larghe, lingue di terra rossa e nuda al sole. Non sono cave o disboscamenti. Israele scoperchia gli angoli morti della frontiera dove possono passare gli uomini di Hezbollah senza essere scorti, li costringe al terreno aperto. Un muro anche questo, fatto di amputazioni e non di reticolati o blocchi di cemento.
Scendiamo di nuovo verso il mare, si sente la cadenza delle onde del Mediterraneo, delle onde che battono contro la Palestina come contro una parete, il bordo estremo della grande vasca d’acqua fra Europa Asia e Africa. Penso che non ci sia Paese al mondo lungo come Israele, lungo nel tempo intendo, non nello spazio. Non esiste Paese i cui lineamenti abbiano la lunghezza di tempo che va dalla nascita di Abramo alle biotecnologie. Lineamenti concreti limpidi vivi da toccare con il dito: vivo il vecchio Testamento con le sue valli coperte di erbe e di fiori, con le colline fitte di agrumeti e di viti; e viva la modernità più avanzata e audace. Mi raccontano di un progetto di quindici miliardi di dollari per costruire l’auto robot, di ricerche per creare serre dove per risparmiare energia si scalderanno solo le radici delle piante e ahimè anche di nuovi carri armati e cannoni. Se il tempo è davvero una dimensione non esiste paese più esteso di Israele. Dove la fisica e la biologia fino alla partenogenesi convivono con chi vuole ricostruire il sinedrio e il terzo tempio di Salomone (spianando le moschee musulmane!).
Il deserto nasconde i fatti di guerra, il tempo fa alla memoria quello che gli anni fanno al vino. Nasconde i morti. La sabbia è gialla e monda, come la cenere, come la polvere antica. I morti son troppo lontani e vicini qui, al confine con Gaza e Hamas.
Al kibbuz di Nirim oggi è iniziata la stagione dei bagni, ha aperto la piscina, incontri ragazzi forti. Come tutti i contadini del mondo hanno il viso bruno, meta carne e metà cuoio, lo sguardo duro, le mani nodose, come tutti i contadini del mondo parlano con frasi corte secche e hanno risate profonde.
Adel, americana, fragile e antica, con un gran cappello di paglia contro il sole mi racconta la regola dei dieci secondi: il tempo in cui bisogna esser pronti a fuggire, in caso di allarme per il lancio di razzi di Hamas, nella stanza blindata di casa o rannicchiarsi a terra come le mani serrate attorno ala testa. Sono gesti che conosco, come conosco luoghi dove le vittime non hanno nemmeno la possibilità dei dieci secondi perché nessuno farà mai suonare la sirena o un appello sul telefonino. Gaza è lì, appena oltre il reticolato e i campi di grano: due minareti come matite verdi puntate verso il cielo. Gaza con i suoi ventimila combattenti ormai ben addestrati e armati, dove il radicalismo politico religioso si insinua e fa proseliti e non rispetta la tregua tacita con Israele: la prova di come la guerra di 50 anni fa non risolse nessun problema.
Sui confini Israele dei pionieri che esportavano il comunismo, un comunismo puramente empirico al di fuori di ogni enunciato razionale, anche se le punte di collettivismo integrale sono state uccise dal tempo, pare ancora vitale. Giovani famiglie,a decine, fanno domanda per venire nel kibbuz. Nel resto del Paese, invece, ho l’impressione di una sorta di smobilitazione dell’animo degli ebrei in Israele: alla fine della loro alta tensione. Non so quanto sia giusto rimproverarli per non essere rimasti se stessi come avremmo voluto, quelli della epopea del 1948, quelli che abbiamo ammirato increduli nel ’67: rimproverarli per l’arroganza, per aver scambiato la potenza per virtù. In fondo la perdita della loro eccezionalità per forza maggiore, al loro ingresso nella media di virtù e difetti comuni a tutti i popoli che hanno una patria, è inevitabile. Il male di cui soffrono, la mediocrità della classe politica rispetto alla vivacità della società e alla grandezza dei problemi, è il difetto di tutto quello che un tempo chiamavamo Occidente.
Adele, che mi racconta come è sopravvissuta ai razzi, aggiunge: «Perché dovrei odiare i palestinesi? Non sono miei nemici sono miei fratelli». L’eterna, splendida ragionevolezza delle minoranze che sono ahimè! minoranze.
Se devii dalla autostrada che porta al Mar Morto verso il tranquillo confine giordano in pochi minuti arrivi alla tomba di Ben Gurion, sul ciglio di una montagna che guarda il deserto. Gazzelle brucano l’erba senza paura, un battaglione di giovani soldati seduti all’ombra ascolta la lezione di storia del suo ufficiale. Tagliato dal sole a picco il paesaggio offre il fascino triplo della bellezza, del mistero e della minaccia. Forse qui si comprende che la forza di questo popolo, con i suoi innumerevoli errori, è in questa pazienza inesauribile, tessuta, intrecciata nel corso dei secoli con il destino nemico, le sue ombre, il suo frastuono che ritmano l’esistenza. Una pazienza di cui nessuno è riuscito ad avere ragione, che niente ha potuto incrinare. Sanno soffrire come nessun popolo ha sofferto e sanno sperare contro ogni speranza.

Repubblica 29.5.17
Lo scrittore Assaf Gavron sulla scelta alla vigilia dei cinquant’anni dalla Guerra dei Sei Giorni
“Il governo nei tunnel del Muro del Pianto così Netanyahu sfida chi vuole la pace”
di Francesca Caferri

Il 5 giugno di 50 anni fa Israele lanciava l’Operazione Focus, un attacco aereo su larga scala che segnava l’inizio della Guerra dei Sei Giorni. Per ricordare l’attacco militare che resta ancora il maggior successo bellico nella Storia dello Stato ebraico — prese possesso delle Alture del Golan, la penisola del Sinai, la Striscia di Gaza e subito dopo di Gerusalemme Est — il premier israeliano Benjamin Netanyahu ha convocato ieri una seduta speciale del governo in uno dei tunnel che corrono al di sotto del Muro del Pianto. Un gesto volto a ribadire la sovranità israeliana su tutta la città di Gerusalemme, che non ha mancato di indignare i palestinesi — «provocatorio » nelle parole del negoziatore Saeb Erekat — e quella parte degli israeliani che non concorda con le politiche del primo ministro. Ma soprattutto un gesto dal valore altamente simbolico: pochi giorni dopo che anche il presidente americano Donald Trump aveva rifiutato di farsi accompagnare da Netanyahu nella visita al Muro del Pianto, proprio per non infiammare gli animi dei palestinesi, il premier, nelle parole del quotidiano Haaretz, «ha voluto dimostrare che Israele è in pieno controllo» della zona. Un anticipo di quello che accadrà nei prossimi giorni, quando le celebrazioni per l’anniversario entreranno nel vivo. Ad Assaf Gavron, uno dei principali scrittori israeliani contemporanei, assurto con il suo romanzo “La Collina” a coscienza critica della sinistra nazionale, abbiamo chiesto il perché di questa scelta.
Gavron, che messaggio trasmettono le foto del governo riunito in una zona contesa?
«Quelle foto sono il tentativo di mostrare che Gerusalemme è una città unita. Ma contrastano con la realtà: la realtà è che Gerusalemme non è una città, sono due. Ci sono differenti sistemi burocratici, diversi sistemi di istruzione e di trasporto e ci vivono persone diverse: ebrei solitamente benestanti a Ovest, arabi solitamente poveri a Est. Due mondi opposti, due stili di vita opposti».
Il premier Netanyahu non sarebbe d’accordo con il suo giudizio: uno dei progetti approvati ieri prevede la costruzione di una funivia per collegare Gerusalemme Ovest alla città vecchia, situata a Gerusalemme Est, in un tentativo di unire le due zone… «Il mio non è un giudizio: è un fatto. Basta aprire gli occhi per vedere i due mondi che ci sono in quella città. Le rispondo con un altro fatto: in quella riunione è stato approvato anche un nuovo sistema di fognature per Gerusalemme Est: il che le dice che anche le fognature sono separate in questa città. Oltre a tutto il resto ».
La città è sotto un controllo unico da 50 anni: davvero non è cambiato nulla?
«È cambiato che è una città fallita. L’unica capitale al mondo, credo, che non viene riconosciuta dalla maggior parte dei Paesi stranieri e in cui non ci sono ambasciate, perché tutte sono a Tel Aviv».
Cinquanta anni dalla Guerra dei Sei giorni: che Paese è quello che si presenta a questo appuntamento?
«Un Paese diviso, in cui una buona parte della cittadinanza non si riconosce nel governo. Ma questa non è una novità: è accaduto per anni da voi in Italia quando c’era Silvio Berlusconi, accade oggi negli Stati Uniti con Donald Trump. I sistemi democratici concedono il potere a chi prende più voti: posso non essere d’accordo, ma questo è quello che è accaduto qui. È un Paese con molti problemi quello che si specchia in questi 50 anni, che ancora convive con la realtà dell’occupazione e che pare avere sempre meno speranze».
La sua di speranza qual è?
«Fatico a dirle cosa vedo nel futuro di questo Paese, non saprei davvero dire cosa sarà di noi. Posso solo sperare che questo periodo finisca presto e che si riesca a creare una vera convivenza con i palestinesi».

il manifesto 28.5.17
Aristotelismo dai bolognesi a Dante
Filosofia medievale. Una ricca silloge del Mulino a cura di Carla Casagrande e Gianfranco Fioravanti («La filosofia in Italia al tempo di Dante») ricostruisce l’epoca delle «disputazioni» universitarie
di Mario Mancini

In un famoso passo del Convivio (II, 12, 6-7) Dante ricorda il suo incontro con la filosofia, attraverso la lettura del De consolatione di Boezio e del De amicitia di Cicerone. La scopre, con emozione, come «somma cosa» e comincia così «ad andare là dov’ella si dimostrava veracemente, cioè nelle scuole delli religiosi e alle disputazioni delli filosofanti». Le parole di Dante sono di una meravigliosa precisione. Le «scuole delli religiosi» sono, a Firenze, gli «studia» degli ordini mendicanti — dei Domenicani, a Santa Maria Novella, e dei Francescani, a Santa Croce — «studia» che sono aperti, in parte, anche ai laici. «Filosofanti» individua un gruppo di intellettuali nettamente distinto dai «religiosi»: è il nome con cui si indicano, a Parigi, i professori della Facoltà delle Arti. E «disputazioni» è il termine tecnico che indica le discussioni di problemi, teologici e filosofici, in ambito universitario. Firenze, dunque, ma ancora di più Bologna. Perché qui, verso la fine del Duecento, la filosofia, in stretto rapporto con i maestri della Facoltà delle Arti di Parigi, riceve uno straordinario impulso e le «disputazioni» qui dibattute vengono riprese, appassionatamente, in tutte le principali città italiane. Un caso rilevante è la Questio de felicitate che un non meglio conosciuto Giacomo da Pistoia dedica a Guido Cavalcanti, il che ci dà piena misura di come temi filosofici fondamentali fossero giunti in un ambiente cui Dante, e non solo il suo «primo amico», poteva avere ampio accesso.
Un reduce da Parigi
Alla ricostruzione di questa vicenda culturale, che è una vera svolta, è dedicata la ricca silloge La filosofia in Italia al tempo di Dante, a cura di Carla Casagrande e Gianfranco Fioravanti (Il Mulino, pp. 292, € 23,00). La Parte prima ha come titolo «Il ritorno dei filosofi in Italia: Bologna 1295». Perché questa data? Perché è fortemente emblematica: individua il ritorno a Bologna di Gentile da Cingoli, uno studioso che si è perfezionato a Parigi, nella Facoltà delle Arti, seguendo in particolare corsi sul De generatione animalium di Aristotele, e che il 21 marzo 1295 stipula un contratto con un professore di logica dello studio bolognese per impartire lezioni di filosofia. Si tratta della prima testimonianza dell’esistenza a Bologna e in Italia di un insegnamento di filosofia in senso stretto, e sicuramente non è un caso che a impartirlo sia un reduce da Parigi. La situazione istituzionale dell’Università di Bologna – analizzata con mano sicura, oltre che da Fioravanti, da Andrea Tabarroni e da Chiara Crisciani – è molto particolare e molto complessa. I docenti di medicina sono attratti dalla dottrina di Aristotele, rilevantissimo è il ruolo di un maestro come Taddeo Alderotti, che insegna nella Scuola di medicina fin dal 1268 e che ha forti interessi filosofici: commenta Galeno e Avicenna, volgarizza, in un compendio, l’Etica Nicomachea di Aristotele. Il legame tra medici e filosofi, con maestri come Gentile da Cingoli, come Taddeo Alderotti e i suoi allievi, porta anche, nel 1316, alla costituzione, accanto al più antico e glorioso Studio giuridico, di uno Studio di Medicina e Arti, e sarà veramente un tratto originale e distintivo della filosofia che si insegna a Bologna e in Italia. Parallelo, ma autonomo, è il discorso che farà Pietro d’Abano, che insegna medicina, filosofia e astrologia a Padova.
I «modi di filosofare» di questi maestri sono ricostruiti, in modo eccellente, in un capitolo di Fioravanti, che è uno dei maggiori studiosi europei di filosofia medievale: basti ricordare il prezioso commento al Convivio da lui curato, nel 2014, per «I meridiani». In primo piano sono i testi che questi filosofi hanno lasciato – come i commemti al De anima aristotelico di Taddeo da Parma, di Matteo da Gubbio, di Giacomo da Piacenza – e questioni che privilegiano i temi della metafisica e della filosofia naturale (fisica, biologia, psicologia). Il metodo è quello della «quaestio», che vede nel confronto tra tesi contrapposte la via più sicura per la ricerca della verità da parte dei maestri e anche l’esercizio più utile per l’apprendimento da parte degli studenti. I bolognesi conoscono a fondo i testi della tradizione aristotelica, ma anche le opere dei più famosi maestri parigini: Alberto Magno, Tommaso d’Aquino, Boezio di Dacia, Sigieri di Brabante, Giovanni di Jandun. Il legame con Parigi è dunque ancora una volta decisivo per l’operare di questi filosofi, così come lo era stato all’origine della loro storia. Due grandi temi, per l’importanza che rivestono in ambito metafisico ed epistemologico, sono al centro della ricerca: il primo riguarda l’esistenza o meno del caso e della libertà in un mondo in cui, filosoficamente parlando, ogni effetto sembra derivare necessariamente da una concatenazione di cause; il secondo riguarda l’intelletto, la sua natura e la sua attività. Il problema dell’intelletto è cruciale, perché coinvolge il tema dell’immortalità dell’anima. Per i maestri bolognesi, che seguono Aristotele e Averroè e sfidano l’ortodossia, solo il pensiero «collettivo» è immortale: «L’intelletto ha un rapporto di appropriazione con la specie umana nel suo insieme e così, quando un individuo è morto, esso continua ad agire in un altro individuo, ma rispetto a chi è morto esso cessa totalmente di agire» (Giacomo da Piacenza).
La riflessione politica
La Parte seconda del libro – «Contesti, temi, figure» – volge lo sguardo a quanto accade intorno e al di fuori dello Studio bolognese. I capitoli riguardano Aristotele e la riflessione politica in Italia nel primo Trecento, dove spicca la figura di Marsilio da Padova (Roberto Lambertini), i volgarizzamenti filosofici, con un sottile confronto tra la Nicomachea di Taddeo Alderotti, fedele all’equivalenza concettuale e lessicale dei traduttori latini di Aristotele, e la soluzione, più superficiale e livellante, di Brunetto Latini nel secondo libro del Trésor (Sonia Gentili) e, a chiudere bene il volume, il Convivio di Dante (Paolo Falzone) e Petrarca e la filosofia (ancora Gentili). Dante affronta, con il Convivio, la grande sfida di fare filosofia in volgare e l’abbandono dell’opera, per Falzone, non è dovuto a un’improvvisa sfiducia nei confronti della filosofia, come si è sostenuto, ma dall’emergere del problema dell’Impero universale. La cultura filosofica dantesca mantiene tenacemente, anche nella Commedia, un fondo aristotelico e la difesa della felicità umana in questa vita muove dall’idea, scolpita nell’adagio aristotelico «la natura non fa nulla invano» (natura nihil facit frustra) che il cosmo sia regolato da un principio di «pienezza». Ritroviamo qui lo spirito di alcuni maestri della Facoltà delle Arti di Parigi, che difendono l’idea di una perfezione naturale conseguibile nella vita terrena attraverso la filosofia. Petrarca contrappone invece all’uomo come animale razionale e politico del pensiero aristotelico, decostruito radicalmente con l’arma dell’ironia e del paradosso, la dimensione morale della tradizione agostiniana, la via della vita solitaria, la saggezza della spiritualità individuale. Le sue guide sono Cicerone, Seneca, Agostino: l’unica forma di governo delle passioni consiste nella loro repressione. Diversissima, anche qui, la scelta di Dante, che, per il primato aristotelico dell’intelletto sulla volontà vede come possibile un termine medio tra le pulsioni dell’anima sensitiva e la volontà, che crede nella capacità del libero giudizio di conformarsi a ciò che la ragione ha deliberato. È la scelta della «virtù che consiglia».

Il Fatto 28.5.17
“In piazza contro chi imbroglia i lavoratori e la democrazia”
Maurizio Landini Il leader dei metalmeccanici Cgil contesta il ritorno dei voucher: ieri era il giorno del referendum poi saltato
di Luciano Cerasa | 29 maggio 2017

“Il 17 giugno intendiamo riempire piazza San Giovanni a Roma di lavoratori e di cittadini che manifestano per difendere la Costituzione, lo facciamo non per dividere ma per unire questo Paese partendo dalla convizione, sancita nella nostra Carta, che attraverso il lavoro si afferma il diritto e la possibilità di vivere con dignità: la democrazia è sotto attacco”. Il segretario generale della Fiom, Maurizio Landini, ritrova i toni delle grandi occasioni e chiama i lavoratori, i pensionati e tutti i cittadini a mobilitarsi. Il casus belli che riporta la Cgil in piazza dopo aver sperimentato la via legislativa con la raccolta delle firme ai banchetti per promuovere i referendum, è l’emendamento che il governo ha presentato sabato scorso nella manovra di aggiustamento dei conti pubblici all’esame del Parlamento. Una norma che reintroduce di fatto i voucher nei sistemi di retribuzione delle prestazioni lavorative anche nelle imprese. “Siamo davanti a un attacco alla democrazia – tuona Landini – perché con un imbroglio si è impedito alle persone di esprimersi e di decidere, come dice la Costituzione.
Oggi (ieri, ndr) si sarebbero dovuti celebrare i referendum chiesti dalla Cgil dopo aver raccolto 3 milioni di firme, vi sentite presi in giro?
Non siamo noi ma il Paese intero a essere stato preso in giro, siamo di fronte a una logica da imbroglioni: il 21 aprile hanno emanato un decreto di abolizione dei voucher per superare il voto dei referendum, il presidente del Consiglio disse che lo avevano fatto per non dividere il Paese; il ministro del Lavoro promise poi che avrebbe aperto un confronto con le parti sociali, ma nessuna convocazione è arrivata e a metà maggio si inventano un emendamento di reintroduzione dei voucher infilandolo in una manovra sui conti pubblici.
La ministra Finocchiaro dice che non sono voucher e chi li chiama ancora così è un bugiardo.
In realtà sono ancora peggio di quelli vecchi, quando li estendi alle imprese con meno di cinque dipendenti, che sono la stragrande maggioranza nel nostro Paese, si sta introducendo un’altra forma di lavoro che non è un contratto; non esistono le imprese occasionali, si tenta di tornare a una logica commerciale del lavoro, senza più diritti né tutele e senza possibilità di impugnare gli atti se serve. Un altro imbroglio come le famose “tutele crescenti” con cui dicevano di aver sostituito l’articolo 18.
Il segretario del Pd, Mattero Renzi, però se ne chiama fuori, dice che è una partita totalmente giocata dal governo.
Stiamo assistendo a un balletto: in Commissione l’emendamento è stato presentato da parlamentari del Pd e si conferma che anche il governo Gentiloni e quello Renzi – che poi sono la stessa cosa – tutte le volte che fanno norme sul lavoro non ne discutono con nessuno e producono provvedimenti dannosi che aumentano la precarietà. Il Pd dice che va votato, addirittura con Forza Italia e con la Lega. La verità è che questi sono quelli dell’Ape e del Jobs act e che avevano detto che sarebbero andati via dalla politica e sono ancora lì a distribuire a pioggia un sacco di soldi pubblici.
Anche papa Francesco fa riferimento alla Costituzione per richiamare gli imprenditori a non soggiacere solo alla logica del profitto: è il sindacato che si fa ecumenico o viceversa?
Certo è molto significativo che il Papa mandi da Genova un messaggio forte a favore della dignità e del valore sociale del lavoro proprio mentre in Parlamento una parte del Pd, all’opposto, fa questo provvedimento. Cgil e Fiom devono mettere al centro del loro impegno la democrazia e il lavoro come ci ha ricordato papa Francesco.
Cosa proponete a quei settori dell’economia che chiedono comunque una regolamentazione?
Abbiamo depositato da tempo in parlamento la proposta di una Carta dei diritti, per ottenere uno statuto di tutte le forme di lavoro dignitoso e tutelato: pensione, salute, equa retribuzione, partecipazione alle scelte sono diritti non contrattabili.
Pare che il provvedimento avrà la strada spianata anche al Senato.
La partita non è chiusa, ci appelliamo al presidente della Repubblica, alla Corte di Cassazione e alla Consulta perché intervengano e chiederemo, con una raccolta di firme che partirà nei prossimi giorni nelle piazze e in tutti i posti di lavoro, il rispetto dell’articolo 75 della Costituzione. Dobbiamo denunciare l’imbroglio e difendere la democrazia.

Repubblica 29.5.17
“Beren e Lúthien” è l’ennesimo libro postumo dell’autore del “Signore degli anelli”
Tolkien Quella saga ormai divenuta cantiere infinito
di Michele Mari

La filologia, si dice, è un atto d’amore: tuttavia troppo amore non fa bene alla filologia. Come sanno gli italianisti, il caso filologico più spinoso della nostra letteratura è quello delle “Grazie” foscoliane, tormentatissimo rebus che l’autore non seppe sciogliere in venticinque anni, e che premurosi discepoli cercarono di sciogliere per lui, col risultato di rendere sì leggibile il poema, ma a costo di tante e tali contaminazioni, potature, suture ed aggiunte da richiedere poi, per oltre un secolo, una controfilologia tutta giocata in negativo. Ma se anche
dal più devoto dei discepoli ci si aspetta un minimo di soggezione, come pretenderla da certi consanguinei? Voglio dire che, a parità di devozione, il consanguineo si sentirà autorizzato dallo stesso sangue agli interventi più spregiudicati, tanto più autoritari quanto meno autoriali. Insomma, non c’è bisogno di pensare alle terribili sorelle di Nietzsche o di Pascoli per provare dei brividi di fronte all’imponente pubblicazione di “opere” paterne condotta negli ultimi quarant’anni da Cristopher Tolkien.
All’inizio Tolkien era Tolkien: come Omero, il grande mitografo aveva solo un nome, e non se ne sapeva quasi nulla; i suoi adepti si limitavano ad adorare, tant’è vero che la filologia tolkieniana (al pari di quella lovecraftiana) è nata in ambito accademico “contro” la religione dei fan. Da quando però ci si è accorti dell’ingombro filiale, Tolkien è diventato J.J.R. (John Ronald Reuel) Tolkien, non sia mai lo si confonda col figlio Christopher. Il quale ha dato alle stampe una tale quantità di “inediti” paterni negli ultimi decenni che le sue prime imprese, ormai entrate nel corpus e nel canone, ci appaiono paradossalmente originali ed autentiche: è il caso soprattutto del Silmarillion, quella specie di cornice mitologica che contiene tutte le storie poi sviluppate da Tolkien in altrettanti libri o gruppi di libri, dal Signore degli anelli allo Hobbit. Ho scritto «poi sviluppate lì» perché effettivamente il
Silmarillion pre-esisteva, nella mente dell’autore, che anzi ne era ossessionato a partire dalla sua stessa mostruosa lunghezza e costitutiva incompiutezza, al cui confronto il Silmarillion postumo (1977) è poco più di un onesto “bigino”.
Per realizzarlo Christopher utilizzò diverse bozze licenziate dal padre (che le aveva però destinate a diventare storie derivate dalla cornice, quindi altra cosa), interpretò una mole imprecisata di appunti e scalette, disegnò una trama sulla base di quanto ricordava di avere udito con le proprie orecchie, e finalmente, per le integrazioni e il maquillage finale, si affidò alla penna dello scrittore fantasy Guy Gavriel Kay. Ma appena pubblicato, il Silmarillion era già superato: sprofondando nell’oceano delle carte paterne, infatti, Christopher trovò ancora tanti di quei materiali inerenti al progetto da richiedere ben dodici volumi, al ritmo di quasi uno all’anno (1983-1996). In queste Storie della Terra di Mezzo, come impropriamente viene designata la serie, si leggono spunti nuovi, versioni alternative, materiali preparatori, paratesti di commento, insomma quel che si dice un cantiere, senza però che Christopher abbia saputo resistere alla tentazione di dare qua e là forma narrativa e compiuta (il sospetto, anzi, è che vi abbia travasato gran parte di quella Storia del Silmarillion lunga circa 2.000 pagine che invano cercò di pubblicare a proprio nome).
L’ultimo titolo della saga è Beren e Lùthien, in uscita ora in tutto il mondo, e corrisponde a uno dei racconti (o miti) più importanti fra quelli appartenenti alla Prima Era. Chi ha maneggiato le
Storie della Terra di Mezzo lo conosce già; vero è che qui questa vicenda elfica è resa più lineare dall’abolizione – oltre che delle incongruenze e delle ripetizioni – di tutte le supefetazioni centrifughe cui Tolkien non sapeva rinunciare. Al tempo stesso, poiché in Tolkien tout se tient, Christopher ha premesso al racconto vero e proprio una ricca serie di “cartelli” utili a orientare il lettore nelle vaste geografie e nelle complesse cronologie e genealogie tolkieniane: attraverso queste parti liminali la vicenda dell’umano Beren e dell’elfa Lùthien si sottrae alla logica romanzesca («ho cercato di separare la storia di Beren e Lúthien in modo da renderla autonoma»), e torna a sciogliersi nel mito.
Instabile come lava che non si solidifichi, l’opera di Tolkien è perennemente in fieri, tanto che la compulsione al rifacimento sembra più un programma sistematico che un segno di indecisione. A proposito di tale aspetto, Cristopher afferma che il corpus paterno «può sembrare simile alla crescita delle leggende tra i popoli, al prodotto di molte menti e generazioni ». Se questo è vero, significa che tutte le edizioni postume di Tolkien assomigliano ai cicli post-omerici, che nei secoli hanno variato, complicato e approfondito il testo originario, spesso ricorrendo alla formula del sequel e del prequel. Il paradosso è che, allontanandosi sempre più dal Testo per articolare il Ciclo, Christopher ambisce a riconvergere nelle origini, a monte della «grande intrusione e dipartita del Signore degli Anelli », esattamente come i letterati alessandrini, che non volendo patire una condizione epigonale scavalcarono a piè pari la poesia classica per riscrivere quella arcaica.
Come per Nietzsche o per Pascoli, anche qui sono i parenti a prendere l’iniziativa È la storia di un umano e di un’elfa che riprende uno dei racconti più importanti della Prima Era
IL LIBRO Beren e Lúthien ( Bompiani, a cura di Christopher Tolkien, traduzione di Luca Manini e Simone Buttazzi, illustrazioni di Alan Lee. Pagg. 288, euro 22) di John Ronald Reuel Tolkien ( nella foto, 1892- 1973). In libreria dal primo giugno