domenica 23 dicembre 2018

Corriere La Lettura 23.12.18
Il virus della Rivoluzione
Nel 1787 un morbo sconosciuto contagia l’aristocrazia parigina, i nobili cominciano ad assassinare cittadini comuni, il dottor Guilliottin indaga ma il popolo furibondo prepara la ribellione
Netflix prepara “Sangue blu”
di Stefania Carini


È il 1787, e una serie di omicidi turba il sonno dei francesi. A indagare sul caso viene chiamato Joseph Guillotin, medico e futuro ispiratore — soprattutto nel nome — della ghigliottina. Durante l’inchiesta, Guillotin scopre l’esistenza di un misterioso virus, chiamato Sang Bleu: si diffonde con rapidità tra i nobili inducendoli a uccidere persone comuni. Il virus, presto, condurrà alla ribellione.
«E se la Rivoluzione francese non fosse avvenuta nel modo in cui ci è stato raccontato?»: sembra l’affermazione di qualche sito complottista, ma si tratta solo della frase di lancio della prossima serie che Netflix produrrà nel 2019 in Francia. Creata da Aurélien Molas, scritta da quest’ultimo assieme a Gaia Guasti, sarà composta da otto episodi da 50 minuti ciascuno. Così ha spiegato Erik Barmack, vice president international originals di Netflix: «Siamo entusiasti di offrire alla Francia e a un pubblico internazionale una serie ispirata a un momento così decisivo della storia». Tutto da verificare se la sua uscita susciterà un nuovo dibattito intorno a uno degli eventi cruciali dell’Occidente. La serie è una chiara rielaborazione fantastica, tanto che a confronto l’anime giapponese dedicato allo stesso tema, Lady Oscar, capace di influenzare l’immaginario di un’intera generazione negli anni Ottanta, sembra un raffinato trattato storiografico.
Dai romanzi al cinema, dalla televisione al fumetto fino ai media digitali: quando finzione e storia si incontrano il risultato scatena interpretazioni, riflessioni e polemiche. La storia è pur sempre una storia, una narrazione del passato frutto di ricerche e interpretazioni. Che cosa accade quando incrocia le esigenze di un’altra narrazione, quella basata sull’intrattenimento, anche nel senso più alto del termine, con regole proprie legate al media che la ospita?
Ne I Medici, serie di Raiuno, ci sono alcune deviazioni rispetto ai fatti reali, introdotte per ragioni stilistiche e drammaturgiche. Perché l’obiettivo primario di questi prodotti è, appunto, l’intrattenimento, non la ricerca scientifica. Eppure ambiscono a illuminare in maniera nuova certi aspetti del passato. Né, d’altra parte, gli accademici sono del tutto al riparo da errori e distorsioni. Tanto gli storici quanto gli scrittori-sceneggiatori lavorano sulle fonti, le interpretano, danno loro «forma narrativa». La separazione dei ruoli non è più così netta. Come se non bastasse, sempre più spesso gli storici sono anche consulenti, a loro volta autori, scrittori.
Il dibattito non è nuovo, ma si completa di nuovi tasselli di anno in anno, di titolo in titolo, di media in media. The Big Historical Fiction Debate si è svolto questo mese a Londra, durante l’HistFest (dal 7 al 9 dicembre), festival che ha mescolato diversi aspetti di quello che significa oggi «fare la storia». Il panel citato si chiedeva se la fiction storica avesse o meno delle responsabilità nei confronti dei fatti storici. È sempre giusto «giocare» con il passato che conosciamo? Come sceneggiatori e scrittori affrontano la complessità della storia? Il dibattito era moderato da S. J. Parris, autrice di thriller storici dedicati a Giordano Bruno, e comprendeva tra gli altri Stephen McGann (autore di saggi dedicati alla ricostruzione storica dei casi medici affrontati nella serie Bbc Call the Midwife), Hallie Rubenhold (scrittrice e storica le cui ricerche sui costumi sessuali inglesi, Jack lo squartatore e la Rivoluzione francese sono alla base di libri, documentari e serie tv) e Judith Flanders (storica e scrittrice, consulente per il videogioco Assassin’s Creed).
La diversità di temi, approcci e media dà la misura di come l’intreccio fra storia e narrazione sia una costante, ed emerga anche in territori spesso poco esplorati. Anche perché i media sono storia in un’accezione ampia del termine. Come sottolineato da diversi teorici dal secondo dopoguerra in poi (come Marc Ferro e Pierre Sorlin con le loro analisi sul cinema), i media sono una fonte storica non solo quando registrano il reale, ma anche quando raccontano storie di pura finzione. Il nostro immaginario, infatti, non solo rappresenta la nostra realtà, ma ne fa parte concretamente. I media mostrano un modo di vedere di una società e quello che quest’ultima ritiene rappresentabile. Allo stesso tempo ne rivelano gli aspetti nascosti e sfuggenti.
Con la fiction storica accade qualcosa di più. Quando l’immaginario del presente si mette infatti a giocare con il passato, c’è un altro passaggio di cui tenere conto. La narrazione storica di finzione diventa interessante non soltanto per come illumina alcuni aspetti della storia ma per come rivela il presente e il suo rapporto con il passato. Attraverso le regole stilistiche proprie del media per il quale è prodotta, la narrativa storica mette in forma l’immaginario attuale mostrando come si rispecchi nel passato e/o lo rimodelli.
Downton Abbey, serie sull’Inghilterra degli anni Dieci e Venti che si apre alla modernità, risveglia anche un sogno nostalgico negli spettatori. A Very English Scandal o Il caso O. J. Simpson ripercorrono fatti di cronaca per riflettere su cambiamenti sociali di cui capiamo la forza solo oggi. E questa Rivoluzione francese? È riproposta come evento fondamentale, proprio per le scelte stilistiche che la contraddistinguono: il fantastico è un genere in auge, il racconto seriale è ritenuto sinonimo di qualità, lo streaming è il futuro dell’intrattenimento. Se in The Crown la regina Elisabetta II è il simbolo della sacralità delle istituzioni in un momento, il nostro, di messa in discussione di quest’ultime, la Rivoluzione francese pare forse tornare di moda proprio perché rispecchia, con una distorsione significativa, certe odierne contrapposizioni, come quella élite versus popolo.
La realtà di oggi s’è già sovrapposta a quel passato a livello di immaginario: Macron è stato raffigurato come Luigi XVI durante una manifestazione a maggio in Francia, paragone in questi giorni utilizzato dai gilet gialli e da certi commentatori. Il virus maligno fa ormai parte tanto di cronache giornalistiche quanto del racconto fantastico, da I sopravvissuti (1975-1979) a The Walking Dead (cominciata nel 2010). Il contagio è un altro tema attuale: la nostra società è un organismo connesso, ma fragile, quindi può essere messa in crisi da un elemento singolo, che sia un virus reale, informatico, finanziario... È l’idea anche della «fine di un’era»: è quello che viene percepito oggi, a torto o a ragione, nel sentire comune, è quello che accadde in qualche modo allora. Il gioco è tra utopia e distopia, come ad esempio in The Man in the High Castle, che immagina la vittoria finale dei nazisti per mostrare certe pulsioni ancora latenti nella società contemporanea.
Le parole scelte per lanciare la serie sulla Rivoluzione sono emblematiche: non si promette di raccontare un’eccitante versione altra della storia, ma viene detto che forse la storia non è come «ci hanno detto». Credevamo di sapere e invece ci hanno manipolati: c’è un po’ del complottismo di oggi, almeno nei toni. Soprattutto, se confermata dalla futura visione, l’idea di un virus come motore di uno scontro sociale e di una Rivoluzione è molto attuale. Perché è semplice, quindi rassicurante: un solo fattore origina tutto. Non c’è bisogno di analisi dotte. Non c’è bisogno di complessità. E cioè della parola che oggi fatichiamo a usare per spiegare il nostro sfuggente e molteplice reale, e quindi pare anche il nostro passato.