domenica 24 giugno 2018

Corriere La Lettura 24.6.18
Non salverò nessuna vita con i romanzi (tranne, forse, la mia)
di Paolo Giordano


Della mia infanzia ricordo i videotape. Quando mio padre guardava i filmati degli interventi chirurgici sul televisore del soggiorno, io mi fermavo dietro il divano, attratto dall’interno svelato di quei corpi femminili: gli organi irrorati di sangue e gli strumenti che ci rovistavano dentro, che tagliavano, aspiravano, tamponavano, «clampavano». Avevo il sospetto che guardare non mi facesse bene, ma non riuscivo a staccarmi. Se azzardavo una domanda, mio padre rispondeva sbrigativamente, come se gli stessi turbando la concentrazione. Eppure non mi allontanava mai. Immagino che considerasse quei video un modo come un altro di avvicinarmi a una verità tanto cruda quanto banale: non siamo altro che anatomia, ammassi di cellule e vertebre e tessuti connettivi.
Un giorno eravamo insieme all’aeroporto. Un signore enorme si è messo a sputare fiotti di sangue, che in un attimo gli hanno imbrattato la maglietta bianca, poi è crollato a terra di faccia, con uno schianto. Mio padre è corso da lui. Senza alcun ribrezzo, come se neanche vedesse tutto quel sangue, l’ha girato e gli ha praticato un massaggio cardiaco. Io osservavo tutto da distante, impalato dove mi aveva ordinato di restare, in preda a una strana eccitazione. All’arrivo dei soccorsi mio padre è tornato da me, per nulla scosso, e abbiamo proseguito verso il gate senza dire una parola. Quando ho trovato il coraggio di domandargli cosa fosse successo all’uomo con la maglietta insanguinata, me l’ha spiegato in poche frasi asciutte, tecniche. Sempre più in ansia, gli ho chiesto se sarebbe sopravvissuto e lui ha risposto con la stessa imperturbabilità: «Quasi sicuramente no». Non mi ha posato una mano sulla spalla, non ha cercato di addolcire la notizia, ha enunciato quella che per lui era la verità clinica e basta. Credo di non averlo mai ammirato tanto come in quel momento.
I mestieri dei genitori fanno sempre la differenza nella vita dei figli. Un padre ginecologo, ho l’impressione, fa solo un po’ più di differenza. La nostra quotidianità era caratterizzata da un vocabolario speciale, che mi affascinava e atterriva, e che sapevo non esistere altrove. Da bambino ho intuito lo scopo di una «spirale» prima di associarla a una forma geometrica astratta, e nell’astuccio di scuola avevo spesso articoli di cancelleria sponsorizzati da pillole anticoncezionali — Ginoden, Arianna, Diane —, che per fortuna i miei compagni non riconoscevano, sebbene si mostrassero un po’ sospettosi verso quell’eccesso di rosa. Ho familiarizzato, senza capirli, con termini come «amniocentesi» ed «endometrio», «laparoscopia» e «colposcopia», con termini come «retroverso» e «transvaginale» e con certe loro implicazioni oscure, prima d’incontrare parole assai più ovvie, tipo «biliardo». Il nostro numero di casa era sull’elenco telefonico, quindi c’erano chiamate a cui rispondere a tutte le ore del giorno e della notte. Avevo memorizzato una serie di formule e sapevo applicarle a seconda dei casi. Capitava spesso che le signore fossero in uno stato di estrema agitazione. Nonostante sentissero dall’altra parte la voce di un bambino, in molte non resistevano alla tentazione di raccontarmi nei dettagli quale fosse il problema, se un’improvvisa eruzione cutanea, delle perdite anomale a metà ciclo, l’indecifrabilità della calligrafia di mio padre sulla ricetta oppure la posologia di un farmaco: per caso la sapevo io? A volte si mettevano a piangere, allora attivavo il protocollo di emergenza per farle parlare subito «con il dottore».
A cena ascoltavo i resoconti delle giornate in ospedale, resoconti in cui i nomi delle pazienti venivano sostituiti quasi sempre dalla loro condizione clinica: «l’extrauterina di ieri», «l’isterectomia di domani», «un altro cerchiaggio». Biasimavo mio padre per questo, la sua mi sembrava una mancanza di tatto, prima di comprendere che si trattava in realtà di difese linguistiche necessarie, che quello era il solo modo possibile di arginare il coinvolgimento emotivo schiacciante del suo lavoro.
Di quell’età ricordo la frustrazione di non capire le parole, d’intuire la vastità del lessico che mi circondava e la mia inadeguatezza nei suoi confronti. Certo, avrei potuto fare più domande a mio padre, ma non me la sentivo. Il suo sapere m’intimoriva. Oppure ci sarebbe stata la Treccani verde chiusa nella libreria della mansarda, il vetro ne lasciava vedere le indicazioni alfabetiche in caratteri dorati e la chiave era sempre a disposizione nella toppa, ma non osavo affidarmi nemmeno a quella. Forse perché, quando ci avevo provato, ero rimasto più confuso di prima. Ciò che facevo, era riempire il vuoto di senso lasciato da quel gergo misterioso con immagini del tutto personali, spesso riconducibili al viluppo di organi che sbirciavo nei videotape, alcune delle quali durano ancora oggi.
Quella frustrazione è stata importante. Ho idea che sia stata responsabile di molte scelte che avrei fatto negli anni a venire. Quando, dopo il diploma, mi sono iscritto all’università di Fisica, è stato soprattutto perché desideravo appropriarmi di un linguaggio assoluto, capace di descrivere tanto le meccaniche siderali quanto quelle microscopiche dell’universo. E, in effetti, nel periodo universitario ho sperimentato il conforto — no, non il conforto: il senso di supremazia, di trovarmi immerso in un linguaggio scientifico. Nulla che desse più piacere a noi giovani fisici dell’esprimerci usando un codice che pochi altri erano in grado di comprendere, un linguaggio per iniziati. Al bar facevamo sempre in modo che qualcuno ci ascoltasse.
Raggiunsi a un certo punto la convinzione che le parole della scienza fossero le migliori di tutte, perché erano neutrali, si limitavano a indicare i concetti a cui facevano riferimento senza enfasi, senza complicazioni sentimentali, senza ambiguità. La scienza tutta, in un certo senso, mi appariva così: un luogo impermeabile alle brutture del mondo, equanime, disinteressato. Con le parole della fisica e della matematica sarei stato in grado di tenere a bada la paura, proprio come mio padre mentre soccorreva l’uomo all’aeroporto. Ma potevo spingermi oltre rispetto a dov’era arrivato lui. Il mio sogno delirante si avvicinò per un periodo alla volontà di esprimermi solo attraverso il formalismo matematico, di ricondurre tutto a matrici e distribuzioni di probabilità, a sistemi non lineari e trasformate di Fourier. Dicevo frasi senza senso, come: «La vita andrebbe compresa nello spazio delle fasi». Chi aveva più bisogno dell’approssimazione del linguaggio comune, una volta sfiorata l’immensità racchiusa nell’equazione di Boltzmann? Oppure una volta intuito, seppur fuggevolmente, che esistono infiniti più infiniti di altri, e che possiamo metterli in ordine come ci ha insegnato Cantor?
Qualche giorno dopo la laurea ero seduto in cucina con i miei genitori. Mio padre mi ha detto: «Va bene, hai fatto quello che volevi. Adesso puoi smettere di giocare e prenderti una laurea seria». Sono scoppiato a ridere, era chiaro che stesse scherzando. Stava scherzando, vero? Lui è rimasto perfettamente serio. Sapevo di avergli procurato una delusione quando avevo scartato l’ipotesi di medicina senza nemmeno discuterne con lui, ma ero altrettanto sicuro che gli fosse passata. Invece era disposto a sostenermi economicamente per altri sei o chissà quanti anni di studi, a patto che arrivassi infine a possedere quello che per lui restava l’unico linguaggio adeguato a spiegare il mondo.
Non molti mesi prima era morta l’ostetrica con cui aveva lavorato a stretto contatto per lungo tempo. Si era ammalata di cancro e, quando l’oncologia aveva gettato la spugna, era andata in India a farsi curare da un santone. Mi sembrava che in cuor suo mio padre non gliel’avesse mai perdonato come se, con quella debolezza, lei avesse voltato le spalle a tutto ciò in cui avevano creduto insieme, vanificato ogni sforzo congiunto delle loro vite. Ebbene, in una maniera diversa, l’avevo fatto anch’io, l’ho capito il giorno in cui, fresco di laurea, mi ha proposto d’iscrivermi a medicina. E quello stesso giorno ho capito che la profondità del mio tradimento non era ancora abbastanza. Mi ero allontanato dalle sue parole, è vero, ma ne avevo scelte altre troppo simili, ero rimasto dentro il suo cono d’ombra, al sicuro nel dominio scientifico che gli apparteneva e nel quale non mi sarei mai differenziato del tutto da lui. In effetti, avevo già iniziato a scrivere dei racconti, nessuno lo sapeva e d’un tratto intuivo il perché di quella segretezza, verso chi era diretto il sottile senso di trasgressione che provavo facendolo.
Lo sappiamo: ogni figlio, per esistere, deve tradire il padre. E una lingua nuova, una lingua per sé stessi, è il tradimento dei tradimenti. Secondo Benjamin, che interpreta la Genesi, il linguaggio è la prima disubbidienza a Dio che infetta il Paradiso Terrestre, «il peccato originale è l’atto di nascita della parola umana». Mi chiedo tuttavia se mio padre sia cosciente di averlo fatto a sua volta, molto prima di me. Sono pochissime le storie della sua giovinezza alle quali mi abbia dato accesso, forse due soltanto: la prima riguarda il suo esordio al liceo classico in centro città, lo sforzo avvilente di ripulirsi del dialetto piemontese per adattarsi all’italiano; la seconda è l’ostruzionismo tenace che mio nonno fece al proseguimento dei suoi studi dopo la maturità, un ostruzionismo di cui non ha mai fatto ammenda, neppure dopo. Ecco, mi domando se mio padre si renda conto di aver tradito mio nonno con il linguaggio, assai più drasticamente di come ho fatto io quando è arrivato il mio turno.
Un giorno, avevo sei o sette anni, mi portò a tagliare i capelli dal suo barbiere. Si trattava di un’eccezione, perché di solito ero affidato al contesto più protetto della parrucchiera di mia madre. Il barbiere teneva a disposizione dei clienti una selezione ampia di fumetti porno, segno di un’epoca che stava già scomparendo. Ne avevo subito preso uno, mascherandolo dietro una copertina di Tex, e mi ero messo a sfogliarlo con un nodo alla gola. Ma mio padre sapeva che non sopportavo Tex, oppure dovevo avere gli occhi così spalancati da farlo insospettire, fatto sta che mi aveva colto in flagrante, mentre fissavo la vignetta di un pompino. La sera, a cena, mi aveva preso in giro. Già ch’ero stato denunciato, avevo pensato che fosse l’occasione buona per togliermi un dubbio che mi vorticava in testa da mesi, e avevo domandato se la pratica che avevo visto nel fumetto fosse una «emestruazione», marcando bene la «e» iniziale.
È il ricordo di un’umiliazione. Ma è uno dei ricordi al quale sono più attaccato. Molta della tensione che nel tempo avrei sviluppato verso le parole, molto del desiderio che avrei avuto verso di esse, si è giocato in quel fraintendimento. Se mio padre si addentrava nelle cavità proibite che vedevo nei videotape, io, ascoltandolo, imparavo ad addentrarmi nelle gallerie carsiche delle parole. Mi sono nascosto nello spazio fra i suoi termini medici e il loro significato, e in quell’intervallo buio è nata la mia immaginazione.
Ci sono voluti molti anni e molti sforzi per scrollarmi di dosso l’epiteto di «figlio del dottore», per sradicarlo anzitutto dalla mia mente. Un padre che nel corso della sua vita ha portato alla luce non centinaia, ma migliaia di bambini e bambine, significa una moltitudine di fratellastri e sorellastre sconosciuti, significa riserve di gratitudine eterna sparse nei luoghi più inaspettati. E quando quel padre ha fatto ormai nascere i figli dei figli dei figli, la moltitudine diventa una strana, pressante famiglia invisibile. Ancora oggi, in situazioni insospettabili, capita che una signora si avvicini e mi sussurri: «Suo padre mi ha fatto nascere», con gli occhi accesi da un bagliore. A cosa si può aspirare di più in un’esistenza?
Così, sebbene nel tempo mi sia avvicinato a posizioni critiche nei confronti del «potere medico», a condividere quello che dei dottori dicevano sarcasticamente Foucault e Deleuze e Thomas Bernhard, la mia ammirazione è rimasta intaccata, ferma al giorno in cui mio padre soccorse l’uomo collassato in aeroporto. E la fantasia, irrealizzabile, è sempre la stessa: in volo, una hostess chiede al microfono se c’è un medico a bordo, io mi alzo e dico: «Eccomi!» Perché so bene, dentro di me, che a prescindere dall’impegno profuso e dai risultati che magari ne verranno, non salverò nessuna vita con la scrittura, se non forse la mia.