La Lettura del Corriere 28.5.17
Confini aperti o chiusi? I migranti dividono i filosofi
Nida-Rümelin: senza frontiere si scioglie lo Stato
Di Cesare: ma il territorio non è proprietà privata
DONATELLA
DI CESARE — Professor Nida-Rümelin, nel suo libro Über Grenzen denken
(«Pensare oltre i confini») lei prende posizione sulla questione
scottante delle migrazioni, di solito evitata dai filosofi. Va detto,
però, che in questi ultimi tempi sono usciti in Germania molti
contributi intorno a questo tema, forse per reazione al «dramma dei
profughi» nell’estate del 2015. È stato allora che Angela Merkel,
contravvenendo a ogni regola, rompendo il patto di Dublino e l’accordo
di Schengen, ha aperto le porte lasciando entrare quasi un milione di
rifugiati, in gran parte provenienti dalla Siria. Lei però critica la
cancelliera perché — dice — quella decisione «nella sua spontaneità non è
stata meditata». Il mio giudizio è diametralmente opposto al suo.
Tuttavia ho l’impressione che l’estate del 2015 sia un punto di non
ritorno. È finita in Germania la «cultura del benvenuto»?
JULIAN
NIDA-RÜMELIN — Nella politica del governo federale, e della cancelliera,
c’è stato in effetti un cambio di rotta. Adesso la questione è da un
canto come impedire altri flussi di profughi, o come canalizzarli
meglio, dall’altro come rendere più efficaci le espulsioni su larga
scala. D’altronde in Germania la politica, insieme con l’economia e la
società civile, compie enormi sforzi per consentire un’integrazione a
lungo termine. In questo senso la «cultura del benvenuto» non è finita.
DONATELLA
DI CESARE — A proposito dell’etica. Anche in questo suo ultimo libro,
come in altri, lei mette l’accento sul «normativo», sulla normatività, e
cerca perciò di dare risposte, anzi perfino di fornire postulati per
una politica della migrazione. Invece io credo che il compito della
filosofia sia quello di mettere in questione, nella loro legittimità,
tutte quelle pratiche che appaiono ovvie. Gli Stati nazionali avanzano
la pretesa di decidere dei loro confini territoriali e politici, se è
necessario perfino respingendo i migranti. Questo corrisponde, certo,
alla norme internazionali. Ma si può dire che sia un diritto eticamente
giustificato? A me non pare proprio. E che ne è del diritto di migrare?
Non dovrebbe essere universale?
JULIAN NIDA-RÜMELIN — Io sostengo
le norme del diritto internazionale dalla prospettiva dell’etica e della
filosofia politica. E critico teoria e pratica degli open border , dei
confini aperti, da un punto di vista cosmopolitico, non nazionalistico.
Importante è per me il primato della politica e della capacità della
politica di articolare la realtà. Un mercato del lavoro globale e
illimitato metterebbe a rischio quelle strutture della solidarietà
sociale che si sono sviluppate nei secoli. Anzi, guardando ai dati
empirici, le distruggerebbe in tempi brevi. All’Accademia delle Scienze
di Berlino dirigo un gruppo di lavoro sulla giustizia internazionale e
la responsabilità istituzionale al di là degli Stati nazionali. Penso
che la politica debba poter esercitare, anche al di là dei confini
nazionali, la sua forza plasmatrice, democraticamente legittimata. In
tal senso è auspicabile che gli Stati nazionali siano disposti a cedere
un po’ delle loro competenze, non solo all’interno dell’Unione Europea.
Ma non si può certo perorare e raccomandare quella dissoluzione della
responsabilità che deriverebbe da una ulteriore espansione del mercato
globale. In tal senso le regole che vigono oggi nel diritto
internazionale sono, nella sostanza, anche etiche, perché assicurano il
primato della politica.
DONATELLA DI CESARE — Nonostante la
cautela con cui si esprime, sembra che, alla fin fine, lei sia
favorevole alle porte chiuse. Certo, lei presenta molti motivi,
soprattutto economici, che giustificherebbero la chiusura. Ad esempio
sostiene che i Paesi poveri diventeranno più poveri a causa della
migrazione. Forse sarà così a lungo andare. Chissà. Ma che ne è delle
generazioni odierne? Dei giovani che aspirano oggi a una chance? Perché
dovrebbero essere puniti?
JULIAN NIDA-RÜMELIN — Non sono per i
confini chiusi, bensì per confini controllati politicamente. A questo
scopo non sono necessarie barriere e muri; basta anzitutto
un’amministrazione pubblica che funzioni. Che negli Stati Uniti ci siano
più di dieci milioni di persone senza documenti è la prova della
disfunzionalità dell’amministrazione pubblica americana. In Germania
questo non è accaduto neppure dopo la decisione di aprire le frontiere
presa da Angela Merkel nel settembre del 2015. Forse lei sarà sorpresa,
ma in diverse occasioni ho detto con chiarezza che oggi viviamo in un
mondo dai confini chiusi e che di certo possiamo sopportare più
migrazione a livello globale. Ma purché sia orientata a criteri etici e
politici.
Tra i giovani uomini delle regioni dell’Africa
sub-sahariana è molto diffusa la convinzione che valga almeno la pena
tentare di giungere in Europa. Questa convinzione nasce da un errore
drammatico con cui si pretende di valutare la situazione. In Europa non
c’è richiesta di forza lavoro non o poco qualificata. In Paesi come
Italia, Spagna, Grecia, e anche, sebbene in misura minore, in Francia,
abbiamo un tasso di disoccupazione estremamente alto. Perciò è
ingannevole l’aspettativa di una integrazione nel mercato europeo del
lavoro che sia semplice e priva di problemi. Qui tutte le parti
potrebbero perdere. Anzitutto perdono quelli che hanno investito almeno 7
mila dollari (o anche più) per arrivare dal Ghana a Lampedusa, che
hanno rischiato la vita nel viaggio e che, una volta arrivati a
Cagliari, Catania, Palermo riescono a malapena a guadagnarsi un paio di
euro al giorno nei parcheggi di auto. Perdono le famiglie che, dopo aver
racimolato tutti i risparmi, li investono in questa forma di
migrazione. Infine perdono anche quei benintenzionati che, nei Paesi
ospiti, si aspettano un arricchimento e una rivitalizzazione delle
società che accolgono i profughi. È palpabile la disillusione di coloro
che in Germania sono impegnati nell’accoglienza. Tre quarti di quelli
che sono entrati nel settembre 2015 sono giovani uomini tra i 16 e i 35
anni. Molti di loro provengono da ambienti di tradizione musulmana e da
strutture familiari autoritarie; lasciati a se stessi, per la prima
volta nella vita, sono disorientati nella nuova situazione. Alcuni
sviluppano perciò, come dimostrano i numerosi atti di violenza, una
avversione contro la cultura liberale che li circonda, contro le donne
emancipate, e si ghettizzano in gruppi chiusi. Capisco che vogliano
migliorare le loro condizioni di vita, anche esponendosi a tutti i
rischi del viaggio intercontinentale. Ma ad attenderli, una volta
giunti, è nella maggior parte dei casi un’amara delusione. Le qualifiche
dei loro profili non corrispondono alle esigenze dei mercati del lavoro
nelle regioni economicamente avanzate del mondo. Le conseguenze sono
sotto gli occhi di tutti. Per esempio in Italia, sopratutto nelle città
del Sud: molti giovani provenienti dall’Africa sub-sahariana, che non
hanno la prospettiva di un lavoro regolare, si arrangiano con lavoretti
mal pagati, vendono fiori spostandosi da un locale all’altro, senza
essere in grado di realizzare un reddito decente... Il tasso di
occupazione tra i rifugiati arrivati in Germania nell’autunno del 2015
si attesta attualmente al 6%!
DONATELLA DI CESARE — La sua
posizione emerge con chiarezza nella discussione di importanti problemi
politici. Ad esempio mi sembra che lei non sia contrario al patto tra
Unione Europea e Turchia per fermare l’immigrazione sulla rotta
balcanica. Io lo considero una macchia e concordo con la denuncia di
Amnesty International. Ma colpisce soprattutto che lei non denunci
abbastanza i muri, mentre critica la politica italiana d’accoglienza.
Lei scrive che l’Italia ha fatto «piuttosto poco» per l’integrazione.
L’argomento è che bisognerebbe investire di più in Africa. Ma intanto
sbarcano in migliaia a Lampedusa e la ripartizione dei profughi non
funziona. Che cosa dovrebbe fare l’Italia, più di quel che fa? Non crede
che tutti i Paesi dell’Europa meridionale siano stati lasciati soli?
Non crede sopratutto che l’Europa abbia dimenticato sotto ogni aspetto,
anche positivo, il Mediterraneo?
JULIAN NIDA-RÜMELIN — No, non
difendo il patto Ue-Turchia. Al contrario, mi sembra che i Paesi
d’Europa, e in particolare la Germania, siano divenuti dipendenti dalla
benevolenza della Turchia. E andrei oltre sostenendo che il gesto
caritatevole della cancelliera Merkel e il messaggio della «cultura del
benvenuto» vengono garantiti da un patto con uno Stato avviato già verso
una dittatura. La tesi, sostenuta veementemente dalla cancelliera e da
altri membri del governo federale, secondo cui oggi nessun confine è più
difendibile, viene di fatto falsificata dall’esigenza di rendere
impenetrabili i confini esterni dell’Unione Europea. Secondo il motto:
non ne vogliamo sapere più dei confini, a meno che non siano
sufficientemente lontani. Ho criticato solo lievemente l’Italia per la
mancanza di una politica di integrazione, ma ho criticato più aspramente
la Germania per aver piantato in asso l’Italia quando, per via degli
sbarchi che aumentavano drammaticamente e per via dei tanti che morivano
nel Mediterraneo, il Paese si è trovato al limite delle proprie
capacità. Questo non va: rifiutare la solidarietà e poi richiederla
quando si è colpiti, come è avvenuto in Germania nell’autunno del 2015.
Credo che una amministrazione pubblica funzionante, una meditata legge
sull’immigrazione e una politica globale di giustizia renderebbero
superflui frontiere, steccati e muri. Come presidente della giuria ho
proposto per il «Premio Willy Brandt» il nome di Agnes Heller, la voce
critica più famosa ed eminente contro il regime ungherese di Orbán. E la
mia proposta è stata accolta. D’altronde le mie critiche alle correnti
(Le Pen, Alternative für Deutschland, Lega Nord...) e ai governi
populisti (Polonia, Ungheria) sono ben note. Manca la solidarietà
europea, anche per quel che riguarda il tema della migrazione, così come
mancano fondamenti etici e una politica stringente. Perciò prendo parte
al dibattito pubblico.
DONATELLA DI CESARE — Alla fine del suo
libro lei propone un’analogia che mi è capitato di trovare anche in
altri articoli pubblicati in Germania: il profugo sarebbe come un
senzatetto che viene sorpreso dal cittadino nel salotto di casa. Lo
scopo della sua argomentazione, che definirei statocentrica, è di
legittimare i confini. Non trova però che quell’analogia sia del tutto
fuorviante? Come cittadini non abbiamo la proprietà del suolo nazionale.
Non è come una proprietà privata. Di conseguenza, secondo me, non
abbiamo alcun diritto di escludere gli altri.
JULIAN NIDA-RÜMELIN —
Questa analogia è meditata. Nella Costituzione tedesca è scritto che il
potere viene dal popolo e al popolo appartengono lo Stato, il
territorio, le risorse, le infrastrutture. Sono proprietà dei cittadini
che ne dispongono. E possono decidere di imporsi restrizioni, per
rispettare gli obblighi internazionali, come la Convenzione di Ginevra.
Il dovere di proteggere i profughi di guerre civili è per me molto
importante. Perché fondamentale è l’idea che la prassi, individuale e
collettiva, sia possibile solo all’interno di strutture vincolanti.
Perciò la mia etica della migrazione fa parte di un progetto più ampio
che chiamo «razionalità strutturale». La razionalità è possibile solo
nel quadro di regole, norme e istituzioni che rischierebbero di
dissolversi se tutto diventasse un mercato globale. Questa è per me
un’etica intesa come ottimizzazione possibile solo entro i limiti della
razionalità strutturale. Questi limiti includono i confini statali.
Senza confini statali la politica non avrebbe forza plasmatrice, non ci
sarebbe cooperazione né Stato sociale. Sono un seguace del
cosmopolitismo, dell’idea che al di là degli Stati-nazione debba esserci
una responsabilità istituzionale, democraticamente controllata, che
affronti i problemi del mondo, non solo la migrazione, ma anche i
cambiamenti climatici, l’utilizzo delle risorse. Mi ritengo un
cosmopolita in senso letterale, cittadino del mondo. Si tratta di
plasmare le condizioni globali di vita, si tratta del primato della
politica a livello nazionale e internazionale. La dissoluzione dello
Stato non può essere, come sembra credere lei, il passo verso un ordine
mondiale che sia politicamente progettato.