lunedì 29 maggio 2017

La Lettura del Corriere 28.5.17
Confini aperti o chiusi? I migranti dividono i filosofi
Nida-Rümelin: senza frontiere si scioglie lo Stato
Di Cesare: ma il territorio non è proprietà privata

DONATELLA DI CESARE — Professor Nida-Rümelin, nel suo libro Über Grenzen denken («Pensare oltre i confini») lei prende posizione sulla questione scottante delle migrazioni, di solito evitata dai filosofi. Va detto, però, che in questi ultimi tempi sono usciti in Germania molti contributi intorno a questo tema, forse per reazione al «dramma dei profughi» nell’estate del 2015. È stato allora che Angela Merkel, contravvenendo a ogni regola, rompendo il patto di Dublino e l’accordo di Schengen, ha aperto le porte lasciando entrare quasi un milione di rifugiati, in gran parte provenienti dalla Siria. Lei però critica la cancelliera perché — dice — quella decisione «nella sua spontaneità non è stata meditata». Il mio giudizio è diametralmente opposto al suo. Tuttavia ho l’impressione che l’estate del 2015 sia un punto di non ritorno. È finita in Germania la «cultura del benvenuto»?
JULIAN NIDA-RÜMELIN — Nella politica del governo federale, e della cancelliera, c’è stato in effetti un cambio di rotta. Adesso la questione è da un canto come impedire altri flussi di profughi, o come canalizzarli meglio, dall’altro come rendere più efficaci le espulsioni su larga scala. D’altronde in Germania la politica, insieme con l’economia e la società civile, compie enormi sforzi per consentire un’integrazione a lungo termine. In questo senso la «cultura del benvenuto» non è finita.
DONATELLA DI CESARE — A proposito dell’etica. Anche in questo suo ultimo libro, come in altri, lei mette l’accento sul «normativo», sulla normatività, e cerca perciò di dare risposte, anzi perfino di fornire postulati per una politica della migrazione. Invece io credo che il compito della filosofia sia quello di mettere in questione, nella loro legittimità, tutte quelle pratiche che appaiono ovvie. Gli Stati nazionali avanzano la pretesa di decidere dei loro confini territoriali e politici, se è necessario perfino respingendo i migranti. Questo corrisponde, certo, alla norme internazionali. Ma si può dire che sia un diritto eticamente giustificato? A me non pare proprio. E che ne è del diritto di migrare? Non dovrebbe essere universale?
JULIAN NIDA-RÜMELIN — Io sostengo le norme del diritto internazionale dalla prospettiva dell’etica e della filosofia politica. E critico teoria e pratica degli open border , dei confini aperti, da un punto di vista cosmopolitico, non nazionalistico. Importante è per me il primato della politica e della capacità della politica di articolare la realtà. Un mercato del lavoro globale e illimitato metterebbe a rischio quelle strutture della solidarietà sociale che si sono sviluppate nei secoli. Anzi, guardando ai dati empirici, le distruggerebbe in tempi brevi. All’Accademia delle Scienze di Berlino dirigo un gruppo di lavoro sulla giustizia internazionale e la responsabilità istituzionale al di là degli Stati nazionali. Penso che la politica debba poter esercitare, anche al di là dei confini nazionali, la sua forza plasmatrice, democraticamente legittimata. In tal senso è auspicabile che gli Stati nazionali siano disposti a cedere un po’ delle loro competenze, non solo all’interno dell’Unione Europea. Ma non si può certo perorare e raccomandare quella dissoluzione della responsabilità che deriverebbe da una ulteriore espansione del mercato globale. In tal senso le regole che vigono oggi nel diritto internazionale sono, nella sostanza, anche etiche, perché assicurano il primato della politica.
DONATELLA DI CESARE — Nonostante la cautela con cui si esprime, sembra che, alla fin fine, lei sia favorevole alle porte chiuse. Certo, lei presenta molti motivi, soprattutto economici, che giustificherebbero la chiusura. Ad esempio sostiene che i Paesi poveri diventeranno più poveri a causa della migrazione. Forse sarà così a lungo andare. Chissà. Ma che ne è delle generazioni odierne? Dei giovani che aspirano oggi a una chance? Perché dovrebbero essere puniti?
JULIAN NIDA-RÜMELIN — Non sono per i confini chiusi, bensì per confini controllati politicamente. A questo scopo non sono necessarie barriere e muri; basta anzitutto un’amministrazione pubblica che funzioni. Che negli Stati Uniti ci siano più di dieci milioni di persone senza documenti è la prova della disfunzionalità dell’amministrazione pubblica americana. In Germania questo non è accaduto neppure dopo la decisione di aprire le frontiere presa da Angela Merkel nel settembre del 2015. Forse lei sarà sorpresa, ma in diverse occasioni ho detto con chiarezza che oggi viviamo in un mondo dai confini chiusi e che di certo possiamo sopportare più migrazione a livello globale. Ma purché sia orientata a criteri etici e politici.
Tra i giovani uomini delle regioni dell’Africa sub-sahariana è molto diffusa la convinzione che valga almeno la pena tentare di giungere in Europa. Questa convinzione nasce da un errore drammatico con cui si pretende di valutare la situazione. In Europa non c’è richiesta di forza lavoro non o poco qualificata. In Paesi come Italia, Spagna, Grecia, e anche, sebbene in misura minore, in Francia, abbiamo un tasso di disoccupazione estremamente alto. Perciò è ingannevole l’aspettativa di una integrazione nel mercato europeo del lavoro che sia semplice e priva di problemi. Qui tutte le parti potrebbero perdere. Anzitutto perdono quelli che hanno investito almeno 7 mila dollari (o anche più) per arrivare dal Ghana a Lampedusa, che hanno rischiato la vita nel viaggio e che, una volta arrivati a Cagliari, Catania, Palermo riescono a malapena a guadagnarsi un paio di euro al giorno nei parcheggi di auto. Perdono le famiglie che, dopo aver racimolato tutti i risparmi, li investono in questa forma di migrazione. Infine perdono anche quei benintenzionati che, nei Paesi ospiti, si aspettano un arricchimento e una rivitalizzazione delle società che accolgono i profughi. È palpabile la disillusione di coloro che in Germania sono impegnati nell’accoglienza. Tre quarti di quelli che sono entrati nel settembre 2015 sono giovani uomini tra i 16 e i 35 anni. Molti di loro provengono da ambienti di tradizione musulmana e da strutture familiari autoritarie; lasciati a se stessi, per la prima volta nella vita, sono disorientati nella nuova situazione. Alcuni sviluppano perciò, come dimostrano i numerosi atti di violenza, una avversione contro la cultura liberale che li circonda, contro le donne emancipate, e si ghettizzano in gruppi chiusi. Capisco che vogliano migliorare le loro condizioni di vita, anche esponendosi a tutti i rischi del viaggio intercontinentale. Ma ad attenderli, una volta giunti, è nella maggior parte dei casi un’amara delusione. Le qualifiche dei loro profili non corrispondono alle esigenze dei mercati del lavoro nelle regioni economicamente avanzate del mondo. Le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti. Per esempio in Italia, sopratutto nelle città del Sud: molti giovani provenienti dall’Africa sub-sahariana, che non hanno la prospettiva di un lavoro regolare, si arrangiano con lavoretti mal pagati, vendono fiori spostandosi da un locale all’altro, senza essere in grado di realizzare un reddito decente... Il tasso di occupazione tra i rifugiati arrivati in Germania nell’autunno del 2015 si attesta attualmente al 6%!
DONATELLA DI CESARE — La sua posizione emerge con chiarezza nella discussione di importanti problemi politici. Ad esempio mi sembra che lei non sia contrario al patto tra Unione Europea e Turchia per fermare l’immigrazione sulla rotta balcanica. Io lo considero una macchia e concordo con la denuncia di Amnesty International. Ma colpisce soprattutto che lei non denunci abbastanza i muri, mentre critica la politica italiana d’accoglienza. Lei scrive che l’Italia ha fatto «piuttosto poco» per l’integrazione. L’argomento è che bisognerebbe investire di più in Africa. Ma intanto sbarcano in migliaia a Lampedusa e la ripartizione dei profughi non funziona. Che cosa dovrebbe fare l’Italia, più di quel che fa? Non crede che tutti i Paesi dell’Europa meridionale siano stati lasciati soli? Non crede sopratutto che l’Europa abbia dimenticato sotto ogni aspetto, anche positivo, il Mediterraneo?
JULIAN NIDA-RÜMELIN — No, non difendo il patto Ue-Turchia. Al contrario, mi sembra che i Paesi d’Europa, e in particolare la Germania, siano divenuti dipendenti dalla benevolenza della Turchia. E andrei oltre sostenendo che il gesto caritatevole della cancelliera Merkel e il messaggio della «cultura del benvenuto» vengono garantiti da un patto con uno Stato avviato già verso una dittatura. La tesi, sostenuta veementemente dalla cancelliera e da altri membri del governo federale, secondo cui oggi nessun confine è più difendibile, viene di fatto falsificata dall’esigenza di rendere impenetrabili i confini esterni dell’Unione Europea. Secondo il motto: non ne vogliamo sapere più dei confini, a meno che non siano sufficientemente lontani. Ho criticato solo lievemente l’Italia per la mancanza di una politica di integrazione, ma ho criticato più aspramente la Germania per aver piantato in asso l’Italia quando, per via degli sbarchi che aumentavano drammaticamente e per via dei tanti che morivano nel Mediterraneo, il Paese si è trovato al limite delle proprie capacità. Questo non va: rifiutare la solidarietà e poi richiederla quando si è colpiti, come è avvenuto in Germania nell’autunno del 2015. Credo che una amministrazione pubblica funzionante, una meditata legge sull’immigrazione e una politica globale di giustizia renderebbero superflui frontiere, steccati e muri. Come presidente della giuria ho proposto per il «Premio Willy Brandt» il nome di Agnes Heller, la voce critica più famosa ed eminente contro il regime ungherese di Orbán. E la mia proposta è stata accolta. D’altronde le mie critiche alle correnti (Le Pen, Alternative für Deutschland, Lega Nord...) e ai governi populisti (Polonia, Ungheria) sono ben note. Manca la solidarietà europea, anche per quel che riguarda il tema della migrazione, così come mancano fondamenti etici e una politica stringente. Perciò prendo parte al dibattito pubblico.
DONATELLA DI CESARE — Alla fine del suo libro lei propone un’analogia che mi è capitato di trovare anche in altri articoli pubblicati in Germania: il profugo sarebbe come un senzatetto che viene sorpreso dal cittadino nel salotto di casa. Lo scopo della sua argomentazione, che definirei statocentrica, è di legittimare i confini. Non trova però che quell’analogia sia del tutto fuorviante? Come cittadini non abbiamo la proprietà del suolo nazionale. Non è come una proprietà privata. Di conseguenza, secondo me, non abbiamo alcun diritto di escludere gli altri.
JULIAN NIDA-RÜMELIN — Questa analogia è meditata. Nella Costituzione tedesca è scritto che il potere viene dal popolo e al popolo appartengono lo Stato, il territorio, le risorse, le infrastrutture. Sono proprietà dei cittadini che ne dispongono. E possono decidere di imporsi restrizioni, per rispettare gli obblighi internazionali, come la Convenzione di Ginevra. Il dovere di proteggere i profughi di guerre civili è per me molto importante. Perché fondamentale è l’idea che la prassi, individuale e collettiva, sia possibile solo all’interno di strutture vincolanti. Perciò la mia etica della migrazione fa parte di un progetto più ampio che chiamo «razionalità strutturale». La razionalità è possibile solo nel quadro di regole, norme e istituzioni che rischierebbero di dissolversi se tutto diventasse un mercato globale. Questa è per me un’etica intesa come ottimizzazione possibile solo entro i limiti della razionalità strutturale. Questi limiti includono i confini statali. Senza confini statali la politica non avrebbe forza plasmatrice, non ci sarebbe cooperazione né Stato sociale. Sono un seguace del cosmopolitismo, dell’idea che al di là degli Stati-nazione debba esserci una responsabilità istituzionale, democraticamente controllata, che affronti i problemi del mondo, non solo la migrazione, ma anche i cambiamenti climatici, l’utilizzo delle risorse. Mi ritengo un cosmopolita in senso letterale, cittadino del mondo. Si tratta di plasmare le condizioni globali di vita, si tratta del primato della politica a livello nazionale e internazionale. La dissoluzione dello Stato non può essere, come sembra credere lei, il passo verso un ordine mondiale che sia politicamente progettato.