mercoledì 8 agosto 2018

Repubblica 8.8.18
Il bullismo ci fa muti
di Marco Tullio Giordana


Due cose da ragazzino mi hanno molto colpito. Una: i 12 professori che nel 1931 rifiutarono il giuramento di fedeltà al fascismo ( sono pochi, vale la pena ricordarli: Ernesto Buonaiuti, Mario Carrara, Gaetano De Sanctis, Giorgio Errera, Giorgio Levi Della Vida, Fabio Luzzatto, Piero Martinetti, Bartolo Nigrisoli, Francesco Ruffini, Edoardo Ruffini Avondo, Lionello Venturi, Vito Volterra). L’altra: le leggi per la difesa della razza promulgate nel 1938 nell’acquiescenza totale, nel sonno generatore di mostri.
Mi sorprendeva nel primo caso che solo in 12 si fossero impuntati, nel secondo che nessuno avesse ardito protestare. Certo, sotto dittatura, senza partiti e con gli oppositori in galera o al confino, era forse impossibile qualsiasi reazione. Chi ebbe il coraggio di pronunciarsi non è stato solo un eroe, ma anche vestale che ha salvato la dignità del Paese. Sono sempre minoranze all’inizio, élite, figure solitarie, ci vuole tempo perché la loro testimonianza diventi communis opinio, pensiero condiviso.
Oggi stiamo assistendo a qualcosa di analogo. Anche se capisco l’allergia in automatico ogni volta che si evoca il Ventennio, l’analogia è proprio nel silenzio degli innocenti, il mutismo di fronte al bullismo e alle spacconate, la timidezza da struzzi, l’attesa che passi la nuttata sperando che ci pensi qualcun altro. Lo spread, i mercati ( buoni quelli!), l’Europa o il ritorno vendicatore dei magistrati. Intanto il web, con la sua fama di randellatore implacabile, sembra una polizia capace d’intercettare perfino i nostri pensieri, fa più paura della Stasi o della tropa de elite brasiliana, gli squadroni della morte che vengono a cercarti a casa.
In realtà, niente è più facilmente manipolabile della Rete. Non ci sono masse rivoluzionarie in fermento, manipoli organizzati, armi nel sottoscala, ma piccoli centri, uffici, postazioni, persone singole. Anche molti interessi economici in ballo, parliamoci chiaro, dentro e fuori i confini della penisola. A cercare in quella direzione verranno fuori sorprese interessanti. Una formazione politica moderna, visto che non lo fanno le autorità, dovrebbe attrezzarsi anche con una sua intelligence a contrastare attacchi e provocazioni (anziché accontentarsi del cinguettio quotidiano del capo di turno, pago del consenso entrobordo).
Massimo Cacciari, e prima di lui Roberto Saviano, hanno gettato il sasso nello stagno. Impossibile non rispondere, impossibile non essere solidali.

Repubblica 8.8.18
Dopo l’appello di Cacciari parola ai lettori


L’appello di Massimo Cacciari e di altri intellettuali e scrittori per mettere in campo un fronte che, in vista delle elezioni europee del 2019, contrasti le istanze sovraniste, è stato pubblicato su la Repubblica venerdì 3 agosto. Il documento, commentato e rilanciato da numerose personalità della politica e della cultura, ha stimolato la reazione di molti nostri lettori. La proposta di creare un fronte antisovranista deve trovare realizzazione avendo presente che la tradizionale forma di partecipazione politica, il partito, si dimostra oggi inadeguata. Dire " fronte antisovranista" significa innanzitutto affermare con forza e coerenza di comportamenti che la via della costruzione europea non ha alternative. Ma bisogna dare a questo obiettivo contenuti immediati che affrontino i problemi vitali che stanno travolgendo milioni di italiani. Per far questo occorre costruire una nuova sinistra di governo aperta ad alleanze con forze che convergano sull’obiettivo di ricostruire un’indispensabile coesione sociale che si è spappolata. Quindi lavoro di intellettuali e lavoro di persone che vogliano spendersi nella politica per sfuggire ai pericoli che abbiamo di fronte a causa dell’alleanza di una forza dominata dal pauperismo e di una forza chiaramente animata da obiettivi che richiamano il fascismo.
— Franco Tegoni — Parma
Sono una vostra lettrice. Tra i vari appelli che sottolineano l’urgenza di intervenire contro l’ondata populista, sovranista nel nostro Paese, quello di Massimo Cacciari mi è parso il più efficace. Tra le varie personalità a cui chiedere un contributo suggerisco Fabrizio Barca. Dove è finito Barca? Fate presto, vi prego. Ho paura che sia già tardi.
— Grazia P.
Ringrazio Massimo Cacciari per il suo appello e lo prego di rinnovarlo mensilmente per tutta la campagna elettorale già in corso. Voteremo tra meno di dieci mesi: le previsioni fanno capire che saranno già chiari i danni economici e finanziari destinati a ricadere sulle spalle ( e nelle tasche) di tutti, compresi i troppi che hanno seguito " le voci" reclamanti " onestà, onestà". Non è difficile immaginare che i governanti diranno che la colpa è tutta dell’Europa. La dichiarata ( da anni) avversione per la libertà di informazione non illuda: dovremo difenderla noi cittadini. Ancora una volta con la schiena dritta.
— Giancarla Codrignani
Purtroppo temo che il benemerito appello di Massimo Cacciari sia insufficiente perché manca oggi in Italia un’aggregazione di opinioni e di forze strutturata che possa assumersi la leadership di un forte movimento di contrasto e di azioni: ovvero quello che fino a qualche decennio fa si chiamava " partito". Sotto questo aspetto, l’Italia è diventato un deserto, e non vedo nessuna fortezza Bastiani a presidiarla e nessun tenente Drogo pronto a combattere i " tartari". Gli anni del renzismo, con la pressoché unanime e acritica adesione di tutto il gruppo dirigente del Pd, hanno lasciato l’Italia in un vuoto ideologico e di democrazia di cui non si vede, per ora, una via uscita. Dunque ben venga l’appello, al quale aderisco molto volentieri e auguro il successo che merita, magari risvegliando le coscienze di tanti intellettuali per indurli a far sentire la loro voce forse, oggi, troppo timorosa.
— Giorgio Castriota

il manifesto 8.8.18
Neoliberismo e sovranismo vanno a braccetto
di Guido Viale


Il “sovranismo”, l’idea di poter contare restituendo agli Stati i poteri ceduti alla finanza, è la versione odierna del nazionalismo, che scivola verso il razzismo (“prima gli italiani”) ed è pienamente compatibile con la globalizzazione del grande capitale.
L’idea di una loro incompatibilità nasce probabilmente da un uso improprio del termine “neoliberismo” che lascia intendere che il sistema economico e sociale in cui siamo immersi sia regolato dal “mercato”, dal “libero gioco” della domanda e dell’offerta. Invece è governato da una lotta feroce per appropriarsi delle risorse della Terra: una competizione in cui il sostegno degli Stati è essenziale, sia quando la posta in gioco sono le risorse materiali di un territorio – minerali, prodotti agricoli, terre, acqua – sia quando questa riguarda servizi pubblici, pensioni, quote di salario o introiti delle tasse estratti mettendo all’opera i meccanismi del debito pubblico. Per questo Salvini e Trump, Orbán e Putin piacciono sia alla grande finanza, che non si fa certo spaventare da misure che contraddicono il credo liberista ufficiale, sia ai loro elettori, che vorrebbero fare piazza pulita di poteri così lontani e anonimi. D’altronde premier come Merkel o Macron praticano le stesse politiche nazionaliste (e sempre più anche razziste) senza però poterlo rivendicare; e per questo cedono i loro elettori alle destre colpo dietro colpo.
Sovranismo, nazionalismo e razzismo sono invece in netta contraddizione con il programma ecologista che i 5Stelle hanno in parte ricavato da una loro partecipazione diretta ad alcuni movimenti, in parte ripreso di peso da elaborazioni altrui, senza disporre di basi culturali e di una coesione sufficientemente solide per gestirlo e sostenerlo. Per questo sono in continua contraddizione con se stessi, cosa che non può che produrre quel logoramento che li sta portando in bocca a Salvini. Se il loro ruolo principale è stato, nell’immediato, quello di riportare al governo la Lega in versione salviniana, sul lungo (e nemmeno tanto lungo) periodo, sarà quello di traghettatori verso l’estrema destra di un elettorato già di sinistra, ma ormai impregnato di quegli umori contigui al razzismo ben rappresentati dalla guerra ai migranti aperta dall’ex ministro Minniti. Per capire la contraddittorietà e la debolezza della politica dei 5Stelle basta ricordare uno dei primi atti della sindaca Raggi: cacciare dalla sede che occupava da una decina di anni, insieme a molte altre associazioni popolari, in nome della “legalità”, cioè del diritto di proprietà, il Forum nazionale acqua pubblica: l’organizzazione che con il referendum del 2011 aveva maggiormente contribuito al loro successo. A cui poi sono seguiti, a decine, e sempre in nome della “sacrosanta” proprietà, altri sgomberi di occupazioni “illegali”: cinema, poli artistici, palestre, abitazioni, centri sociali, fino alla minaccia di cacciare le donne dalla casa delle donne. I 5Stelle si sono così dimostrati nemici della socialità e delle sue istituzioni costruite dal basso: il loro ideale è l’individuo solo davanti al computer: la quintessenza del pensiero unico per cui “non esiste la società, esistono solo gli individui” e, aggiungeva la Thatcher, “le loro famiglie”; con moglie e figli ridotti ad appendice dell’elettore “sovrano”.
Se però volgiamo lo sguardo al di là del perimetro governativo – e, per quanto riguarda il resto del mondo, di quello sovranista – il panorama non cambia molto: nessuna delle grandi “forze politiche” sembra disposta o capace di liberarsi da quel feticcio del pensiero unico, o “neoliberismo”, che è il PIL come indicatore del successo di una politica; anche se ormai è appurato che raramente o mai a un aumento del Pil corrisponde un maggior benessere per la popolazione. Il Pil, in Italia come in Grecia e in tutto il mondo, ha ormai un solo significato: indica la capacità di pagare regolarmente gli interessi sul debito pubblico, su cui la finanza internazionale ingrassa; non certo la capacità di rimborsare quel debito, che è irredimibile, ma serve a tenere incatenata la politica dei governi agli interessi di chi lo detiene; a costringere gli Stati indebitati a svendere tutto ciò che è pubblico, come è regolarmente successo alla Grecia e come si aspetta di poter fare anche in Italia con quel poco che non è ancora stato privatizzato.
Tutte queste politiche, sia sovraniste che europeiste, o globaliste, hanno un denominatore comune: privatizzare a man bassa in nome della superiorità del mercato, cioè del profitto, rispetto al controllo democratico di ciò che è pubblico e dovrebbe essere comune. Ma dietro le dispute sui punti e i decimali di punto del Pil c’è un’omissione gigantesca e tragica, che spiega anche l’incapacità dei governi centristi di venire a capo del problema dei migranti: di avere cioè una politica che permetta loro di non venir risucchiati dalle forze sovraniste e razziste. Quell’omissione, frutto della incapacità di confrontarsi con giganteschi interessi costituiti, è l’urgenza dei cambiamenti climatici in corso, che saranno irreversibili nel giro di pochi decenni, trasformando l’intero pianeta, e non più solo le terre da cui partono i migranti di oggi, in un inferno invivibile per tutto il genere umano. Mentre affrontando invece in modo deciso, sistematico e articolato quella che è l’unica vera emergenza del nostro tempo, o la principale, perché anche il rischio atomico non è da meno, sarebbe possibile creare lavoro utile, sensato, sottoposto a un indispensabile controllo delle comunità locali – da ricondurre poco a poco ad attività liberamente scelte – per tutti: giovani, disoccupati europei e migranti, trasformandoli da peso in risorsa; e preparando così anche le condizioni di un loro ritorno, volontario e non forzato, nei paesi provenienza, per contribuire a rigenerare terre e comunità di origine. L’unica vera globalizzazione non può essere che questa. Si dice che a Bisanzio, sotto assedio da parte delle armate turche, i maggiorenti, invece di difendere la città, fossero impegnati in una disputa per stabilire il sesso degli angeli. Così Bisanzio fu presa e la sua popolazione, maggiorenti compresi, trucidata. A chi guarda il mondo nell’unica prospettiva sensata del nostro tempo, quelle sui punti e i decimali di punto di Pil non possono che apparire dispute sul sesso degli angeli. Solo che ora alle porte non ci sono le armate turche, ma una catastrofe che incombe su tutta l’umanità.

Repubblica 8.8.18
Sovranismo di genere
Da Trump a Salvini
Tutti maschi, solo maschi il nuovo potere si vendica delle donne
di Michele Serra


Maschi di razza bianca tra i venti e i quaranta – l’età della guerra – quasi tutti con i capelli cortissimi, giubbotti di pelle, felpe nere e occhiali neri, l’atteggiamento muscolare/marziale di chi presidia un territorio per allontanare un pericolo, respingere un nemico. Sono gli attivisti argentini di Pro Vida che manifestano contro la legalizzazione dell’aborto (foto pubblicata ieri su questo giornale), fronteggiando, falange di uomini, un corteo di donne. Ma per capire dove siamo, e di quale gruppo umano si tratta, ci vuole la didascalia.
Perché potrebbero benissimo essere, al primo sguardo, manifestanti polacchi o ungheresi o austriaci in supporto ai loro governi nazionalisti, o ultras di una delle tante curve di destra che, con poche eccezioni, governano negli stadi europei. Si tratta di un’antropologia piuttosto uniforme: etnicamente monocolore e maschile quasi in purezza, con sparutissime femmine a fare da supporter – mai, comunque, da leader.
A un colpo d’occhio vincolato alle tradizioni novecentesche parrebbe un’antropologia fascista, o fascistoide. In Europa abbiamo imparato a chiamarli "sovranisti", e le debite differenze storiche, territoriali, politiche, se non si vuole cadere nel luogo comune, vanno sicuramente fatte. Ma alcuni ingredienti ideologici si ritrovano ovunque, tra i supporter di Trump come tra quelli di Putin, di Orban, di Salvini. Il mito del Popolo come entità innocente corrotta dalle élite borghesi, la Nazione come fonte di purezza contaminata dal cosmopolitismo, la religione cristiana intesa come omaggio alle tradizioni, non certo come impegno solidaristico, una sempre meno malcelata omofobia, un diffuso antisemitismo, un vigoroso, quasi festoso antifemminismo, come se qualcuno avesse finalmente levato il coperchio al pentolone ribollente della frustrazione maschile.
Questo ultimo aspetto – il revanscismo maschile – è esplicito nel caso di Pro Vida e di tutti i movimenti analoghi, per i quali l’autonomia del corpo femminile è un attentato non "alla vita" – come dice una propaganda che di fronte all’aborto clandestino non ha mai fatto una piega - ma all’ordine patriarcale. Ma sarebbe il caso di considerarlo più estesamente, più attentamente, come una delle componenti fondamentali della grande revanche della destra politica (comunque la si voglia chiamare) in tutto l’Occidente.
È certamente lecito domandarsi quanto un’onda reazionaria di queste dimensioni attinga dagli errori delle democrazie, e/o dalla rigidità dogmatica di certi sbocchi del politicamente corretto: basti
pensare alla scia non sempre limpida del movimento #MeeToo e allo zelo persecutorio contro molestie sessuali forse non così efferate da meritare la riesumazione venti o anche trent’anni dopo. Ma le dimensioni e la compattezza del neo maschilismo di destra sono tali da far capire che non possono essere, a nutrirlo, i codicilli e le fumisterie di quell’imponente corpus di libertà e giustizia che è il processo di autodeterminazione delle donne. C’è, evidentemente, qualcosa di molto più profondo e molto più sostanziale, a provocare tutte queste adunate di maschi in posa da maschi: e questo qualcosa è l’autodeterminazione delle donne in sé, della quale l’interruzione di gravidanza è una delle pagine più complicate e più inevitabili, con la legalizzazione a fare da discrimine secco tra un prima di sottomissione e un dopo nel quale le scelte della femmina contano, scandalosamente, tanto quanto quelle del maschio.
Se vale l’ipotesi che siano l’insicurezza del maschio e la sua disperata voglia di rivincita, uno dei motori delle nuove destre in marcia, allora andrebbe percentualmente ridimensionata l’influenza che la crisi economica ha sull’aggressività montante da un lato; e sulla crisi della democrazia dall’altro. È un’influenza oggettiva, quella della crisi economica, e di grande rilievo: ma se ne parla sempre come dell’unica benzina che alimenta il motore delle destre nazionaliste, insieme all’additivo, potente, della paura dello straniero. Molto meno si parla del brusco processo di respingimento, sia esso cosciente o istintivo, che le donne subiscono all’interno degli assetti del nuovo potere. Del trionfo di quella quintessenza del maschio alfa che sono i nuovi leader populisti, i Trump, i Putin, gli Erdogan, giù giù fino a Orban e Salvini; della pallida presenza femminile (anche a sinistra...) negli ultimi scorci – così decisivi – della politica italiana; degli undici maschi su undici nello staff social di Matteo Salvini; della presenza marginale, e quasi mai menzionata, delle donne nel nuovo agone mediatico, che sembra costruito a misura di maschio a partire dalla vocazione all’insulto, alla sopraffazione, alla prova di forza che soppianta ogni dialettica e ogni riflessione. Di più "maschile", nel novero dei paesaggi sociali e dei passaggi storici, rimane solamente la guerra: alla quale, per linguaggio, per atteggiamento, perfino per abbigliamento, sembrano in qualche modo predisporsi i manipoli di giovani maschi già bene addestrati, in lunghi decenni di imbelle assenza dei governi (questo sì, un errore fatale della democrazia), nelle curve degli stadi di tutta Europa. E adesso molto visibili anche nelle piazze.

Repubblica 8.8.18
Per L’europa dei diritti
Le libertà fondamentali sono universali
di Nadia Urbinati


Nominare i diritti non basta a rendere una politica coerente con i diritti. Ce lo dobbiamo ricordare quando il ministro dell’Interno, Matteo Salvini, propone di distribuire i diritti secondo la sua concezione di persona e di relazioni interpersonali. Quando vuole, nel nome dei diritti, promuovere la sua visione di "italiani", di "cittadini" e di "famiglia". Come se non avessimo una Costituzione. Come se non avessimo sottoscritto convenzioni internazionali ed europee sui diritti, i quali, dalla fine dei totalitarismi, non sono più SOLO dei connazionali o di una parte della popolazione. I diritti non sono proprietà di nessuno, nemmeno ( o soprattutto) della maggioranza.
Il rovesciamento proposto dal ministro dell’Interno stravolge i diritti facendone strumenti di discriminazione e di esclusione. Non è questa la loro natura. E soprattutto, non è questa l’Italia (e l’Europa) nella quale la nostra cultura etico- politica è radicata, come Massimo Cacciari e altri intellettuali hanno scritto nell’appello- manifesto che hanno lanciato dalle pagine di questo giornale.
L’Italia repubblicana non nacque né autarchica né nazionalista. Con la firma del Trattato di Pace di Parigi (10 febbraio 1947), il governo italiano si impegnava a sostenere alcuni dei diritti alla cui formulazione l’Assemblea costituente stava lavorando da diversi mesi. La Costituzione ha dato all’Italia un legittimo passaporto a partecipare a pieno titolo alla comunità internazionale, che nel Dopoguerra, con l’istituzione delle Nazioni unite e poi con l’inizio dei trattati che avrebbero dato il via all’Unione europea, si apprestava a trasformare radicalmente sia il vecchio ordine internazionale (fondato su Stati sovrani assoluti) sia quello più recente (nazionalista e totalitario) che aveva affossato la «Società delle nazioni» e attuato politiche imperiali, in Europa e fuori.
Ricordiamo a chi lo ha dimenticato o non l’ha mai saputo che la nostra Costituzione — quella di " noi italiani" — ha radici in un contesto internazionale che non è nazional- sovranista. Ha le sue fonti normative in un ordine internazionale di diritti umani. A queste condizioni, l’Italia repubblicana ha potuto essere fra gli Stati fondatori del Consiglio d’Europa, fra i firmatari della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, e fra i destinatari originari dell’attività giurisdizionale della Corte europea per i diritti dell’uomo, nonché fra gli Stati membri fondatori di quella che poi diventò l’Unione europea.
Il sistema europeo di protezione dei diritti fondamentali non è un privilegio degli europei certificati. La Seconda guerra mondiale ha chiuso il capitolo tristissimo dei "diritti di qualcuno" e ha aperto la strada a una visione universalista, che ha radici sia illuministe sia cristiane. Non relativista, come lo è invece il sovranismo, che assegna i diritti in base a una predefinita appartenenza comunitaria. Questo è il progetto che chi governa a Varsavia, a Budapest, a Vienna e a Roma vorrebbe rilanciare. Un progetto che si appella alla cultura cristiana, ma recintata dentro i confini degli Stati, per cristiani selezionati.
L’Europa dei nazionalismi è stata purtroppo un capitolo della storia politica del vecchio continente, come l’altra Europa, quella che ha dato vita a una rete sovrannazionale di diritti. Anche oggi, due Europe si contendono la vita pubblica e civile del continente. L’una ha in passato prodotto campi di battaglia e di sterminio; oggi, rinasce servendosi dell’arma dei confini europei, per respingere chi viene da " fuori" o per discriminare chi vive tra noi come extra- comunitario. L’altra ha avuto la lungimiranza di creare le condizioni di un mondo libero e aperto; oggi, è accusata di essere relativista, come se universalisti fossero i fanatici del "noi prima e soprattutto". Ci troviamo come in un mondo rovesciato. Contro il quale si impone una scelta di campo netta.

il manifesto 8.8.18
Razzismo, contagio in redazione
di Norma Rangeri


Eppure una strage è una strage. Che non possiamo derubricare a dato statistico, perché mette in evidenza le condizioni di lavoro e di vita di decine di migliaia di persone. I problemi dei braccianti e del caporalato si conoscono da troppo tempo, esiste perfino una legge, mai applicata. Siamo curiosi di vedere cosa farà l’attuale governo per contrastare una piaga che dovrebbe farci vergognare davanti al mondo intero.
Ma nel frattempo, nelle redazioni dei giornali, dei Tg, dei siti internet dovrebbero interrogarsi, ponendosi una semplice domanda: «Stiamo diventando razzisti e neppure ce ne rendiamo conto?»
Qualcuno vedendo la nostra prima pagina di ieri avrà pensato, ecco il solito manifesto terzomondista che dà maggior risalto all’incidente di Foggia. Solo che quello che è accaduto a Foggia non poteva e non doveva essere raccontato dai media come un fatto qualsiasi. Perché non è stato un semplice incidente – seppure spettacolare e con un morto come quello avvenuto sulla A1 di Bologna- ma una autentica strage: 12 morti. Che vanno ad aggiungersi ai quattro migranti morti nei giorni passati. Uniti dalla stessa fine, erano tutti braccianti, e tutti africani. E così sono stati trattati dai siti per tutta la giornata e da larga parte dei quotidiani del giorno dopo.
Alcune testate, qualcuna scontata altre inaspettate, hanno giudicato la notizia neppure degna della prima pagina.
Domando: cosa sta succedendo a questo paese e al nostro giornalismo se si arriva al punto di non riuscire a valutare le notizie? Perché se noi sopravalutiamo, altri minimizzano, nascondono, censurano, sorvolano. Perciò domando ancora: se invece di 12 uomini, di pelle nera fossero stati dodici ragazzi italiani di pelle bianca, l’incidente sarebbe stato considerato una strage o no? Possiamo scommettere che tutti i media – compresi quotidiani razzisti e fascistoidi – avrebbero messo la notizia di apertura, accompagnata da commenti indignati.
La realtà è che il liquame razzista venuto a galla con l’exploit della Lega, sta diventando un’onda che tocca e coinvolge tutti. Compresi quelli che dovrebbero essere considerati democratici e progressisti. E’ come una malattia che sta contagiando buona parte dell’opinione pubblica e in particolare contribuisce a plasmarla. Nei quotidiani si conferma la regola del mercato. Detto che quello delle edicole è in pesante flessione, essere dalla parte degli immigrati fa vendere di meno, non è gradito dall’elettore-lettore?
Di questi tempi di sovranismo crescente e sempre più aggressivo, non porta consensi. Anzi, il contrario. Altrimenti il gradimento e la popolarità di papa Bergoglio non sarebbe passata da un 88 per cento di consensi tra la popolazione a un 71 per cento e proprio a causa – hanno spiegato i ricercatori – delle sue posizioni sui migranti. Tra l’altro molto alta nella decrescita dai consensi, la percentuale dei giovani. Se persino la popolarità del pontefice è fortemente intaccata dalla cultura del «prima gli italiani» viene da pensare che il timore della impopolarità per chi punta su questi argomenti ha una sua ragion d’essere.
Focalizzare l’attenzione sull’immigrazione non fa aumentare le vendite – i migranti, pagati pochi euro per spaccarsi la schiena a raccogliere pomodori non leggono i giornali. E così il razzismo mediatico si insinua anche in redazione. La paura del nero non solo è contagiosa, ma condiziona le scelte di tutti.

Repubblica 8.8.18
Il business dello sfruttamento
Quel no delle aziende ai soldi pubblici per non rompere con il sistema dei pulmini
di Giuliano Foschini


FOGGIA Era rimasto poco in quel cimitero di lamiere. Ma le mani si vedevano perfettamente. Le mani di tutti quei dodici ragazzi: erano ancora sporche di terra. Questa è la casa di Di Vittorio, i nostri genitori, i nostri nonni, hanno avuto le mani sporche di terra almeno una volta nella vita». Il procuratore di Foggia, Ludovico Vaccaro, fa una pausa nel racconto. Ed è bene cominciare da qui, dai dodici ragazzi morti in un pulmino che ne poteva contenere al massimo cinque, forse sette. Come tanti ne poteva portare il bus dove altri quattro braccianti sono morti, sabato 4 agosto. Non sono migranti. Sono lavoratori. Non sono numeri. Sono persone.
Dunque hanno nomi, cognomi, storie. Si chiamano (sette sono gli identificati fino a questo momento): Lhassam Goulataine, marocchino. Bafode Camarra, Guinea. Romanius Mbeke, Nigeria. Erik Kwaterg, Ghana.
Khadim Khoule, Senegal. Moussa Moure, Mali. Ebere Ujunna, Nigeria.
Sono morti in un incidente stradale. Ma non sono morti per caso. La loro morte era prevista da una legge italiana.
Specificatamente dall’articolo 8, comma 4 ter della legge sul caporalato che recita: «Le sezioni territoriali promuovono la realizzazione di funzionali ed efficienti forme di organizzazione del trasporto dei lavoratori fino al luogo di lavoro». La norma non è però mai stata applicata, nonostante qualche vano tentativo. La regione Puglia, per esempio, il 27 luglio del 2016 ha firmato un protocollo per permettere a questi ragazzi di viaggiare in maniera decente, senza essere strozzati dai caporali e rischiare la vita a ogni chilometro. Sul tavolo c’era un milione e mezzo di euro ma le associazioni dei datori di lavoro non hanno mai indicato i luoghi di raccolta dove prelevare i braccianti. Risultato: il caporale continua a guidare il pulmino e dunque il sistema, il milione e mezzo non è stato speso, i ragazzi crepano.
Magdalena Jarczak allarga le braccia: «Da quel pulmino bianco da sei posti sono appena scese 25 persone» dice, facendo riferimento a un van con il portellone che si chiude con il filo di ferro. Magdalena, polacca di origine, foggiana di adozione, era una di loro: è arrivata inseguendo un annuncio per un lavoro in Italia, è finita in un casolare per tre mesi, lavorando 12 ore al giorno, senza guadagnare un euro. È scappata prima di finire per strada o nel nulla ed è passata dall’altra parte. Ora, per la Cgil, è la rappresentante degli agricoltori.
È lei a spiegare che le storie di Romanius, Erik, Khadim sono le stesse di quei diecimila circa lavoratori che oggi vivono qui attorno, tra Foggia e Lesina, San Severo e Apricena.
Primo punto: hanno i documenti.
Sono regolari. E quasi sempre — come gli ultimi morti — hanno contratti con le aziende. «In questa maniera — ci spiega Moussa, maliano, che carica casse di pomodori non lontano da Lesina — se arriva un controllo siamo tutti in regola». Però: in busta paga vengono poi conteggiate molte meno giornate di quelle effettivamente lavorate, la metà circa. In modo tale che la paga prevista, da sette euro all’ora per sei ore e mezzo al giorno di lavoro diventano gli effettivi 3-3,50 euro all’ora che le aziende pagano per le otto ore lavorate. Nelle loro tasche arriva però di meno. Il caporale trattiene una percentuale sul lavorato (dai 5 ai 10 euro) e una per il trasporto (5 euro). A questo va aggiungersi il costo dell’alloggio, circa 50 euro al mese. C’è il gran ghetto di Rignano, che oggi — nonostante gli sgomberi e gli incendi — ospita comunque non meno di mille persone. E quasi tremila sono alla pista della vecchia aerostazione di Borgo Mezzanone, accanto al Cara. Significa che i caporali caricano e scaricano lavoratori accanto agli uomini dell’esercito. D’altronde il ghetto è un luogo di sospensione di ogni diritto: ci sono parrucchieri, night club, supermercati, tutto abusivo.
I ghetti resistono perché così vogliono i caporali: «Chi va nei dormitori pubblici non lavora» ammette una delle mediatrici culturali. Le squadre vengono organizzate sul posto oppure, novità dell’ultima stagione, attraverso gruppi WhatsApp.
Nelle campagne non c’è un italiano. Eppure le liste della disoccupazione dell’Inps sono piene soltanto di italiani, non c’è nemmeno uno straniero. «Cosa significa?» spiega un ufficiale della Guardia di Finanza. «Che i migranti lavorano a nero. E gli italiani percepiscono grazie al lavoro degli stranieri l’indennità di disoccupazione dall’Inps». Al bar di Borgo Mezzanone c’è una foto di Mussolini, in fondo alla stanza. «Noi siamo invasi: pure il prete è nero» spiegava un mite ragioniere pensionato delle Poste. Alle 18 a Ripalta, sotto Lesina, c’è ancora un sole che spacca le pietre. I ragazzi del pulmino vivevano qui. In queste baracche. È rimasto Soulleymane, tutto sporco di terra, la faccia e le mani: Chiede: «Non tornano più vero?».
I caporali lucrano su reclutamento, trasporto e alloggio.
E gli agricoltori hanno a disposizione manodopera a basso costo

Repubblica 8.8.18
La strage dei braccianti
Lo sfruttamento e noi, complici inconsapevoli
di Carlo Petrini


C’è voluta questa vergognosa doppia tragedia in Puglia per riportare l’attenzione su quello che è un fenomeno ancora estremamente radicato nelle nostre campagne: lo sfruttamento della manodopera bracciantile. Una ferita figlia di un sistema distorto di cui, purtroppo, anche noi cittadini siamo complici, spesso inconsapevolmente. Immagino sia capitato a tutti di trovare "volantini" di ipermercati, supermercati e discount che pubblicizzano prodotti sottocosto, sconti imperdibili e altre meraviglie. A leggere determinati prezzi si rimane a bocca aperta, ma cosa c’è dietro tutto questo?
Un articolo di Stefano Liberti su Internazionale ha acceso i riflettori sul meccanismo delle aste a doppio ribasso, una pratica di acquisto ampiamente diffusa tra gli operatori della grande distribuzione organizzata (GDO) che mette in difficoltà, con un effetto domino, l’intera filiera agroalimentare. Attraverso due aste consecutive, i fornitori sono forzati a fissare prezzi sottocosto per i loro prodotti al solo scopo di "restare nel giro" e di non perdere il posizionamento in scaffale. Un meccanismo che ovviamente poi obbliga questi stessi fornitori a rifarsi sui produttori, e quest’ultimi sui lavoratori salariati, in un circolo vizioso che puzza dalla testa e che spesso si traduce in fenomeni come quello del caporalato e dello sfruttamento nei campi.
Dalla GDO il solito mantra sull’impotenza di fronte alla «cattiveria del mercato a cui purtroppo bisogna adeguarsi». In sintesi il mercato, che non si capisce da chi dovrebbe essere guidato e che ci viene narrato come disinteressato e imparziale, è il sovrano che detta un’unica legge: essere debole coi forti e forte coi deboli. La ragione alla base di tutto questo è chiara: il cibo è diventato pura commodity soggetta a una spregiudicata economia di scala che ha come fine ultimo solo e unicamente l’abbattimento dei prezzi. «Lo vuole il consumatore!», si dice. E allora la filiera del pomodoro non è l’unica a essere interessata dal fenomeno, ma si potrebbe parlare di quella del latte, dell’olio e persino del vino o di alcuni formaggi, inclusi eccellenze come il Parmigiano Reggiano. Il problema è che dietro a un barattolo di passata o di pelati a 0,80 euro al litro c’è un sistema produttivo che non può stare in piedi e che soprattutto non può dare qualità, né alimentare né sociale.
A perderci sono sia i consumatori che i produttori. I primi perché, dietro l’illusione della convenienza, si vedono propinati prodotti che o non hanno standard qualitativi alti o nascondono situazioni umane non tollerabili o entrambe. I secondi perché sono schiacciati da un meccanismo perverso che li impoverisce e li pone in costante competizione al ribasso alimentando una guerra tra poveri. Senza dimenticare i danni agli ecosistemi che un’agricoltura totalmente improntata all’abbattimento dei costi provoca. Per questo serve una nuova visione da parte dei cittadini, non possiamo più accettare di essere abbindolati da prezzi che sono bassi solo nominalmente perché generano danno (e costi nascosti) al sistema economico e sociale. Dobbiamo richiedere prezzi giusti a fronte di una buona qualità, dobbiamo provare a incidere su filiere che penalizzano gli ultimi e l’ambiente.
Tenendo ben presente, poi, che anche le politiche agricole sono decisive per delineare il sistema che vogliamo. A questo proposito in Commissione europea è stata presentata una proposta di direttiva sulle pratiche commerciali sleali che mira a proteggere proprio quei piccoli che a oggi rischiano di venire schiacciati.
Se approvata, verrebbero finalmente introdotte regole più chiare per contrastare i metodi sleali come le aste al doppio ribasso e meccanismi di tutela sull’intera filiera, riducendo lo strapotere dei colossi della distribuzione. L’augurio è che i governi si facciano rapidamente carico di trasformare in realtà questa proposta.

Corriere 8.8.18
Il ministro centinaio
«Imprenditori corresponsabili della schiavitù»
di Giuseppe Alberto Falci


«Da oggi farò tutto il possibile per bloccare la piaga del caporalato. Se esiste la schiavitù la responsabilità è anche degli imprenditori». Parla Gian Marco Centinaio, ministro dell’Agricoltura, dopo la morte di 16 braccianti in Puglia.
ROMA Ministro Gian Marco Centinaio, il bilancio degli incidenti nel Foggiano è di sedici braccianti morti nel giro di 48 ore. E cosi si torna a parlare di caporalato. Qual è la sua posizione?
«Non voglio vivere in un Paese dove esiste ancora la schiavitù. Quindi da oggi farò tutto il possibile per bloccare questa piaga. Non lo dico solo da ministro, ma da cittadino».
I numeri sono impietosi: il business del lavoro irregolare e del caporalato è stimato in 4,8 miliardi di euro. I braccianti sono ostaggio di caporali per tre euro l’ora. Quali saranno le future mosse del governo?
«Questa è una partita che sta gestendo direttamente Matteo (Salvini, ndr ). Proprio in queste ore è lì per rendersi conto della situazione e per studiare le possibili soluzioni. Spero che il ministro dell’Interno intraprenda delle azioni più dure di controllo e repressione in quelle zone».
Anche lei andrà a Foggia dopo le visite del premier Conte e del ministro Salvini?
«Mi fido di Matteo. Le dico con tutta onestà che non adoro le passerelle. Ci andrò invece quando ci sarà meno attenzione mediatica».
Il procuratore della Repubblica Ludovico Vaccaro afferma: «Per i braccianti non c’era posto in ospedale».
«È tutta una filiera: dalla dignità nella salute alla dignità nel posto di lavoro, nei mezzi di trasporto. Lì non c’è lo Stato e non c’è la legalità. E non c’è quest’ultima anche nel momento in cui faccio lavorare persone che sono irregolari nel nostro Paese».
Ce l’ha con i migranti?
«Noi non abbiamo bisogno di schiavi».
Il vicepremier Luigi Di Maio invoca un concorso per gli ispettori del lavoro. Può essere una soluzione?
«Sono dell’idea che sia fondamentale tutto quello che serve per fare maggiori controlli. Se si mettono più forze di polizia, più ispettori e si applica la legge, io sono un ministro felice. Sia per la dignità dei lavoratori sia per l’immagine che il nostro Paese dà all’estero. Le faccio un esempio».
Prego.
«In Australia una nota marca fa una campagna mediatica contro i prodotti italiani perché utilizzano gli schiavi per la raccolta dei pomodori».
Qualche mese fa Salvini aveva criticato la legge sul caporalato con queste parole: «Invece di semplificare, complica». Si trova d’accordo?
«Noi non l’abbiamo votata perché ci sembrava il classico spottone del governo. Ci dava quell’impressione. Vorrei adesso capire se questa legge consente alle aziende di operare contro il caporalato».
Quali sono i punti deboli della legge?
«Non ne trovo. Ed è per questo che voglio confrontarmi con chi la legge la subisce sulla propria pelle. In sintesi direi che c’è poca applicazione da parte delle aziende e poca iniziativa nel farla rispettare».
Quindi la colpa è anche degli imprenditori?
«Secondo me hanno una responsabilità. Nel Foggiano, ad esempio, su 31 mila aziende solo 7 mila aderiscono al Rea, che è il registro delle aziende agricole che hanno sottoscritto la legge sul caporalato. Perché tutte le altre non lo fanno? Perché la legge non va bene? Perché si servono del caporalato?».
È un fenomeno che riguarda solo il Sud o anche il Nord?
«Sta arrivando anche al Centronord. Ma la ricetta è una soltanto: più Stato».

il manifesto 8.8.18
Strage di braccianti, l’inchiesta punta sui caporali
La raccolta degli schiavi. Il procuratore di Foggia: «Sono dovuto intervenire personalmente anche per trovare un posto in ospedale per i migranti feriti»
di Gianmario Leone


FOGGIA Al dramma dei sedici braccianti agricoli di origine africana morti nelle ultime 48 ore in provincia di Foggia in due distinti incidenti stradali, si aggiungono nel corso delle ore dettagli raccapriccianti. Come quello raccontato dal procuratore della Repubblica di Foggia, che ieri ha dichiarato come «questa povera gente ha avuto problemi anche per trovare posto in ospedale. Sono dovuto intervenire personalmente per far sì che venissero trovati posti sia a Foggia che in altri ospedali della provincia», ha detto sconfortato il procuratore Ludovico Vaccaro. «Io credo – ha aggiunto – che ci sia bisogno di interventi straordinari per risolvere una situazione divenuta oramai tragica, insostenibile. Non è possibile assistere ad uno scempio del genere, sulla pelle di povere persone che vengono qui con la speranza di poter migliorare le loro condizioni di vita».
Per far luce su tutti gli aspetti che gravitano intorno alle due stragi, la procura della Repubblica di Foggia ha aperto un’inchiesta sul caporalato: al momento al vaglio degli investigatori c’è la priorità di verificare se fossero nelle mani dei caporali i sedici braccianti agricoli, tutti immigrati, morti.
«Sono state avviate due distinte indagini – ha precisato Vaccaro ieri – una riguarda l’incidente stradale, per capire la dinamica e tutto ciò che può averlo causato, anche se c’è da dire che in entrambi i casi sono morti i due autisti dei pullmini sui quali erano stipati i poveri migranti».
Secondo le testimonianze raccolte subito dopo l’incidente sulla strada per Lesina, pare che il pulmino sul quale viaggiavano i migranti, registrato con targa bulgara, abbia improvvisamente invaso la corsia opposta: l’autista del tir contro cui si è schiantato il furgoncino, che ha terminato la sua corsa contro un muro di cinta, ha tentato in tutti i modi di schivare il mezzo senza riuscirci.
Per quanto riguarda invece l’incidente di sabato scorso sulla statale 105, avvenuto in prossimità di un incrocio, resta ancora da verificare se l’ipotesi che il tir che trasportava il carico di pomodori contro cui si è scontrato il furgone nel quale hanno perso la vita altri quattro braccianti, abbia effettivamente rispettato o meno il segnale di precedenza.
L’altra indagine è stata avviata invece sul reato di caporalato. «Stiamo cercando di individuare – ha aggiunto il procuratore – le aziende in cui hanno lavorato gli immigrati per verificare anche le eventuali condizioni disumane in cui lavoravano. Si stanno verificando gli orari, per vedere da che ora a che ora hanno lavorato, capire se c’è stato sfruttamento ed intermediazione».
Al momento infatti non sono stati ancora individuati i terreni, e i loro legittimi proprietari, sui quali hanno trascorso la loro ultima giornata di vita e di lavoro i migranti deceduti lunedì pomeriggio. Intanto sono state identificate alcune delle vittime dell’incidente stradale di lunedì: si tratta di migranti che avevano tutti un regolare permesso di soggiorno in Italia.
In attesa di ulteriori novità dalle indagini in corso, oggi a Foggia andrà in scena una lunga giornata di protesta, a partire dallo sciopero indetto per l’intera giornata lavorativa. I sindacati di categoria del settore agricolo e molte associazioni del terzo settore sfileranno nel pomeriggio in corteo per protestare contro la piaga del caporalato. «Basta a ogni forma di sfruttamento, di sotto salario. È il momento di abbandonare la pratica del caporalato che oramai rende i lavoratori succubi di una ‘normalità’ non più accettabile» fanno sapere i sindacati. «Quanto accaduto è la conseguenza di sfruttamento, illegalità, sotto salario, assenza di sicurezza, condizioni di lavoro e di trasporto estreme, con diverse modalità a secondo della debolezza dei lavoratori – italiani o stranieri – sono una realtà sempre più presente nell’indifferenza e acquiescenza generale».
Del resto i dati parlano chiaro: su 27mila aziende agricole a Foggia e in provincia, che assumono manodopera, solo 80 sono iscritte alla rete del lavoro agricolo di qualità, la cui cabina di regia è presso l’Inps. Migranti che vengono schiavizzati per appena 3,5 euro all’ora per 12 ore.
In mattinata invece si svolgerà la manifestazione indetta dall’Usb denominata ‘berretti rossi’, che partirà da uno dei luoghi simbolo del caporalato nella Capitanata: il gran ghetto di Rignano. Così chiamata in ricordo delle battaglie condotte decenni addietro, su quegli stessi campi, dal sindacalista della Cgil Giuseppe Di Vittorio in favore dei contadini pugliesi.

il manifesto 8.8.18
Aboubakar Soumahoro
«Venite nei campi a vedere i braccianti trattati come schiavi»
Intervista a Aboubakar Soumahoro. «Di Maio convochi le associazioni, i voucher legalizzano lo sfruttamento »
di Carlo Lania


«Venite a vedere cosa succede nei campi, così vi renderete conto di quali sono le condizioni in cui lavorano i braccianti». Quando risponde al telefono Aboubakar Soumahoro è appena uscito dall’obitorio dove si trovano le salme dei braccianti morti nell’incidente di lunedì. «Adesso vado in ospedale a trovare i feriti dell’altro incidente, quello avvenuto sabato, due dei quali sono in rianimazione», spiega il sindacalista del Coordinamento lavoratori agricoli dell’Usb. Oggi i familiari dei 16 braccianti che hanno perso la vita e i loro compagni di lavoro nei campi parteciperanno alla marcia dei «berretti rossi» che dall’ex ghetto di Rignano attraverso i campi arriverà fino alla prefettura di Foggia.
Soumahoro sedici braccianti morti in meno di 48 ore, una strage.
Per noi sono morti sul lavoro e chiediamo che siano attivate tutte le procedure e tutti gli istituti competenti perché vengano accertate le condizioni in cui queste persone lavoravano. Stiamo parlando di braccianti che stavano rientrando dal luogo di lavoro dopo essersi svegliati alle tre del mattino. I padroni delle aziende agricole dovrebbero garantire il trasporto, ma si ritrovano con norme contrattuali che allontanano la possibilità per i braccianti di vedersi riconosciuto il diritto ad avere mezzi di trasporto adeguati che li trasferiscano da casa al campo di raccolta e viceversa. Alcuni contratti provinciali prevedono che i campi si trovino entro 40 chilometri, ma è chiaro che non è sempre così. Se chiediamo maggiori controlli è perché vogliamo che vengano contrattualizzati i braccianti e fatto in modo che i contratti vengo rispettati, altrimenti sono solo carta straccia. Ci sono persone che lavorano 12 ore al giorno e si ritrovano con una paga inferiore a quanto invece gli sarebbe dovuto. Braccianti che si spaccano la schiena e vengono pagati meno di quanto previsto dal contratto provinciale oppure che in un mese lavorano venti giorni ma si ritrovano solo tre giornate dichiarate. Questo significa che non avranno i requisiti per l’indennità di disoccupazione agricola pur avendone diritto. Occorre fare attenzione ed evitare generalizzazioni utili solo a coprire le responsabilità delle aziende. Io invito tutti a venire nei campi per vedere cosa sta succedendo.
Il premier Conte è venuto a Foggia insieme al ministro degli Interni Salvini e ha promesso maggiore dignità per il lavoro dei braccianti.
Parliamo di cose concrete: non è certo reintroducendo i voucher in agricoltura che si dà dignità ai braccianti. Non a caso nello sciopero che faremo domani (oggi, ndr) questo sarà uno dei temi principali, oltre a dire basta ai morti sul lavoro e allo sfruttamento. Il decreto dignità è uno forma di legalizzazione dello sfruttamento. Quando era vice presidente della camera Di Maio definì i voucher una forma di legalizazione della schiavitù. Se lo erano ieri, lo sono oggi più che mai. Chiediamo al ministro Di Maio di rispettare l’impegno preso con noi e di convocare il tavolo ministeriale con le associazioni dei padroni, noi come lavoratori, la grande distribuzione, il ministero delle Politiche agricole e gli enti locali per creare insieme una rete sull’intera filiera.

Il Fatto 8.8.18
Accoglienza in Libia otto centri-prigione per 10mila disperati
La mappa dei lager - Violenze e condizioni disumane per i migranti ammassati in strutture fatiscenti. Alcuni non vengono registrati
Accoglienza in Libia otto centri-prigione per 10mila disperati
di Pierfrancesco Curzi


Migranti spostati da una prigione all’altra per limitare il peso del sovraffollamento, altri parcheggiati in strutture temporanee fatiscenti. Centri di detenzione aperti e poi chiusi a causa di violenze e sopraffazioni. Episodi all’ordine del giorno ormai dentro le strutture ‘ufficiali’, quelle cioè dove le organizzazioni internazionali possono entrare con dei progetti di accoglienza, assistenza e, nel caso di Oim (Organizzazione internazionale per le migrazioni) e Unhcr (Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati), di rimpatri assistiti o di corridoi umanitari. Le principali agenzie collegate all’Onu fanno il possibile, ma non basta. La loro sfera di competenza, infatti, presenta falle inaccettabili che, di fatto, contribuiscono a creare due gruppi di profughi, quelli di serie A e quelli di serie B. I primi appartengono ai Paesi che con la Libia – Stato sovrano nonostante la divisione dello spezzatino a tre entità, Tripolitania, Cirenaica e Fezzan – hanno accordi che prevedono lo status di rifugiati: “Durante gli sbarchi dei migranti, successivi ai soccorsi in mare, noi assistiamo tutti migranti, non importa di quali nazionalità siano – spiega il portavoce dell’Unhcr in Libia, Tarik Argaz – Nei centri di detenzione, tuttavia, ci è consentito di lavorare soltanto con alcuni, tra cui etiopi, eritrei, somali e sudanesi”.
Gli altri tre Paesi della lista sono Yemen, Siria e Palestina, di cui nei centri libici non c’è traccia. E il resto? Le decine di migliaia di subsahariani e nordafricani? Per loro la Libia rappresenta un limbo tra due inferni, quello del viaggio nel deserto e il successivo in mare, altrettante possibili tombe. L’Unhcr assiste i migranti, almeno quella parte di migranti, in circa venticinque strutture sparse per la Libia, alcune delle quali con numeri irrisori. In realtà i centri principali co-gestiti con le autorità locali sono otto e variano da periodo a periodo, a seconda della situazione interna e dei risultati ottenuti dalle agenzie Onu su corridoi umanitari e rimpatri assistiti. Purtroppo la bilancia pesa dalla parte opposta, ossia verso i poveri cristi arrestati a terra e quelli recuperati in mare dalle motovedette libiche regalate dall’Italia.
Per l’uomo forte di Tripoli, Fayez al-Sarraj, e i suoi funzionari del settore immigrazione, la coperta è sempre corta. I centri messi a disposizione per l’accoglienza in realtà sono dei lager chiusi dentro compound protetti da mura e filo spinato. Capannoni bui e fetidi dove vengono ammassati fino a 2mila africani, costretti in quelle condizioni per mesi e mesi: “Nessuno ci ha registrato, ogni tanto ci spostano da un posto all’altro. Chi non accetta il rimpatrio fa una brutta fine” ci hanno raccontato i migranti reclusi nei centri maggiori, Trik al-Sikka, Tajoura e Trik al-Matar. Come i maliani, circa 150, ancora stipati dentro un salone isolato nel centro di al-Judeida, sempre nel cuore di Tripoli, gestito dalla direzione di Trik al-Matar.
A inizio luglio, quando la struttura non era ancora stata allestita, li avevamo trovati lì dentro, in pessime condizioni, chiusi a chiave senza possibilità di mettere il naso fuori: “Entro fine luglio dovrebbero essere rimpatriati nel loro Paese” ci aveva detto il responsabile del centro. Ora il resto di al-Judeida è stato attivato: “Una corsa contro il tempo perché Trik al-Sikka stava esplodendo. Il capannone principale è stato sistemato, compresi i bagni, questo darà un po’ di sollievo, ma il problema generale resta, così come restano ancora lì dentro quei giovani maliani” spiegano i cooperanti della ong italiana Helpcode.
Fino a oggi i migranti reclusi nei centri libici ‘ufficiali’ sono più di diecimila, ma il numero cambia ogni giorno a seconda di arrivi e partenze. Oltre ai tre centri elencati in precedenza e a quello di al-Judeida (o al-Sabaa, tradotto significa “il settimo”), gli altri quattro aprono e chiudono con estrema facilità a causa dei problemi di sicurezza. Quello di Sabratha è stato disattivato da un paio di mesi dopo gli scontri sanguinosi tra detenuti e le accuse di violenze nei confronti dei carcerieri. Siamo ad ovest di Tripoli, il punto geografico ideale per la partenza dei barconi verso l’Europa.
Nelle vicinanze è attivo quello di Zwara, mentre dalla parte opposta della capitale ci sono gli altri, ognuno con i suoi problemi. Khoms al momento è parzialmente isolato a causa della presenza della milizia al-Kadera attiva nella vicina Misurata. Raggiungerlo per gli internazionali non è facile, se non impossibile, ma i libici possono arrivare. Infine Gharyan: ai tempi della nostra visita, a luglio, era off limits per gli stessi problemi di Sabratha, adesso è di nuovo attivo.

Repubblica 8.8.18
Fico
"Diamo ai migranti vie legali per lavorare Rai, ora un vero presidente"
intervista di Annalisa Cuzzocrea


Sui migranti Roberto Fico pensa al Canada. A uno Stato che ha al suo interno più di dieci nazionalità diverse che superano il milione di persone. Un Paese che accoglie regolando i flussi, scegliendo e integrando. Il presidente della Camera — che a settembre sarà in Egitto per chiedere verità su Giulio Regeni — difende senza esitazioni la legge Martina sul caporalato e la legge Mancino contro il razzismo. Dice un no senza sconti alla Tav e ricorda che quella con la Lega non è un’alleanza: «Restiamo ben distinti e alternativi». Nessuna possibilità di correre insieme alle europee, quindi. Sulla Rai, fa un appello alle forze parlamentari: «Serve un presidente nel pieno delle sue funzioni. E serve il prima possibile».
Sedici braccianti neri morti in pochi giorni in Puglia. Un altro ucciso due mesi fa in Calabria.
Ghetti e disumanizzazione dei migranti. Cosa deve fare la politica?
«Nella scorsa legislatura è stata approvata una legge importante.
Ho voluto esprimere la mia vicinanza ai braccianti agricoli andando a San Ferdinando dopo l’uccisione di Soumaila Sacko, portando le condoglianze di Stato.
Credo che questo sia un periodo tragico, ma che l’attenzione stia crescendo. C’è da parte del governo e delle forze politiche la consapevolezza che queste situazioni vanno affrontate in modo strutturale, perché le condizioni disumane in cui vivono queste persone non sono degne di un Paese civile».
Il 15 giugno scorso sia il vicepremier Salvini che il ministro dell’agricoltura Centinaio avevano detto di voler cambiare la legge Martina sul caporalato perché «complica invece di semplificare».
«Ho sentito le dichiarazioni di queste ore di tutto il governo, compreso Salvini, e mi sembra si vada in tutt’altra direzione. Quella legge può essere rafforzata e migliorata, ma il principio dev’essere quello di combattere lo sfruttamento».
Il presidente M5S della commissione Affari Costituzionali, Giuseppe Brescia, parla di inserire i migranti in circuiti legali attraverso vie di accesso sicure, a partire dal prossimo decreto flussi. È d’accordo?
«Certo. Le vie legali di accesso sono coerenti al cento per cento con la lotta alla tratta degli esseri umani.
Un’immigrazione controllata, sostenibile, come avviene in Canada, può portare benefici per tutti. Dove questo non avviene, dove non si integra, crescono lo scontro sociale e la paura».
L’idea del governo che rappresenta la maggioranza che l’ha eletta, però, è un’altra: finanziare la Libia perché blocchi i migranti, in terra o in mare. Senza chiedere adeguate garanzie per i diritti umani. È accettabile?
«La Libia ha un problema strutturale di diritti umani. La prima cosa che dobbiamo chiedere è che i centri che accolgono i migranti lavorino sotto l’egida delle organizzazioni internazionali. E che non ce ne siano di illegali».
Il Parlamento però ha approvato il regalo di motovedette per il controllo delle coste senza porre condizioni.
«Prima che quelle motovedette arrivino passerà del tempo. E ci sarà da lavorare, anche a livello europeo, per la stabilizzazione della Libia».
I rapporti con l’uomo forte della Cirenaica Haftar per il contrasto all’immigrazione sono stati uno dei motivi per cui l’Italia ha ripreso il dialogo con l’Egitto di Al-Sisi. Nonostante la verità su Giulio Regeni non sia arrivata. I genitori del ricercatore torturato e ucciso al Cairo devono rassegnarsi a non conoscerla mai?
«Dal primo giorno in quest’ufficio mi sono impegnato perché la ricerca della verità su Regeni diventasse un obiettivo di tutto il governo. Ho incontrato i genitori, che ringrazio per il coraggio e la forza, insieme al loro avvocato. Prima da solo, poi con il ministro degli Esteri. Moavero, nel suo faccia a faccia di pochi giorni fa con Al-Sisi, ha messo la questione Regeni al primo punto. C’è stato un incontro con il presidente del Consiglio Conte, la dichiarazione in conferenza stampa di Salvini quand’è andato in Egitto. Io stesso a settembre sarò lì, invitato dal presidente del Parlamento, in vista della riunione tra la procura di Roma, che sta facendo un lavoro straordinario, e quella del Cairo.
Non molliamo».
Il ministro Fontana ha proposto di abolire la legge Mancino contro l’ideologia nazifascista e le discriminazioni razziali. Nella maggioranza c’è chi ritiene si tratti di idee da non perseguire. Lei che ne pensa?
«Da terza carica dello Stato di una Repubblica nata sulla lotta al nazifascismo, ho già detto che quella legge va mantenuta e ampliata. Non c’è discussione su questo».
Sulla Tav, sulle grandi opere, sulla Rai, ce n’è molta.
Cominciamo dalla fine. Dal Pd è stato chiesto a lei e alla presidente del Senato Casellati di intervenire.
«La Vigilanza è un organo autonomo, la mia sarebbe un’ingerenza. Quello che penso è che la Rai debba avere subito un presidente ed essere messa in grado di lavorare per il bene dei cittadini che pagano il canone. C’è molto da fare, a partire dalla riforma delle news».
Di Maio ha detto che il cda Rai è nel pieno delle sue funzioni.
Può restare Marcello Foa da consigliere anziano?
«Servono un nuovo voto e un presidente a tutti gli effetti».
Il Movimento 5 stelle, cresciuto sulla lotta alla diseguaglianza, fa parte di un governo che vuol fare la flat tax. State tradendo i vostri principi?
«Per 90 giorni si è tentato di formare un governo politico su input del presidente della Repubblica. Dopo tanti tentativi, l’unico modo per riuscirci è stato fare non un’alleanza, ma un contratto, inserendo i temi che potevano essere avvicinati di due programmi molto diversi. E le misure qualificanti dei due partiti: la flat tax e il reddito di cittadinanza».
Non mi ha risposto: sono l’una il contrario dell’altra.
«Per esprimermi sulla flat tax devo vedere come verrà modulata dal ministro Tria. L’idea che accomuna tutto il governo è quella di politiche espansive che aumentino la capacità di reddito e facciano crescere la domanda interna».
Altro tema che vi vede all’opposto: le grandi opere.
«La Lega conosce la nostra storia, noi la loro. Siamo forze politiche ben distinte e alternative».
Non c’è la possibilità che corriate insieme alle prossime europee?
«No. Quanto alla Tav, quella contro la Torino Lione è una lotta cui ho partecipato dal 2005. C’è stato un grande lavoro con il movimento no Tav, è una battaglia che non si può dimenticare. Come l’acqua pubblica, cui ho legato la mia presidenza. La legge arriverà presto e mi auguro venga approvata con il più ampio consenso possibile».
I vitalizi sono destinati a restare una riforma a metà?
«Mi auguro che il Senato segua l’esempio della Camera, che — lo ha detto anche il Consiglio di Stato — ha scelto la strada corretta, quella di una delibera in ufficio di presidenza, come per queste materie avviene dal 1956».
Non teme ricorsi quindi?
«No, ma so che arriveranno».

Corriere 8.8.18
«L’obbligo rimane per tutti Ma la coercizione non può essere l’unico strumento»
Grillo: c’è chi strumentalizza i bimbi immunodepressi
di Monica Guerzoni


Roma Ministra Giulia Grillo, dopo lo scontro sul decreto Milleproroghe la polemica sui vaccini non si placa. È pronta alla «guerra totale» sui vaccini minacciata dal Pd?
«Nessuna guerra, tanto meno “totale”».
I presidenti delle Regioni «rosse» porteranno la difesa dell’obbligo vaccinale davanti alla Corte costituzionale. Le sue contromosse?
«Verso le Regioni ho il necessario rispetto, il dialogo e il confronto sono fondamentali su tutti i temi. Ma la proposta che sta portando avanti il coordinatore delle Regioni, Antonio Saitta, è scritta dalla stessa persona che ho individuato per guidare il tavolo tecnico per le politiche vaccinali, così come richiesto dall’Oms. Un tavolo in precedenza poco considerato, così come poca attenzione è stata dedicata ai servizi vaccinali».
Ha sbagliato il consigliere del M5S Barillari a dire che la politica viene prima della scienza?
«Barillari ha invaso un campo non suo. Noi politici possiamo mettere in piedi gli strumenti per interagire con una ricerca scientifica al di sopra delle parti, ma non possiamo metterci a fare gli scienziati. Né gli scienziati possono fare i politici. Io sono medico, ma non tuttologo».
Lei ha detto «nessun passo indietro sui vaccini». Ma se gli scolari non vaccinati saranno ammessi in classe, in che senso l’obbligo rimane?
«I bimbi non vaccinati tra i 6 e i 16 anni entravano a scuola anche a legge Lorenzin invariata. L’obbligo rimane per tutti e 10 i vaccini individuati dalla norma. Cambia la sanzione per materne e asili nido, perché riteniamo che la coercizione non possa essere l’unico strumento a disposizione di uno Stato per raggiungere le ultime sacche di contrari».
La sua strategia?
«Raggiungere le soglie del cosiddetto effetto gregge è determinante. Occorre però un monitoraggio sistematico, possibile solo con l’Anagrafe nazionale da me fortemente voluta. Questo perché le soglie sono diverse a seconda delle malattie e perché il recupero di copertura ottenuto lo scorso anno non ha intaccato le differenze territoriali».
Come impedire ai genitori no vax di falsificare le autocertificazioni?
«Applicando la legge. La circolare a firma congiunta del Ministero della Salute e del Miur del 5 luglio era e resta un procedimento di semplificazione amministrativa. Chi viola il rapporto di fiducia, viola la legge e come tale va perseguito. Inoltre il mio collega dell’Istruzione e io chiederemo alle Regioni di aumentare i controlli».
Volete scardinare il decreto Lorenzin?
«Da tempo l’Oms ha raccomandato ai Paesi membri di dotarsi di una strategia globale per contrastare la diffidenza verso le vaccinazioni. Tra le principali azioni di contrasto, il monitoraggio costante delle coperture e dei motivi delle mancate vaccinazioni e lo studio delle motivazioni alla base del comportamento dei soggetti esitanti. La frettolosa approvazione del decreto 73 ha invece, di fatto, trascurato queste raccomandazioni».
Lei da futura mamma non avrebbe timore a mandare al nido suo figlio in presenza di bambini non vaccinati?
«In realtà si tratta di un rischio molto contenuto. Nel 2018 solo il 2,8% di bambini della fascia da zero a sei anni non sono stati vaccinati per scelta dei genitori. Nello stesso periodo la percentuale di copertura del morbillo ha raggiunto il 93,8%, contro l’85,2% del 2015».
«Al primo morto di morbillo lei verrà sbranata». La tocca la fosca previsione del virologo Burioni?
«I toni di queste ore non sono degni di un Paese civile. Io sono vicina a Burioni per l’aggressione subìta. Non è degno augurare a un medico che la pensa diversamente di affogare, come non esiste prendersela con Bebe Vio che spero di incontrare a breve. Ma è anche una spiacevole strumentalizzazione sentirsi dire da un accademico che “verrò sbranata al primo morto”. Non puoi illudere la gente che non morirà nessuno. Dobbiamo essere realisti».
I dati la preoccupano?
«Da gennaio a giugno i casi di morbillo, come monitorato dall’Iss, sono stati 2029. La Sicilia ha avuto più della metà dei casi, 1066. L’età media è 25 anni, con l’incidenza maggiore nella fascia tra zero e quattro anni. I decessi sono stati quattro, tre adulti e un bambino di dieci mesi».
Le mamme di bimbi immunodepressi vi accusano di giocare sulla pelle dei figli e il loro appello punta a 75 mila firme. Per Forza Italia volete chiudere i bimbi più a rischio in classi «ghetto». Come risponde?
«È vergognosa la strumentalizzazione di alcune forze politiche. Negli anni in cui ha governato Forza Italia le percentuali di copertura per il morbillo erano al di sotto della fatidica soglia del 95%».
Come si può impedire che, a mensa o in palestra, un piccolo trapiantato venga in contatto con bambini non vaccinati?
«Nei primi sei mesi del 2018 il tasso di copertura è salito, quindi il rischio per i bimbi immunodepressi si è molto ridotto».
Il M5S è spaccato. Di Maio richiamerà all’ordine i parlamentari «ribelli»?
«Non è una spaccatura, sono sensibilità diverse su un argomento delicato. Siamo un movimento bello grosso».
Dopo i medici, protestano i presidi. Li incontrerà?
«Abbiamo già fissato un incontro. Ci confronteremo e supereremo le perplessità».«L’obbligo rimane per tutti Ma la coercizione non può essere l’unico strumento»
di Monica Guerzoni
Grillo: c’è chi strumentalizza i bimbi immunodepressi
roma Ministra Giulia Grillo, dopo lo scontro sul decreto Milleproroghe la polemica sui vaccini non si placa. È pronta alla «guerra totale» sui vaccini minacciata dal Pd?
«Nessuna guerra, tanto meno “totale”».
I presidenti delle Regioni «rosse» porteranno la difesa dell’obbligo vaccinale davanti alla Corte costituzionale. Le sue contromosse?
«Verso le Regioni ho il necessario rispetto, il dialogo e il confronto sono fondamentali su tutti i temi. Ma la proposta che sta portando avanti il coordinatore delle Regioni, Antonio Saitta, è scritta dalla stessa persona che ho individuato per guidare il tavolo tecnico per le politiche vaccinali, così come richiesto dall’Oms. Un tavolo in precedenza poco considerato, così come poca attenzione è stata dedicata ai servizi vaccinali».
Ha sbagliato il consigliere del M5S Barillari a dire che la politica viene prima della scienza?
«Barillari ha invaso un campo non suo. Noi politici possiamo mettere in piedi gli strumenti per interagire con una ricerca scientifica al di sopra delle parti, ma non possiamo metterci a fare gli scienziati. Né gli scienziati possono fare i politici. Io sono medico, ma non tuttologo».
Lei ha detto «nessun passo indietro sui vaccini». Ma se gli scolari non vaccinati saranno ammessi in classe, in che senso l’obbligo rimane?
«I bimbi non vaccinati tra i 6 e i 16 anni entravano a scuola anche a legge Lorenzin invariata. L’obbligo rimane per tutti e 10 i vaccini individuati dalla norma. Cambia la sanzione per materne e asili nido, perché riteniamo che la coercizione non possa essere l’unico strumento a disposizione di uno Stato per raggiungere le ultime sacche di contrari».
La sua strategia?
«Raggiungere le soglie del cosiddetto effetto gregge è determinante. Occorre però un monitoraggio sistematico, possibile solo con l’Anagrafe nazionale da me fortemente voluta. Questo perché le soglie sono diverse a seconda delle malattie e perché il recupero di copertura ottenuto lo scorso anno non ha intaccato le differenze territoriali».
Come impedire ai genitori no vax di falsificare le autocertificazioni?
«Applicando la legge. La circolare a firma congiunta del Ministero della Salute e del Miur del 5 luglio era e resta un procedimento di semplificazione amministrativa. Chi viola il rapporto di fiducia, viola la legge e come tale va perseguito. Inoltre il mio collega dell’Istruzione e io chiederemo alle Regioni di aumentare i controlli».
Volete scardinare il decreto Lorenzin?
«Da tempo l’Oms ha raccomandato ai Paesi membri di dotarsi di una strategia globale per contrastare la diffidenza verso le vaccinazioni. Tra le principali azioni di contrasto, il monitoraggio costante delle coperture e dei motivi delle mancate vaccinazioni e lo studio delle motivazioni alla base del comportamento dei soggetti esitanti. La frettolosa approvazione del decreto 73 ha invece, di fatto, trascurato queste raccomandazioni».
Lei da futura mamma non avrebbe timore a mandare al nido suo figlio in presenza di bambini non vaccinati?
«In realtà si tratta di un rischio molto contenuto. Nel 2018 solo il 2,8% di bambini della fascia da zero a sei anni non sono stati vaccinati per scelta dei genitori. Nello stesso periodo la percentuale di copertura del morbillo ha raggiunto il 93,8%, contro l’85,2% del 2015».
«Al primo morto di morbillo lei verrà sbranata». La tocca la fosca previsione del virologo Burioni?
«I toni di queste ore non sono degni di un Paese civile. Io sono vicina a Burioni per l’aggressione subìta. Non è degno augurare a un medico che la pensa diversamente di affogare, come non esiste prendersela con Bebe Vio che spero di incontrare a breve. Ma è anche una spiacevole strumentalizzazione sentirsi dire da un accademico che “verrò sbranata al primo morto”. Non puoi illudere la gente che non morirà nessuno. Dobbiamo essere realisti».
I dati la preoccupano?
«Da gennaio a giugno i casi di morbillo, come monitorato dall’Iss, sono stati 2029. La Sicilia ha avuto più della metà dei casi, 1066. L’età media è 25 anni, con l’incidenza maggiore nella fascia tra zero e quattro anni. I decessi sono stati quattro, tre adulti e un bambino di dieci mesi».
Le mamme di bimbi immunodepressi vi accusano di giocare sulla pelle dei figli e il loro appello punta a 75 mila firme. Per Forza Italia volete chiudere i bimbi più a rischio in classi «ghetto». Come risponde?
«È vergognosa la strumentalizzazione di alcune forze politiche. Negli anni in cui ha governato Forza Italia le percentuali di copertura per il morbillo erano al di sotto della fatidica soglia del 95%».
Come si può impedire che, a mensa o in palestra, un piccolo trapiantato venga in contatto con bambini non vaccinati?
«Nei primi sei mesi del 2018 il tasso di copertura è salito, quindi il rischio per i bimbi immunodepressi si è molto ridotto».
Il M5S è spaccato. Di Maio richiamerà all’ordine i parlamentari «ribelli»?
«Non è una spaccatura, sono sensibilità diverse su un argomento delicato. Siamo un movimento bello grosso».
Dopo i medici, protestano i presidi. Li incontrerà?
«Abbiamo già fissato un incontro. Ci confronteremo e supereremo le perplessità».

La Stampa 8.8.18
Argentina, in piazza la sfida delle donne
“Sì all’aborto legale”
di Emiliano Guanella


Las «socorristas» hanno preparato un’installazione artistica da esibire davanti al Congresso nella lunga notte che oggi deciderà se l’Argentina legalizzerà o no l’aborto. Esporranno 4.137 assorbenti intimi macchiati di vernice rossa, con un nome e una breve frase delle donne che hanno aiutato ad abortire l’anno scorso. Il loro «pronto soccorso» non è medico, ma un sostegno psicologico e pratico in un Paese dove l’aborto è permesso in ospedale solo in caso di stupro, rischio di vita per la madre o grave malformazione del feto. A chiamarle sono soprattutto giovani e giovanissime, che non sanno cosa fare di fronte ad una gravidanza non pianificata, non desiderata, spesso con un compagno che non vuole essere padre.
L’escamotage
A tutte consigliano di ingerire 12 pastiglie di Misoprostolo, un farmaco usato per curare disturbi gastrici ma che se viene preso in grandi quantità produce una contrazione dell’utero con perdita di sangue e la possibile espulsione del feto. Non è la pillola abortiva, proibita per legge, ma un’escamotage per non ricorrere alle cliniche clandestine, dove i rischi, soprattutto quando si tratta di pazienti con poche possibilità economiche, sono elevati. «La soluzione ideale –spiega Nadia – è l’aborto legale, sicuro e gratuito e per questo lottiamo. Comunque andrà a finire, la cosa positiva è che finalmente si è parlato di un argomento che era considerato tabù. Oggi sui social media, sui giornali, nelle famiglie si discute di aborto. Lo abbiamo “depenalizzato socialmente” e questo è un gigantesco passo in avanti». Un passo che molto probabilmente non basterà.
I conteggi pre-voto
Dopo il passaggio a sorpresa alla Camera dei Deputati, la discussione sulla proposta di legge che prevede l’interruzione della gravidanza fino alla quattordicesima settimana si è apparentemente bloccata al Senato. L’ultimo conteggio è di 37 voti contrari contro 32 a favore, con 4 senatori fra indecisi o astenuti. La «marea verde», dal colore dei fazzoletti usati in piazza dai sostenitori della legge, non ha perso le speranze, ma le possibilità di un ribaltone dell’ultim’ora sono minime. In Argentina, cosi come in gran parte delle Americhe, Usa compresi, il Senato è federale.
Ad ogni provincia corrispondono tre rappresentanti, indipendentemente dalla popolazione; i 200.000 elettori della Rioja contano così come i 12 milioni della provincia di Buenos Aires o i 3 milioni della capitale. Le province rurali del Nord sono più conservatrici e numerosi. La bilancia si è spostata verso il «No».
I fazzoletti blu
I fazzoletti blu della campagna antiabortista sono soddisfatti, ma dopo la doccia fredda alla Camera nessuno canta vittoria in anticipo. L’esito negativo non potrà comunque cancellare il peso sulla società del forte dibattito che ha tenuto in bilico per mesi il Paese, superando le preoccupazioni per la nuova crisi economica in corso, con il governo del presidente Macri costretto a chiedere un maxi prestito al Fondo Monetario Internazionale o quello, più recente, sui «quaderni della corruzioni dell’epoca dei Kirchner», con importanti imprenditori e politici finiti in manette. Gli argentini hanno conosciuto le storie personali di attrici, presentatrici, intellettuali che hanno ammesso di aver avuto un aborto, raccontando le peripezie, le paure e il trauma che ne è seguito. Sono venuti alla luce i numeri, che hanno mostrato l’ampiezza del fenomeno; 47.000 donne ricoverate in ospedale nel 2016 per complicazioni post aborti clandestini, 43 morte, una stima di almeno 400.000 aborti nascosti all’anno. Storie assurde di cliniche improvvisate nel retro bottega di un veterinario, stregoni e metodi arcaici, aghi, rami di prezzemolo.
Conta il denaro a disposizione
Come nel resto del Sudamerica, solo in Uruguay l’aborto è legale da quattro anni, quello che conta, quasi sempre, è il denaro a disposizione; chi si può permettere una clinica clandestina «sicura» non corre molto pericolo, ma sotto i duemila euro, equivalente a sette stipendi minimi, si rischia di morire sotto i ferri. Uno degli aspetti più polemici della proposta di legge riguarda l’obiezione di coscienza, permessa per i singoli medici, ma non a livello di clinica o ospedale, seppur privato. Direttori e ostetrici dei principali centri di salute cattolici o evangelici sono insorti. Chi rischia di più è proprio il presidente Macri. Buona parte del suo elettorato è schierato contro la legge e non gli perdona il fatto di aver permesso la discussione in Parlamento, dando libertà di voto ai suoi deputati e senatori. Se la legge passasse Macri, che a livello personale si è detto contrario, ha promesso che non la voterebbe per rispetto istituzionale e così facendo potrebbe perdere parecchi consensi ad un anno dalle elezioni. Paradossale, invece, l’atteggiamento di Cristina Kirchner: durante il mandato suo e di suo marito non ha mai osato trattare il tema, ma ora voterà a favore perché, sostiene, «è stata convinta dalla figlia ventenne». I fazzolletti verdi hanno promesso di portare in piazza due milioni di persone per «fiatare sul collo» dei senatori. Se la legge non passerà si dovrà aspettare almeno un anno per riproporre lo stesso tema. Le femministe del movimento «Ni Una Menos» (non una di meno) promettono che non demorderanno. «Anche in Irlanda sembrava impossibile – spiegano - ma alla fine è passata; prima o poi ce la faremo anche qui in Argentina».

Corriere 8 .8.18
Trump all’Europa: «O l’Iran o gli Usa»
In vigore le sanzioni, l’aut aut alle aziende straniere. Ma 100 multinazionali se ne sono già andate
Federica Mogherini ha esortato le aziende a proseguire i commerci con Teheran
di Giuseppe Sarcina


WASHINGTON Subito lo scontro con l’Unione europea. A novembre quello potenzialmente devastante con la Cina e con l’India. Donald Trump lo ha ripetuto ieri con un tweet: «Chi concluderà affari con l’Iran, non ne farà più con gli Stati Uniti». Il primo round di sanzioni, adottato lunedì 6 agosto dal governo americano, blocca tutte le transazioni in dollari, il commercio e gli investimenti diretti nei settori industriali dell’auto, dell’aviazione, nonché le forniture di materie prime come acciaio e carbone.
Washington vieta alle imprese Usa ogni tipo di business con Teheran e obbliga le aziende straniere a scegliere: o il mercato iraniano o quello statunitense, cinquanta volte più grande. Il 4 novembre, invece, partirà l’attacco al nerbo del sistema iraniano: l’esportazione di petrolio. I due principali clienti sono Cina e India. Trump è pronto a interrompere ogni relazione economica con le due potenze asiatiche? Per ora abbiamo solo il suo tweet: «Queste sono le sanzioni più corrosive mai imposte e a novembre alzeremo ancora il livello… Io sto chiedendo la Pace nel mondo, nient’altro».
Il presidente alterna, come sempre, sanguinose minacce e aperture al negoziato. La risposta ufficiale di Teheran, per il momento, è questa: «Trump è inaffidabile, non è possibile negoziare». Da settimane si rincorrono voci di un possibile clamoroso summit tra «The Donald» e il presidente Hassan Rouhani. Intanto, però, le sanzioni sono una realtà con cui fare i conti.
L’Unione europea mantiene il punto politico. Con l’accordo firmato nel 2015 da Stati Uniti, Russia, Cina, Gran Bretagna, Francia e Germania, l’Iran rinuncia all’atomica in cambio dello sviluppo di intense relazioni economiche. Ieri Federica Mogherini, Alto rappresentante dell’Ue per affari esteri e sicurezza, ha dichiarato: «Stiamo facendo del nostro meglio per mantenere l’Iran nell’accordo e per preservare i benefici economici che questo porta al popolo iraniano, nell’interesse della sicurezza nel mondo». La Commissione europea, inoltre, ha fatto scattare il cosiddetto «Regolamento di blocco» che protegge le imprese europee dalle giurisdizioni straniere. Ma nel concreto, di fronte all’aut aut di Trump, questo scudo non serve a niente.
Bruxelles ha poi demandato agli Stati membri come risarcire le imprese colpite dalle sanzioni europee. Ma anche qui la strada sembra segnata. Negli ultimi giorni diverse multinazionali, dalla francese Total alla danese Maersk (trasporti marittimi), hanno annunciato che lasceranno l’Iran. «Sono già oltre 100» fanno sapere dalla Casa Bianca. Le aziende italiane hanno in sospeso circa 20 miliardi di euro in investimenti diretti.
Tra i gruppi coinvolti figurano le Ferrovie dello Stato (commessa da 1,2 miliardi di euro per l’alta velocità), Enel, Saipem, Danieli, Fincantieri, Pessina, Italtel, Belleli, Marcegaglia, Fata spa, Sistema Moda Italia.

Repubblica 8.8.18
Sanzioni all’Rran Così Trump umilia la Ue
di Andrea Bonanni


In teoria, le sanzioni americane scattate ieri sono mirate contro l’Iran. In pratica, puntano a colpire e affondare ciò che resta di un mondo multipolare e, in particolare, a umiliare l’Europa. La sfida è globale. La sua portata va al di là del pur importante accordo per la denuclearizzazione di Teheran. In gioco c’è la sovranità del resto del mondo nel decidere la propria politica estera e le proprie strategie commerciali.
A maggio Trump ha ritirato gli Stati Uniti dal Jcpoa, l’accordo sul nucleare iraniano che era stato sottoscritto, oltre che da Teheran, dai cinque membri del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni unite (Usa, Russia, Cina, Francia, Gran Bretagna) più la Germania e l’Unione europea. L’intesa prevede una progressiva levata delle sanzioni in cambio dell’impegno di Teheran a fermare i progetti che potrebbero consentirle di costruire un’arma atomica. Secondo il presidente americano, appoggiato solo da Israele, non si tratta di un accordo abbastanza severo. A luglio gli altri firmatari del Jcpoa hanno confermato che l’Iran rispetta gli impegni e che dunque la liberalizzazione degli scambi può proseguire.
Ma ora Trump lancia una nuova serie di sanzioni contro Teheran. Propone di incontrare i governanti iraniani per negoziare una nuova intesa che sconfesserebbe quella sottoscritta dal resto del mondo. E soprattutto annuncia che «chi fa affari con l’Iran, non può farli con gli Usa». Ciò significa, in realtà, estendere le sanzioni a tutte le imprese di Paesi terzi che, rispettando la volontà dei loro governi, hanno stretto accordi commerciali o industriali con l’Iran. E l’Italia è uno dei Paesi più esposti, con Eni e Ferrovie che hanno firmato contratti molto importanti. Chissà se Conte se ne è ricordato quando ha incontrato Trump alla Casa Bianca.
Poiché per la quasi totalità delle imprese e delle banche europee il volume d’affari con gli Usa è enormemente superiore a quello con Teheran, è ovvio che quasi tutte stiano correndo ai ripari e rompendo i rapporti con l’Iran. Il danno, per gli iraniani, ma anche per gli europei, è enorme. E le misure varate dalla Commissione Ue per cercare di contrastare le sanzioni extraterritoriali decise da Trump non sono in grado di arginare la fuga delle nostre imprese.
Ma il danno maggiore prodotto dalle sanzioni è alla credibilità politica dell’Europa, che è stata la vera regista dell’accordo sul nucleare iraniano, oltre che di Russia e Cina. Il messaggio che Trump manda agli ayatollah è chiaro: se non volete essere schiacciati dalle sanzioni economiche, dovete trattare con me, solo con me. Le garanzie che vi erano state date dalle altre potenze, Europa, Cina, Russia, sono carta straccia perché le loro aziende devono sottostare alla mia volontà e piegarsi alle mie minacce. Il vecchio mondo multilaterale è finito. Il nuovo mondo trumpiano ha un solo padrone, un solo arbitro, e sono io.
A ben guardare, anche se forse in termini economici è inferiore, la sfida di Trump sull’Iran ha una portata politica superiore alla guerra commerciale che egli sta conducendo con il resto del mondo, dal Canada alla Cina all’Europa. Lo scontro sui dazi ha come obiettivo quello di ripristinare con la forza un equilibrio commerciale che gli Usa hanno perso sul mercato. Lo scontro sulle sanzioni iraniane punta invece a distruggere la sovranità delle altre potenze sulla propria politica estera, sulla propria strategia commerciale e, in definitiva, sulle proprie imprese. Per essere un neo-sovranista, Trump ha una visione molto globale del potere americano. Il suo «America first» rischia di diventare «America only».
Difficile che il resto del mondo, Europa in testa, possa restare a guardare.

Corriere 8.8.18
Leggi razziali, i rettori chiedono scusa «Dopo 80 anni un monito attuale»
Pisa, cerimonia degli atenei italiani per condannare la cacciata degli ebrei
di Marco Gasperetti


PISA Non sarà solo un ricordo, stavolta. E 80 anni dopo quella firma infame, i rettori delle università italiane chiederanno scusa non solo agli ebrei e all’umanità tutta, ma alla Cultura (con la maiuscola) anch’essa oltraggiata, umiliata, violata. Il 20 settembre all’università di Pisa, a otto chilometri dall’allora tenuta reale di San Rossore dove il re Vittorio Emanuele III il 5 settembre 1938 promulgò le leggi razziali, l’ultimo capitolo di una storia oscura sarà definitivamente chiuso anche se mai sarà dimenticato. L’università di Pisa, in collaborazione con Normale, Sant’Anna e Imt di Lucca, organizzerà una tre giorni della memoria che culminerà con la lettura di un documento firmato dai rettori in cui oltre a condannare l’atto infame che cacciò dalle scuole di ogni ordine e grado gli ebrei, si chiederà scusa per ciò che la storia italiana produsse e l’incapacità del mondo accademico di allora di arginare l’onda razzista.
Nessuno dei circa ottanta rettori che parteciperanno all’iniziativa era nato quando la firma del sovrano fu apposta sul primo decreto. Ma ciò non cambia il fardello che l’università, l’ultimo grado e dunque il più elevato dell’istruzione, si è portato sulle spalle sino a oggi. «E io non capisco perché si sia aspettato così tanto per chiedere perdono — dice il direttore della Scuola Normale, Vincenzo Barone —. Anche oggi il “razzismo” è uno strumento che la politica usa quando è in difficoltà per tenere buoni i più poveri dando la colpa delle loro disgrazie ai “diversi” e non alla cattiva distribuzione della ricchezza». E, come ha detto ieri il rettore dell’Università di Firenze al Corriere Fiorentino, l’iniziativa pisana sarà anche «un monito forte per il presente e per il futuro».
Colpiti dalle leggi razziali furono Emilio Segrè, Franco Modigliani, Enrico Fermi (che aveva la moglie ebrea), Federigo Enriques, Giuseppe Levi, Gino Luzzatto, Rita Levi-Montalcini, Elio Toaff, solo per citare alcuni nomi. Molti ragazzi dallo straordinario talento furono cacciati dalle scuole. E ci furono scienziati e docenti che si schierarono a favore della cultura della razza. «Quelle leggi chiusero definitivamente le porte a un’università che avrebbe dovuto favorire inclusione, incontro e tolleranza — spiega Gaetano Manfredi, presidente della Conferenza dei rettori italiani —. Provocarono un danno enorme alla ricerca, oscurarono la cultura. Noi rettori saremo a Pisa per ricordare e chiedere scusa. Anche perché la storia dell’umanità ci dimostra che vi sono purtroppo stagioni durante le quali soffiano venti di divisione, come sta accadendo oggi».
Il programma prevede per il 5 settembre una cerimonia nel parco di San Rossore, a cui parteciperà il presidente dell’Unione delle comunità ebraiche italiane, Noemi Di Segni. Poi dal 20 al 22 settembre un convegno all’università di Pisa e le scuse solenni del mondo accademico.

La Stampa 8.8.18
Pirati, utili canaglie
Destra e sinistra ripensano la figura dei bucanieri i primi anarco-capitalisti
di Massimilano Panarari

Un tempo li si considerava (malviventi e delinquenti di mare) brutti, sporchi e cattivi. Oddio, per la verità, lo erano, eccome. Tuttavia, nel corso degli ultimi anni, il giudizio è diventato assai più articolato, e la storiografia (in primis, quella economica) e (soprattutto) i cultural studies hanno portato a un significativo filone di revisionismo intorno alla pirateria che se non li ha convertiti in eroi poco ci è mancato. E, di sicuro, ne ha fatto degli antieroi maledetti ma tremendamente interessanti, e da indagare sfatando qualche pregiudizio. Del resto, a dare il proprio contributo alla loro «riabilitazione» ci si è messa pure l’industria hollywoodiana dell’immaginario mediante la saga blockbuster de I pirati dei Caraibi con protagonista Johnny Depp. E l’opzione del romanticismo pirata è sempre in agguato dietro l’angolo, perché le fonti documentarie a disposizione sono pochissime e lacunose, e a dominare, quindi, è inevitabilmente l’attività di interpretazione.
Così, si è ormai consolidato l’idealtipo dei corsari anarcocapitalisti (che, si può immaginare, sarebbero piaciuti parecchio al filosofo Robert Nozick), avanguardisti della Lex Mercatoria e incursori di una specie di «new economy» predatoria, dotati al proprio interno di regole etichettabili come liberali e democratiche (come ha raccontato, tra gli altri, il libro di alcuni fa di Peter Leeson, L’economia secondo i pirati. Il fascino segreto del capitalismo, Garzanti). Ma si è fatta vieppiù strada anche un’altra versione, sempre anarcolibertaria ma «di sinistra», entrata prepotentemente nel dibattito politico odierno fra la lotta senza quartiere contro il copyright e i diritti della proprietà intellettuale in nome dell’open access (la cui storia è stata ben raccontata del professore dell’Università di Chicago Adrian Johns in Pirateria, Bollati Boringhieri), campagne e azioni (piratesche, ça va sans dire) di hackeraggio, Wikileaks (che stiamo però imparando a conoscere come molto più filoputinista che realmente indipendente da tutto e tutti) e i partiti dei Pirati tra la Germania e i Paesi scandinavi. A questa seconda corrente – molto simpatetica, da Christopher Hill a Marcus Rediker – appartiene anche un libro pubblicato da poco dall’editore italiano per antonomasia delle culture dell’anarchismo, Elèuthera: La vita all’ombra del Jolly Roger (pp. 288, euro 17) di Gabriel Kuhn, un tipo che oltre a studiarli ha una spiccata propensione a riproporre le gesta, riviste e attualizzate, dei pirati nella propria vita quotidiana. Di origini austriache (e già calciatore quasi professionistico), Kuhn (classe 1972) è un attivista radical e uno scrittore politico che vive in Svezia, di orientamento anarchico e influenzato dal poststrutturalismo di sinistra, che è riuscito a farsi dichiarare persona non grata dalle autorità degli Stati Uniti proprio per questo volume (uscito in edizione originale nel 2010). Nel quale ricostruisce l’età dell’oro della pirateria, che andò dal 1690 al 1725 ed ebbe come culla l’area caraibica, proponendo un punto di vista radical originale. Alla radice di tutto c’erano i «lupi di mare», come il famoso (sir) Francis Drake, ovvero i pirati del Cinquecento. Poi sono arrivati i «bucanieri”» (il cui sinonimo in area francofona era «filibustieri»), i cacciatori dell’isola di Hispaniola (attualmente divisa tra Haiti e la Repubblica Dominicana) della prima metà del Seicento, che alla fine del secolo si diedero alle scorrerie per mare originando la sottocultura pirata. Ed è una questione, giustappunto, di interpretazioni sin dall’inizio, perché coloro che per gli spagnoli depredati e saccheggiati erano i «pirati», diventavano per gli inglesi, gli olandesi e i francesi (che se ne servivano) dei «corsari», di fatto delle forze mercenarie che agivano sotto la licenza – coincidente con la «lettera di corsa» – di un’autorità legale e statale. Dei contractor, come si direbbe oggi, i quali mettevano in atto tecniche di proto-guerriglia. E la cui vita scorreva, all’insegna del filo rosso della violenza sanguinaria, tra la noiosa calma piatta della navigazione, l’adrenalina degli scontri armati, e la spasmodica ricerca del piacere (gioco d’azzardo e orge) al momento dell’approdo.
Un approccio all’esistenza che ne faceva, secondo alcuni studiosi, delle figure esemplarmente nietzscheane, intrise di una filosofia dionisiaca. Come pure, quando operavano in proprio e non per procura o al servizio degli interessi geopolitici e commerciali di una qualche grande potenza, gli attori di comunità nomadi alternative, identificate dalla bandiera del Jolly Roger (con le due tibie sormontate dal teschio su sfondo nero). E portatrici di una sottocultura autonoma estremamente conviviale e marcatamente ugualitaria. Giustappunto quello che, pur tra mille contraddizioni, ha reso la pirateria un simbolo da recuperare (e valorizzare) per svariati radicalismi della postmodernità.

Corriere 8.8.18
Einaudi ripropone «Dalla mia vita», l’autobiografia dello scrittore
Primi amori e dolori del giovane Goethe
In Gretchen, Annette & C. scoprì sé stesso
di Giorgio Montefoschi


Prima del trasferimento da Francoforte sul Meno (la città nella quale era nato, alle 12 in punto del 28 agosto 1749) in Alsazia, dove, per volontà del padre, dottore in legge e consigliere imperiale, avrebbe dovuto proseguire nei suoi studi di giurisprudenza, Goethe si era già innamorato un paio di volte. Francoforte, con i suoi vecchi edifici in legno, le strade strette, i pochi monumenti che rimandavano all’antico, era una città severa. Severa, per non dire cupa, era anche la vita che si svolgeva nella famiglia del dottore in legge e consigliere imperiale, Johann Kaspar, padre di Johann Wolfgang. Il dovere, lo studio, l’attenzione ai rapporti sociali, l’austera etica protestante, il principio che ogni cosa cominciata (la lettura di un libro dopo cena, per esempio) dovesse essere conclusa, erano — come leggiamo in Dalla mia vita. Poesia e verità (a cura di Enrico Ganni, introduzione di Klaus-Detlef Müller e traduzione di Enrico Ganni, Einaudi): la lunga autobiografia in cui viene narrata la giovinezza del poeta — regole assolutamente invalicabili. Regole alle quali Wolfgang aggiungeva, da parte sua, uno smisurato amore per l’apprendimento, la profonda attrazione per il «passato», la propensione a indagare l’Altrove (motivo per il quale aveva iniziato, precocissimo, a studiare l’ebraico, in modo da poter leggere l’Antico Testamento nella versione originale, e non in quella di Lutero, e poi il Nuovo), la straordinaria capacità mnemonica che gli consentiva di mandare a memoria interi brani dei classici oppure di mettere sulla pagina, al ritorno dalla funzione religiosa, tutta intera l’omelia pronunciata dal pastore Johann Jacob Plitt, infine una capacità metamorfica di scrittura che gli consentiva di approcciare, in prosa e in versi, qualsiasi argomento.
Ma Francoforte — la città che presto avrebbe accolto dignitari delle varie ragioni per la solenne incoronazione di Giuseppe II a Imperatore del Sacro Romano Impero — non era solo etica e studio, dovere e chiesa. C’erano le locande bellissime, appena fuori porta, con il giardinetto davanti e i tigli, le ragazze bellissime e pudiche con le trecce bionde tenute da uno spillo, le gioiose feste della vendemmia, le gite in barcone sul fiume. E Goethe, che nel cuore sentiva riflettersi tutte le meraviglie della natura e, insieme, provava già il misterioso, impellente desiderio di esprimerle, non aveva alcuna remora a lasciarsi trascinare dalla bellezza, dall’allegria, dal divertimento e dal gioco.
Di queste sue doti lievi, un giorno, pensò di profittare una compagnia di giovani «scapestrati» che amavano fare burle. L’ultima che avevano immaginato era una burla d’amore: scrivere una finta lettera di un innamorato a una innamorata e godersi, da screanzati, le rispettive reazioni. Chi altro poteva comporre la lettera iniziale, se non il «genietto» della scrittura, Johann Wolfgang Goethe? Lui si prestò di buon grado e, così, entrò a far parte del gruppo. Finché, in una di queste riunioni conviviali con schiamazzi e risate, essendo finito il vino e avendo i commensali richiesto che venisse la cameriera a rifonderlo, apparve «una fanciulla di indicibile e, vista nel suo ambiente, straordinaria bellezza». Si chiamava Gretchen. La cameriera era malata; il vino sarebbe andato a prenderlo lei, parente povera dei proprietari della locanda.
«Le prime esperienze d’amore di un giovane incorrotto — scrive Goethe — virano sempre verso lo spirituale. Sembra quasi che la natura voglia che un sesso percepisca nell’altro l’immagine tangibile e della bellezza». Non ci furono carezze né tantomeno baci, infatti, soltanto una timida mano appoggiata sulla spalla e due volti teneramente vicini, in questo amore breve, interrotto da uno dei tanti «allontanamenti» della vita di Goethe, voluti dal destino o dal caso o da un viaggio o da una sotterranea volontà di fuga, che tanto ci rimandano al Wilhelm Meister. Ma l’attrazione dei corpi era profonda: la medesima che, più ancora che nel Werther, avvertiamo, perché sempre pronta a rendersi palese, anche nei capitoli più cerebrali di quel romanzo seducente e poderoso.
Poi Gretchen sparisce. Goethe va a Lipsia a proseguire gli studi di diritto e lì riversa la sua passione amorosa per Annette Schönkopf: una giovane «attraente, vivace, affettuosa e tanto gradevole da meritare senza dubbio di essere collocata alla stregua di una piccola santa». Non è, propriamente, il ritratto del grande amore. Ma, per lei, Goethe scrive i suoi primi Lieder. Dopo molte riflessioni e esami di coscienza, Wolfgang ha capito una cosa fondamentale, riguardo alla poesia. E cioè che la vera base del sentimento poetico sta in una ricerca profonda della verità racchiusa nel seno del poeta ma l’occasione per rappresentarlo, questo sentimento, è offerta dall’oggetto, dall’esterno, dall’incontro. Annnette, che per altro lui tortura con scenate di gelosia, fa così il casuale ingresso nella carriera poetica del giovane studente di legge che, quando pensava a sé stesso nel futuro, si vedeva non chino sui codici, bensì cinto di una corona d’alloro. Quindi, anche Annette si dilegua e, nel 1770, appena ventenne, Goethe arriva in Alsazia, a Strasburgo.
Strasburgo, con la sua imponente e luminosa cattedrale, le belle strade, le incantevoli sponde del Reno, è una città nella quale, a differenza di Francoforte, si respira una prepotente voglia di vivere e di divertirsi. I suoi abitanti si godono il fiume e le sue locande, organizzano feste campestri e ballano, soprattutto il valzer, sia nei giorni feriali che in quelli festivi, quasi ovunque: nelle locande, nei palazzi di città, nelle dimore di campagna. Goethe, che da ragazzo, per interessamento stesso del padre, ha avuto qualche lezione di ballo, sente che le sue membra hanno come un risveglio, un nuovo desiderio «fisico» di vita. L’inquietudine che nasce dall’abissale inadeguatezza che avverte fra sé e il mondo, fra sé e l’Essere supremo, a volte presente in ogni respiro della natura, a volte inarrivabile o nascosto, continua a opprimergli il petto ma questa idea del ballo lo attrae, gli piace molto. E quando un amico gli consiglia un maestro di ballo, il migliore di Strasburgo, immediatamente ci si reca e comincia le lezioni.
Succede, però, un fatto molto spiacevole, a un certo punto. Il maestro, infatti, ha due figlie, entrambe belle: una aperta e gioviale, l’altra, la minore, introversa e chiusa. A farla breve: fra una lezione di minuetto e una di contraddanza, scoppia, nel cuore delle due sorelle, una passione intrattenibile. Insomma, Wolfgang è conteso. Finché un giorno, Lucinde, l’introversa, si scaglia contro la sorella con una violenza inaudita: l’accusa di averle rubato sempre i suoi amori, e adesso anche quest’ultimo. Dopodiché si getta come un’invasata su Wolfgang, lo bacia appassionatamente sulla bocca e, quasi fosse una strega, lo congeda con una maledizione: «Sventura, eterna sventura su colei che prima o dopo bacerà queste labbra! E voi, signore, andatevene, andatevene in fretta!».
Terrorizzato, il poeta scappa. Non ha in mente solo balli e feste. Ha appena letto un romanzo inglese moderno, Il vicario di Wakefield di Oliver Goldsmith, pubblicato nel 1766, nel quale si racconta come l’idillica esistenza che si svolge nella casa di un curato venga sconvolta da una serie di sciagure, per risolversi, «idilliacamente», a buon fine, per la gioia e la felicità di tutti. Quando un amico, al quale ha confidato il trasporto che ha provato per questo romanzo e il mondo che rappresenta, lo informa che, a mezz’ora di cavallo dalla città, c’è un anziano curato con moglie, figli e figlie, la cui vita quieta assomiglia tanto a quella di Wakefield, Wolfgang monta a cavallo e presto riesce a entrare nel cuore di una delle figlie: Friedricke, che nello stesso istante in cui è apparsa sulla porta, in quel «cielo rurale», gli è sembrata una stella.
Friedricke è snella, bionda, ha il nasino all’insù, due bellissimi occhi azzurri e si muove agilmente come se non avesse peso. Tra i due si sviluppa un accordo appagante, una passione intensa che sembra non debba abbandonarli mai. Le passeggiate nei campi e lungo il fiume, il bosco nel quale a volte gli alberi conchiudono lo spazio circolare della perfezione, i tramonti, le notti di luna: la natura, i boschi, i campi, i cuori sono colmi d’amore. Ma c’è la maledizione della strega. E quando i ragazzi, ai quali i due si uniscono, organizzano i giuochi con le penitenze, la penitenza che a quell’età è quella più somministrata, Wolfgang è costretto a evitarla, ricorrendo alle più banali scuse.
Poi, un giorno — il bacio c’è stato: commovente — Wolfgang, come è successo finora, e succederà in seguito, sarà costretto a partire. Quel cavallo che lo ha condotto alla casa felice del curato lo condurrà lontano: a Wetzlar. Dove riceverà una lettera d’addio che gli lacererà il cuore e conoscerà Johann Christian Kestner e la sua fidanzata Charlotte Bluff ai quali si ispirerà per il racconto di un altro amore tanto grande quanto impossibile, tragico: I dolori del giovane Werther, con il quale diventerà famosissimo.

Repubblica 8.8.18
La doppia vita di Majakovskij "l’americano"
Il poeta della rivoluzione bolscevica ebbe un amore segreto, e una figlia, negli Stati Uniti. Per la prima volta una mostra a Mosca racconta il privato dell’idolo sovietico e il nipote Roger Thompson esce allo scoperto
di Rosalba Castelletti


MOSCA Anno 1925. Nell’ancora pubescente Unione Sovietica ha da poco preso il potere Josif Stalin. Gli Stati Uniti, invece, sono nel pieno della stagione degli "Anni Ruggenti".
L’allora trentaduenne Vladimir Majakovskij decide di fare un viaggio nel cuore del capitalismo.
A New York incontra Elli Jones.
S’innamorano. Non sarebbe mai dovuto accadere. Lui era il bardo della rivoluzione bolscevica e il padre del futurismo sovietico. Lei una modella emigrata in America per sfuggire al regime. Ma, a dispetto delle ostilità tra le due nascenti potenze mondiali e degli onnipresenti occhi dell’Nkvd, l’antesignano del Kgb, da quest’amore clandestino nasce una bambina, l’unica figlia del "toro scatenato" della poesia russa: Ellen-Patricia Jones, da sposata Patricia Thompson, che rivelò i suoi natali solo sessant’anni dopo. Tenuta nascosta per decenni, nel 125mo anniversario della nascita del poeta questa storia rivive finalmente grazie alla mostra Dochka (Figlia) in corso a Mosca e alle memorie raccolte da questa figlia segreta di Majakovskij. «In queste sale sento la presenza di mia madre», sospira il nipote del poeta, Roger Thompson, in visita in Russia per l’occasione. Dopo la morte di Patricia due anni fa, è rimasto l’unico erede di Majakovskij e custode di questo prezioso archivio.
Durante il suo soggiorno a Manhattan, l’avanguardista trascorse la maggior parte del suo tempo passeggiando lungo la Quinta Strada, frequentando le sale di biliardo o le feste dei letterati. Non parlava inglese.
Quando si presentava alle feste in suo onore nei salotti newyorchesi, era capace solo di dire «Potreste darmi del tè per favore?», sperando che tutti pensassero che, da russo, non volesse dire una parola più del necessario. In realtà l’autore di Nuvola in calzoni era frustrato dalla barriera linguistica. È forse anche per questo che si legò alla ventenne Elli Jones.
Nata Elizaveta Petrovna Ziebert, era un’ambiziosa traduttrice e modella poliglotta cresciuta nel lusso sugli Urali all’inizio del secolo scorso. Il padre era un ricco possidente terriero discendente dai tedeschi arrivati nell’Impero su invito di Caterina la Grande.
Quando la Rivoluzione minacciò terra e ricchezze, Elizaveta sposò l’inglese George Jones e fuggì negli Stati Uniti dove divenne Elli Jones. Era ancora sposata quando incontrò il genio russo in casa di un avvocato. Ne divenne guida, interprete e amante. «Vari pezzi della mia collezione ricordano quei giorni. Un disegno di mio nonno che ritrae se stesso come un uomo brutto, con il capo chino, e mia nonna con due saette che le escono dagli occhi. Era forse il suo modo di scusarsi di qualcosa. Le loro passeggiate insieme gli ispirarono varie poesie, come Il ponte di Brooklyn. Tornato a Mosca, portò con sé una foto di mia nonna con le mani tese in avanti come a dire "No"», racconta Thompson a Repubblica. Per tre mesi Elli e Vladimir furono inseparabili, ma fecero di tutto per nascondere la loro intimità. Si chiamavano per nome e patronimico. E non scattarono foto insieme. Majakovskij aveva subito messo in chiaro di essere legato a Lilja Brick. E chiese riserbo. Temeva la sua gelosia e la vendetta del regime.
Quando tornò a Mosca, Jones gli scrisse per informarlo che era incinta. Il poeta rispose, sebbene con ritardo. «Oh, Vladimir, ha veramente già dimenticato l’amata zampetta?», si lamenta Jones. Il poeta cercò di organizzare un altro tour negli Stati Uniti ma, non potendo spiegare la vera ragione della sua visita, non ottenne il visto. Dovette aspettare l’ottobre 1928 per rivedere Elli e conoscere la figlia.
S’incontrarono a Nizza, in Francia.
«Di quell’incontro ricordo le sue lunghe gambe», dirà anni dopo Patricia. Al suo ritorno a Parigi, Majakovskij scrisse alle sue «due care Elli» che aveva «già nostalgia» di loro e voleva tornare a trovarle «per almeno una settimana». «Mi riceverete, coccolerete?», scriveva. «Spero di mettermi a lucido e di presentarmi a Voi in tutta la mia sorridente bellezza. Vi bacio tutte le otto zampette». Si firma "Vol", abbreviazione del diminutivo "Volodja". Elli chiese di telegrafarle il giorno e l’ora dell’arrivo in stazione. Ma Majakovskij non avrebbe più incontrato né la sua amata newyorchese né la sua unica figlia. Due anni dopo si sarebbe visto recapitare una scatola con dentro un proiettile. Un messaggio: scegliere la morte o l’umiliazione.
Poco dopo, il 14 aprile del 1930, il poeta morì, suicida, all’età di 37 anni. Lasciò un biglietto d’addio, ma non nominò le "due Elli".
Voleva proteggerle. Non era ammesso che il poeta che sarebbe diventato un monumento dell’ideologia avesse avuto una vita sfrenata in America e dato i natali a una giovane che stava crescendo nella patria del capitalismo. Anche Jones temeva per la vita della figlia e, insieme al marito George che la riconobbe, la nascose dall’Nkvd. Professoressa di studi femminili presso il Lehman College della City University di New York e autrice di una ventina di volumi, Patricia Thompson svelò la sua vera identità solo nel 1989, a 65 anni, e pubblicò il libro Majakovskij a Manhattan basato sulle memorie della madre registrate su nastro prima della morte. Del padre Patricia aveva la statura, la mascella volitiva e i grandi occhi profondi. Negli ultimi anni si faceva chiamare Elena Vladimirovna Majakovskaja e viaggiava spesso in Russia.
«Anche se la mia famiglia non mi aveva mai detto nulla — ricorda Thompson — ho sempre saputo chi fosse mio nonno dall’età di cinque anni. C’erano i suoi libri in giro per tutta la casa e origliavo le conversazioni dei grandi. Mio nonno ha sempre fatto parte del mio carattere. Discendo anche da Roger Sherman Thompson, padre fondatore della Costituzione americana. Ho antenati rivoluzionari da entrambi i lati.
Anch’io lo sono a pieno diritto».
Patricia, aggiunge, avrebbe voluto che le sue ceneri fossero sparse sulla tomba del padre nel cimitero di Novodevichij come quelle della madre. Due donne innamorate del poeta. «Mia figlia non L’ha ancora dimenticata, anche se non parlo mai di lei», scrive Elli nella sua ultima lettera a Majakovskij, datata "Nizza, 12 aprile 1929".
«Una volta Lei mi ha detto che nessuna donna ha potuto resistere al Suo fascino.
Evidentemente aveva ragione!».

La Stampa 8.8.18
“Tre anni a Caserta e ora per strada sono come una rockstar”
di Flavia Amabile


«Peccato», scrive su Facebook Mauro Felicori , da tre anni direttore della Reggia di Caserta ma da ottobre costretto a lasciare l’incarico in anticipo per raggiunti limiti di età. «Peccato», scrive questo bolognese, calato dalla Pianura Padana in una terra che non conosceva, il tipico settentrionale che rischiava di farsi fagocitare dalle paludi del Sud e che invece è diventato popolare e amato come una rockstar o un fuoriclasse del calcio per le cifre ottenute: visitatori raddoppiati, incassi mai visti prima. Sotto il suo post si leggono centinaia di commenti di persone che gli esprimono ammirazione, stima, e il timore che il sogno possa finire.
Partiamo dall’inizio. Che cosa la colpì al suo arrivo?
«Il fatto che tutti mi chiedessero se avrei abitato a Caserta. Ho capito che invece di essere gestito come il grande museo che è, veniva piuttosto considerato un’appendice».
E quindi ha preso casa a Caserta. Come si è trovato?
«Giro per la città ricevendo lo stesso calore di un goleador o di una rockstar. Mi fermano, mi invitano a non mollare. E quando vado fuori c’è sempre qualcuno che mi riconosce, mi racconta di essere originario di Caserta e mi chiede di andare avanti. Basta una passeggiata per essere ripagato di tutte le amarezze».
Chi l’ha amareggiata di più in questi anni? I sindacati che non hanno accettato gli orari di lavoro, le divise, la cancellazione del giorno di chiusura e molto altro ancora?
«Solo alcuni sindacati si oppongono, altri mi sostengono. Di sicuro mi dispiace per Caserta vedere che esistono persone che erano felici quando la Reggia era in declino e che ora che invece i bilanci sono positivi hanno assunto un atteggiamento aggressivo. Mi dispiace per Caserta se prima del mio arrivo i dipendenti venivano criticati mentre ora se ne parla di nuovo bene ma alcuni combattono comunque il nuovo corso invece di esserne orgogliosi».
E gli ostacoli burocratici quante amarezze le hanno creato?
«Con la riforma Franceschini i direttori dei musei per la prima volta hanno un bilancio, uno statuto, un’identità autonoma, smettendo di essere appendici delle Soprintendenze. Una grande opportunità, una sfida magnifica. Però quando sono arrivato non c’era un solo ragioniere tra i dipendenti e non potevo fare assunzioni in autonomia. Abbiamo superato il problema solo grazie alla buona volontà di una persona che ha deciso di imparare una materia che non conosceva. Gli obiettivi si raggiungono molto più lentamente e con molta più fatica».
Quali sono stati i momenti più difficili?
«Forse il crollo del soffitto nella Stanza delle Dame avvenuto lo scorso dicembre. L’ho considerato un episodio inquietante perché imprevedibile, non c’erano segnali esterni che potessero far capire che cosa si stava preparando. Non c’è stato un errore e quindi mi è più difficile capire come evitare il ripetersi di simili problemi. Oppure il furto di due figurine durante la Mostra di arte contemporanea Terrae Motus. Di per sé il valore delle opere non era rilevante ma si è trattata comunque di una sconfitta dovuta a un nostro errore, una distrazione dei custodi e un’assenza di telecamere a cui stiamo ponendo riparo».
Anche il matrimonio nella Reggia ha suscitato molte polemiche.
«Polemiche senza senso. Sono convinto di aver agito bene. Abbiamo utilizzato delle sale create per eventi e concordato come tutelare il bene. Accade anche a Versailles e abbiamo ottenuto dei fondi per la tutela. In due anni ho aumentato gli incassi di due milioni e mezzo di euro, possono essere utilizzati per la tutela. Quando sono arrivato anche la polvere era vincolata perché aveva di sicuro più di 70 anni. Ora non è più così».
Non sono mancati i problemi in questi anni. Eppure ha scritto «peccato» all’idea di lasciarla in anticipo.
«Se non ci fossero stati problemi non mi avrebbero mandato a risolverli. È stata un’esperienza meravigliosa. Sarebbe stato bello se mi fosse capitata a cinquant’anni invece che a 63 ma di sicuro non mi lamento. Sono felice di averla vissuta».
Caserta le ha cambiato la vita?
«Sì, di sicuro»

Repubblica 8.8.18
"Addio Reggia di Caserta ma questa legge è ingiusta"
Mauro Felicori, 66 anni, è costretto a lasciare la direzione per limiti di età
di Antonio Ferrara


CASERTA Troppo vecchio per dirigere la Reggia di Caserta.
Mauro Felicori, manager bolognese catapultato dalla riforma Franceschini in Terra di Lavoro per risollevare le sorti di un monumento fermo a 428mila visitatori nel 2014 (chiuderà il 2018 a quota 900mila), deve lasciare la direzione del palazzo progettato da Luigi Vanvitelli il 31 ottobre, quando avrà compiuto 66 anni e 7 mesi. Non sarà il solo ad andare via prima dei quattro anni di mandato.
Anche Paola Marini si prepara a passare ad altri la direzione delle Gallerie dell’Accademia di Venezia: la storica dell’arte veronese è nata lo stesso giorno di Felicori e così a 66 e 7 mesi dirà addio alla Serenissima. Le norme sul pensionamento d’ufficio nel pubblico impiego non ammettono deroghe, anche se, come nel caso di Felicori e Marini, si è firmato un contratto quadriennale con scadenza autunno 2019. Il ministero dei Beni culturali prova a correre ai ripari con un bando internazionale per tre direttori: Reggia di Caserta, Accademia e Parco archeologico dei Campi Flegrei, affidati ad interim sin dall’istituzione a Paolo Giulierini, l’archeologo che dirige il Museo nazionale di Napoli. Una corsa contro il tempo, agosto compreso, per domande, selezioni, procedure e assegnazione dell’incarico. E con il rischio di fermare tutto.
Direttore Felicori, che farà dal primo novembre, il pensionato?
«Non ci penso proprio. Mi cercherò un altro lavoro. Andrò dove mi offriranno qualcosa. Mi occupo non solo di musei, ma di creazione di imprese culturali.
Insegno in un master di comunicazione, vediamo».
Va via perché la legge lo impone. Rimpianti?
«È tutto un rimpianto. La norma applicata ai direttori dei musei mi pare iniqua. Peccato. Si potrebbe correggere come accade per professori universitari e magistrati, mi auguro che al ministero ci pensino. A 66 anni non puoi essere considerato vecchio per dirigere un museo».
"Il direttore lavora troppo" la accusarono alcune sigle sindacali. E ora?
«C’è chi sarà contento, non lo nego. Ci sono sacche di resistenza, ma anche tante persone che avevano preso gusto in questa avventura. Non ho mica fatto tutto da solo.
Senza il personale non sarei andato da nessuna parte. La mia esperienza sin dall’inizio si è condita di aspetti sentimentali.
Io, il bolognese che si appassiona, il tortellino e la mozzarella insieme. Una piccola favola, una storia che si chiude, anche se qui non ci sono
tradimenti...».
Si fermerà la "rivoluzione emiliana" a Caserta?
«Quattro anni sono pochi per un’esperienza manageriale, ancora di più per un monumento colossale come la Reggia, una città vera e propria.
Mi dispiace andare via prima, certo. Ci sono problemi, ma anche tante ragioni che danno nuovo entusiasmo e ti fanno correre. Ecco, avrei voluto correre di più».
Cosa lascia al successore?
«Un monumento che si è rimesso in piedi. Chi verrà troverà tante gare avviate, un importante lavoro sulla comunicazione. Abbiamo stretto relazioni con il Teatro di San Carlo, con università e centri di ricerca. Siamo tornati nel club dei grandi palazzi reali europei. E ho dato al Consorzio campano per la tutela della mozzarella di bufala una sede nel parco, perché credo che la Reggia sia simbolo di un territorio e debba aiutare tutto il sistema locale».
Tre mesi per trovare un nuovo direttore. Basteranno?
«Penso che vada confermata la selezione internazionale. Non lo dico io, basta guardare – rimanendo in Campania – a quello che fanno Sylvain Bellenger a Capodimonte, Paolo Giulierini all’Archeologico e Gabriel Zuchtriegel a Paestum, a quanto ha potuto continuare a fare Massimo Osanna a Pompei e a quello che sta avviando Francesco Sirano a Ercolano.
Tutti i musei autonomi dopo tre anni sono cambiati».
Un ultimo sogno?
«Affiderò prima di lasciare a un grande progettista l’allestimento definitivo della collezione "Terrae Motus" di Lucio Amelio che resta a Caserta. Per la gestione penso a una fondazione che si occupi di promuoverla in tutto il mondo».

La Stampa 8.8.18
L’algoritmo sa cosa farai
Non c’è comportamento che non possa essere previsto
di Gabriele Beccaria


Puoi tacere, rimanere immobile e non fare nulla, eppure lo sguardo ti sta tradendo. Basta un battito di ciglia. I micromovimenti degli occhi e le loro inconsapevoli reazioni svelano moltissimo a un algoritmo che sa come decifrarli. Può stabilire se l’umano che ha di fronte, in una sala d’aspetto o nella metro, è un curioso, un nevrotico, un estroverso, un serioso, un ottimista… Sviluppato dalla University of South Australia con il Max Planck Institute, questo esempio di Intelligenza Artificiale prepara una nuova era nei rapporti tra le macchine e noi e, intanto, altre menti sintetiche stanno imparando così tanto dai nostri comportamenti che cominciano a prevedere che cosa faremo. Al supermarket o in Borsa, sui social o alla guida dell’auto.
Quando si stringe un volante, in effetti, ci riveliamo. Al punto che già trionfa un sistema che, osservando una gara di Formula 1 in diretta e combinando ciò che vede con le memorie di tante corse precedenti e delle prestazioni individuali dei piloti, stabilisce che cosa succederà alla prossima curva. Un’app che produce «alert» e che, elaborando rapidissimamente presente e passato, dà il responso sul futuro imminente e suggerisce al commentatore tv se Vettel manterrà la posizione o Hamilton lo sorpasserà. Mentre l’algoritmo spia le abilità dei campioni, dà un aiutino decisivo al giornalista-opinionista. E la determinazione di dove si troverà tra pochissimo la Ferrari o la Mercedes può essere talmente precisa da arrivare a cinque centimetri dalla posizione effettiva. Un soffio (o un battito di ciglia).
Il miracolo «precog», così visionario da superare le fantasie del celebre film «Minority Report», è stato realizzato da QuantumBlack, società di base a Londra specializzata nella scienza dell’«advanced analytics» e che consiste nel gestire enormi quantità di dati (i celebrati Big Data) e nell’esplorarli creativamente per ottenere informazioni altrimenti impossibili e impensabili. Come, appunto, predire i comportamenti in situazioni eterogenee e da queste «premonizioni» ricavare modelli teorici e strategie di business.
«Erano una trentina, oggi sono oltre 350», racconta Massimo Giordano, «managing partner» per l’area del Mediterraneo di McKinsey, parlando dei «data scientists» che si immergono nell’oceano dei dati e ne riemergono sempre con qualche meraviglia. È stata proprio la multinazionale di consulenza strategica ad aver acquisito QuantumBlack nel 2015 e il team è diventato una delle punte di diamante di McKinsey - spiega Giordano - «per guidare i nostri clienti in una realtà in divenire, come l’Intelligenza Artificiale. Uno strumento potente, che, comunque, non può fare a meno della mente umana: a lei resta il difficile compito di prendere le decisioni. Ora, però, può farlo in modo più consapevole e ragionato». Formula 1 a parte, banche, tlc, assicurazioni, distribuzione, infrastrutture sono esempi dei settori dove l’analisi avanzata dei dati scatena la rivoluzione. Nei prodotti e nella filosofia che li ispira e nell’organizzazione delle aziende, oltre che nei rapporti con i clienti.
«L’innovazione è legata alla capacità delle aziende, anche le più tradizionali, di attrarre giovani talenti, i data scientists, appunto - sottolinea Giordano -. Il loro futuro è a tutto campo, non solo nei simboli del Big Tech come Google e Amazon o nelle start-up». Se è vero che ognuno di noi genera dati, consapevolmente con le protesi digitali e inconsapevolmente in ambienti iper-sorvegliati, e che negli ultimi due anni sono state prodotte più informazioni che nel resto della storia dell’umanità, la sfida è sfruttare il sapere potenziale che racchiudono. Una miniera da miliardi e trilioni non per tutti, ma riservata a chi ha le magiche chiavi per entrarci. «Oltre il 50% di quanto facciamo oggi appena cinque anni fa non esisteva - osserva Giordano -. McKinsey, nel mondo, dispone di oltre 2 mila super-specialisti, tra cui matematici, ingegneri e fisici, e di un migliaio di “traduttori”, i quali indirizzano le tecniche di “machine learning” verso obiettivi specifici».
Obiettivi sempre diversi, come provano le esplorazioni di QuantumBlack. Per un football club ha creato un modello che correla le caratteristiche di ogni giocatore con la propensione agli infortuni muscolari (e ne ha previsti 170 su 184, con un’accuratezza del 90%), mentre a una società mineraria ha fornito lo strumento con cui calcolare le probabilità di guasto dei macchinari. Risultato: rilevamento anticipato dell’88% dei problemi. A un network di pagamento, invece, è stato fornito l’algoritmo con cui individuare, nella massa delle transazioni, quelle sospette e quelle fraudolente.
Ed è solo l’inizio, sostengono gli specialisti: diventiamo dati per l’Intelligenza Artificiale e allo stesso tempo i suoi neuroni ci promettono super-poteri al di là dell’immaginazione. Nel grande gioco delle previsioni è il futuro lontano a restare insondabile.

La Stampa 8.8.18
Stelle cadenti
Una notte dei desideri più luminosa che mai
di Walter Ferreri*


Quest’anno la massima attività dello sciame delle Perseidi, più note come «Lacrime di San Lorenzo» è attesa nella notte fra domenica 12 e lunedì 13 agosto, con l’enorme vantaggio dell’assenza del disturbo lunare. Infatti, come è facilmente deducibile dal fatto che si ha il Novilunio l’11 (con tanto di eclisse parziale di Sole visibile solo molto a Nord dell’Italia), della Luna è perfino difficile scorgerne la sottile falce nel cielo serale.
Nel passato la massima attività di questo sciame, uno dei fenomeni astronomici più popolari che il cielo ci regala, si aveva la notte del 10 agosto, donde il ricordo del martirio di S. Lorenzo, ma, col trascorrere dei secoli, uno sfasamento dell’orbita della cometa che l’ha generato, ha spostato il picco di attività di due giorni.
La storia
Lontano dall’illuminazione artificiale e guardando in direzione Nord-Est, nelle ore della massima attività (dalla mezzanotte del 12 alle prime ore del 13) di meteore se ne potranno vedere parecchie, circa una ventina all’ora: in media una scia ogni tre minuti. Ma le Perseidi, così chiamate perché appaiono scaturire dalla Costellazione di Perseo, hanno anche la caratteristica di «presentarsi in gruppi», ovvero se ne possono scorgere diverse a poco tempo l’una dall’altra per poi dover attendere parecchi minuti prima di scorgerne un’altra. Il nome popolare è «stelle cadenti» in ossequio alla tradizione: infatti gli antichi ritenevano che fossero stelle che «si staccavano» dal cielo per cadere sulla terra. Ma la terminologia corretta è «meteore»; le «meteoriti», invece, sono gli eventuali frammenti che giungono fino al suolo.
La scienza
L’origine delle Perseidi è dovuto ad una cometa, la 109P/Swift-Tuttle, come ebbe a scoprire nel XIX secolo un astronomo italiano (Giovanni V. Schiaparelli). Questa cometa, come consuetudine per molte altre, ha disperso il suo materiale lungo il percorso intorno al Sole; quando la Terra lo attraversa, «raccoglie» un po’ di queste particelle che, entrando ad alta velocità nella nostra atmosfera, bruciano per attrito. Quasi sempre sono particelle assai piccole, come pietruzze di ghiaia, ma che incontriamo a oltre 200 mila km/ora!
Il primo e più importante consiglio per osservarle è quello di recarsi in un sito buio; sotto questo aspetto sono fortunati gli abitanti delle campagne o dei luoghi lontani dalle luci. Gli abitanti delle città, invece, devono considerare uno spostamento, magari in un campeggio. Durante l’osservazione assumete una posizione confortevole, ad esempio distesi in uno sdraio. Anche se si è ad agosto, considerate che durante la notte la temperatura può abbassarsi ad un livello tale da richiedere una coperta e non dimenticate un repellente per gli insetti.
I suggerimenti
Dal 9 al 15 agosto ci si può attendere di vedere una meteora ogni decina di minuti, mentre dall’11 al 14 se ne dovrebbe vedere una ogni pochi minuti. È più vantaggioso tenere sotto controllo una regione di cielo verso l’alto dove il cielo è più buio, che non fissare la regione Nord-Est prossima all’orizzonte. Dopo la mezzanotte, la posizione dalla quale le meteore appaiono scaturire è più alta e per questo il loro numero dovrebbe all’incirca raddoppiare rispetto a quelle visibili nella prima parte della notte. Il punto dal quale appaiono scaturire (il radiante) è prossimo allo Zenit, cioè proprio sopra la nostra testa, poco prima del crepuscolo mattutino. Infine, ricordiamo che lo «strumento» migliore per osservarle è la nostra vista; meglio dei binocoli e molto meglio dei telescopi.
Non rimane che augurarci un cielo sereno!
*astronomo

Repubblica 8.8.18
La serie tv
Fotografa e femminista Monica Bellucci sarà Tina Modotti
di Silvia Fumarola


ROMA Negli ultimi anni lo ha ripetuto in tutte le interviste. Quando le chiedevano "chi vorrebbe interpretare?", Monica Bellucci rispondeva: Tina Modotti. Una donna speciale, piena di talento, fotografa, attrice, rivoluzionaria, femminista ante litteram. Amica di Frida Kahlo e Pablo Neruda.
Una guerriera. Ora il sogno si avvera. Variety annuncia che l’attrice sarà protagonista di Radical Eye: The Life and Times of Tina Modotti, serie in sei parti diretta da uno dei più talentuosi giovani registi italiani, Edoardo De Angelis. È suo il film rivelazione Indivisibili, presentato alla Mostra di Venezia nel 2016, poi premiato con sei David di Donatello e altrettanti Nastri d’Argento.
Una vita da romanzo, quella di Tina Modotti. Nata a Udine emigra in America nel 1913, dove inizia la carriera di attrice nel cinema muto. Divenne famosa negli anni Trenta in Messico e in Europa grazie alle sue fotografie e allo spirito rivoluzionario. Femminista ante litteram ha combattuto in prima linea per i diritti delle donne. Un’artista complessa che ha precorso i tempi, non stupisce che Bellucci, 53 anni, sognasse di vestire i suoi panni. In Frida, il film di Julie Taymor in cui Salma Hayek interpretava il suo idolo, la pittrice messicana Frida Kahlo, era stata Ashley Judd a interpretare Tina Modotti. La serie sulla fotografa sarà girata tra il Messico, l’Italia e Los Angeles.
Dopo il ruolo della cantante lirica di Mozart in the Jungle, l’attrice italiana torna in tv. La produzione è stata affidata a Pinball London, società gestita da Paula Vaccaro e da suo marito Aaron Brookner, che firma anche la sceneggiatura insieme alla produttrice spagnola Elena Manrique e ai messicani AG Studios fondati da Alex Garcia.
Il progetto con Bellucci è nato dopo il film con Kusturica.
«Quando abbiamo finito Milky Road », ha spiegato Vaccaro, «ho detto a Monica: "Cosa ti piacerebbe davvero fare dopo?".
Siamo stati a casa sua e lei è tornata con un libro di Tina Modotti. "Questo è il ruolo che mi piacerebbe davvero fare.
È il ruolo che ho nel mio cuore"».

Repubblica 8.8.18
"Il vecchio e il Tour", quando Bartali evitò la guerra civile
di Antonio Dipollina


Domenica in seconda serata Rai2 ha riproposto il doc Il vecchio e il Tour: ovvero Gino Bartali e la sua impresa più celebre a settant’anni di distanza. L’estate del 48, l’attentato a Togliatti, le telefonate frenetiche dei big della politica a Bartali impegnato al Tour e tutto che poi si mescola tra realtà e leggenda e il paese che invece di scendere in piazza per bruciare tutto lo fa per l’impresa sull’Izoard… Michele Dalai si fa un po’ prendere dalla smania — pressoché collettiva ormai — della narrazione in prima persona: passerà anche questa, l’importante è non dimenticarsi le celebrazioni con immagini d’epoca che si prendono l’attenzione e l’emozione tutta intera (Coppi e Bartali che cantano da Mario Riva li si rivedrebbe in loop per giorni) e qui sono emozione anche superiore le interviste con il primo piano di Ginettaccio in una sorta di scultura definitiva dell’uomo giusto, anche nel porgersi, nel parlare e perfino nel cantare. La storia è nota, Togliatti parla dal letto d’ospedale alla radio, Bartali in Francia decide che a 34 anni non è poi così vecchio — lo chiamano così, da cui il titolo. Come direbbe Bruno Pizzul, presente nel doc, tutto molto bello.