sabato 12 maggio 2018

La Bottega del Barbieri 11.5.8
In 15 per svelare «Il falso mito di Bergoglio»
Recensione di Francesco Troccoli a un importante libro fuori dal coro che vorrebbe il papa “un rivoluzionario”

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il manifesto 12.5.18
Gramsci, lo strumento dell’egemonia
Salone del Libro Di Torino. «Gramsci per la scuola», di Giuseppe Benedetti e Donatella Coccoli
Oggi alle 14.30 presso lo Spazio Autori con Marco Revelli che ha prefato il volume
Street-art Bologna
di Lelio La Porta


Il titolo di un libro è, il più delle volte, indicativo del contenuto del lavoro stesso. Se ci si trova, quindi, davanti ad un lavoro intitolato Gramsci per la scuola. Conoscere è vivere, di Giuseppe Benedetti e Donatella Coccoli (L’Asino d’oro, pp. 300, euro 18), si dovrebbe essere predisposti alla lettura di un testo che affronti il problema della mancata conoscenza di Gramsci nelle scuole italiane. Chiusa l’ultima pagina, ripercorso l’indice, arrivati al punto di tirare le somme, si nota che su dieci capitoli soltanto quelli fra il sesto e il nono sono dedicati al rapporto fra Gramsci e la scuola, o meglio agli scritti da Gramsci dedicati alla scuola.
Alcune questioni che, nella pedagogia gramsciana, occupano un posto di primo piano, come «la scuola disinteressata» e lo stesso fondamentale concetto di «für ewig», vengono affrontati nel contesto di un’analisi che, per voler essere onnicomprensiva, corre il rischio di rivelarsi insoddisfacente. Infatti, pur affrontando in modo ponderoso i pensieri del grande sardo sulla scuola e proponendo quegli aspetti della sua riflessione che, se presi in considerazione, potrebbero invertire la tendenza delle sorti, ahinoi!, purtroppo poco «magnifiche e progressive» della stessa istituzione, il libro manca di quel furore «eroico» capace di porre al centro dell’attenzione quello che, nella scuola, è il problema, ossia il rapporto fra docenti e discenti che si configura ancora nei termini del dominio e, conseguentemente, della subalternità a dispetto del nesso dialettico di cui scriveva Gramsci (basti pensare al Club di vita morale oppure alle note carcerarie sul principio educativo). Gramsci, perciò, pone al centro del circuito docente-discente il ruolo dirigente del primo che, nella sua posizione, dovrebbe assicurare la centralità dell’obiettivo dell’apprendimento non nel valore pratico-professionale delle nozioni acquisite bensì nella proposta di uno studio che sia disinteressato proprio perché mirato allo sviluppo dell’interesse. Educare ergo istruire, ossia portare a compimento la prometeica impresa di porre le premesse di una formazione che, in modo spontaneo e non indotto, avendo la storia come riferimento, consenta l’apprendimento di quelle nozioni concrete che, uniche, riescono anche ad istruire. In una parola, la formazione.
Va notata en passant, come peraltro mette in evidenza Marco Revelli nella sua Prefazione, la presenza del nono capitolo «inessenziale e in qualche misura ingiusto verso una figura che ha rappresentato molto per la mia generazione e la nostra rivolta giovanile»: si tratta di don Lorenzo Milani, definito un «anti-Gramsci nella scuola».
La parte finale del lavoro è dedicata alle letture su Gramsci, in specie in relazione al suo pensiero pedagogico. Gli strali polemici degli autori vanno a colpire Togliatti e il Pci che, secondo loro, hanno sempre usato Gramsci a fini partitici (con particolare riferimento alla religione e all’articolo 7 della Costituzione). Fra i tanti contributi citati non compare, a sostenere lo stretto legame fra pedagogia e politica, quello dell’ultimo segretario comunista, Alessandro Natta, che riflettendo intorno ai problemi della scuola in Gramsci, faceva presente che la «scuola è lo strumento dell’egemonia». Inoltre c’è un altro aspetto di incompletezza nel lavoro di Benedetti e Coccoli; si tratta dei riferimenti alle ultime edizioni delle opere gramsciane.
Pur citandola continuamente, dimenticano di ricordare che l’edizione più completa delle lettere carcerarie è quella del 1996 edita da Sellerio, ripubblicata nel 2013 dalla stessa casa editrice, e curata da Antonio A. Santucci.
Se è vero che conoscere è vivere, bisogna individuare quale sia il Gramsci per la scuola: mi sembra che il più adatto allo stato presente delle nostre scuole sia il maestro di metodo comunicato attraverso il lavoro di chi insegna. Il maestro di rigore, di diligenza, di compostezza, di concentrazione, di libertà; per questo serve far leggere Gramsci nelle scuole agli studenti, far leggere gli scritti di Gramsci per le scuole agli studenti e non riassumere il suo pensiero pedagogico ad uso degli addetti ai lavori.

Il Fatto 12.5.18
Gli amori comunisti di Luciana Castellina
“Vi racconto le passioni che non finirono in orrori”
L’autrice presenta il libro oggi al Lingotto
di Luciana Castellina


Pubblichiamo di seguito un testo scritto per noi da Luciana Castellina sulle ragioni che l’hanno portata al libro “Amori comunisti”, dal 10 maggio in libreria. L’autrice lo presenterà oggi al Salone del Libro di Torino.

Mi rendo conto che col titolo di questo mio libro – Amori Comunisti – passerò per un’imbrogliona. Appena ne parlo, non c’è nessuno che non mi guardi con soddisfatta complicità, chiedendomi se si tratta dei miei amori o di quelli del Pci. Insomma: di un libro di pettegolezzi, che a tutti, come tale, fa gola. Visto che così non è, dopo averlo letto mi giudicheranno un’impostora.
No, non parlo di amori miei, né di casa nostra. Sono amori comunisti stranieri, vissuti da persone che mi è capitato di incontrare, e di cui, un po’ per avventura e un po’ per curiosità, ho finito per conoscere bene la storia. E questa storia mi ha coinvolto, commosso, fatto soffrire.
Perché si tratta di amori drammatici, intrecciati fino in fondo alle vicende dolorose e travagliate dei rispettivi paesi, che hanno segnato profondamente la vita dei protagonisti. Come è sempre accaduto ai comunisti e a tutti quelli che hanno vissuto con dedizione totale una grande passione politica.
Sono storie che conosco da molto tempo e che mi hanno sempre accompagnata. Se ho deciso finalmente di raccontarle è anche per una ragione polemica che qui vi confesso: stufa di sentir parlare degli errori e orrori comunisti, ho sentito il bisogno di raccontarne gli amori: sono tre storie esemplari – per fortuna ci sono comunisti che in tempi e in luoghi diversi hanno potuto condurre una vita normale – e tuttavia analoghe a quelle di tanti sconosciuti, che hanno pagato un prezzo terribile per le loro battaglie: l’amore e la vita.
Furono grandi amori, a dimostrare che l’amore, come si usa dire, vince ogni cosa. Per infelice che sia, è sempre la cosa più bella che ti possa capitare.
Non si tratta solo di vicende amorose, ma anche di pagine di storia relativamente sconosciute. Nemmeno io le conoscevo bene e sono state le vicende personali dei loro protagonisti a rivelarmele nei particolari. Storie che in parte mi sono state direttamente raccontate e in parte ho investigato in libri poco noti.
Due di queste riguardano paesi bellissimi ma disgraziati, direi da secoli e fino ai nostri giorni: la Turchia e la Grecia. Ho conosciuto entrambi – così credevo – a fondo, perché da giornalista mi sono dovuta occupare molte volte delle loro sfortunate vicende, facendo negli ultimi sessant’anni avanti e indietro dai loro territori. Ma sapevo poco di cosa fosse stata davvero, nel contesto greco, la particolarissima storia di Creta, dove nel ‘41 va in scena – per opera della Luftwaffe – la prima invasione dal cielo della storia militare; dove pastori greci e sofisticati ufficiali britannici collaborano, pur nell’estrema, reciproca diffidenza, contro l’occupazione tedesca ma dove solo qualche mese dopo la liberazione i combattenti della Resistenza tornano in montagna per sfuggire alle aggressioni fasciste. È l’inizio di una guerra civile che lascerà senza alternativa i guerriglieri cretesi che, chiusi dentro l’isola, non potranno, una volta sconfitti, mettersi in salvo oltre confini territorialmente contigui.
E ancora meno sapevo della Turchia subito dopo la caduta dell’Impero Ottomano, della sorte di una generazione che si entusiasma per il modernizzatore Atatürk per poi subire condanne spaventevoli. Fra le vittime un grande poeta, Nazim Hikmet, delle cui prigioni sapevo per via delle sue poesie dal carcere, ma non le rocambolesche avventure.
Del paese dove si colloca la terza storia – gli Stati Uniti – ero convinta di sapere tutto; e anche delle persecuzioni imposte ai comunisti durante il maccartismo. Ma anche in questo caso, fatta eccezione per i processi di cui furono vittime illustri tanti sceneggiatori di Hollywood, mi illudevo: ero lontana dall’immaginare il numero dei molti costretti alla clandestinità e al carcere.
Mi rendo conto che sto facendo la recensione di un libro scritto da me, e questo è imbarazzante. Perché il genere, se non nei rari casi di clamorose stroncature, è elegiaco. E per non dover scegliere fra vanità e denigrazione, smetto subito.

il manifesto 12.5.18
Prigionieri degli spiriti
Vite da pazzi. Un libro raccoglie la testimonianza dell'opera a favore dei malati di mente africani di Grégoire Ahongbonon (che sarà ospite al Salone del libro). Ne pubblichiamo un estratto.
di Rodolfo Casadei


Grégoire non è ingenuo, non è un idealista che vive fra le nuvole. Sa che a volte i pazzi possono diventare pericolosi per sé e per gli altri, gli è capitato di essere schiaffeggiato da qualcuno di loro o di finire fuori strada con l’auto per l’azione irrazionale di un malato trasportato. Ma sa anche quello che la psichiatria e la società moderne ci hanno messo molti anni ad ammettere: che la contenzione del malato da ricorso eccezionale passa ad essere facilmente prassi banale e continuativa, che rassicura i sani mentre diventa un’oppressione permanente della persona. Le catene non sono terapeutiche: peggiorano le condizioni psicologiche e fisiche del malato. Permettono alla società di non occuparsi di lui, alla famiglia di non vergognarsi davanti ai vicini e ai conoscenti, e soprattutto tengono lontano qualcuno diventato qualcosa che fa paura: lo rendono innocuo mentre lo reificano.
Grégoire Ahongbonon. Foto di Fabrizio Arrigossi
I malati mentali fanno paura. Paura del contagio, della contaminazione, prima ancora che paura di danni fisici o materiali da atti irrazionali del demente. L’africana paura che gli spiriti che hanno colpito il malato possano colpire chi lo avvicina e determinare anche in lui la possessione e la malattia è la versione simbolica di una paura universale: quella di diventare pazzi a propria volta, isolati e inavvicinabili da tutti, trascinati nella follia dagli stessi malati psichici a causa di contatti ravvicinati con essi.
Agli inizi della loro storia, per quasi due anni Grégoire e la San Camillo si sono occupati di malati mentali raccogliendoli dalle strade, senza avere conoscenza che esistevano malati ridotti in catene o messi ai ceppi dai loro stessi familiari, o da sedicenti guaritori. La vigilia della domenica delle Palme del 1994, una donna telefona a Grégoire e lo informa che in un villaggio a quaranta chilometri da Bouaké c’è un malato immobilizzato da molto tempo dai suoi familiari, in condizioni di salute deplorevoli. «Comincia già a fare buio quando mi arriva la telefonata di una donna», racconta Grégoire. «Mi dice: ’So che lei ha creato un centro per la cura dei malati mentali, mio fratello è gravemente malato da anni, ma la sua famiglia non fa niente per lui. Lo tengono legato e incatenato al suolo dentro a una capanna. Lei deve venire ad aiutarlo’. Era la prima volta che qualcuno mi parlava di malati incatenati, e sono rima- sto sorpreso. Non ho perduto tempo, sono partito la sera stessa e sono arrivato al villaggio. Ho trovato la casa e ho chiesto ai genitori del malato di poter vedere il loro ragazzo. Si sono arrabbiati con la figlia che mi aveva chiamato e con me: ’Perché hai fatto venire qui della gente? Il nostro malato è marcio, non si può fare più niente’. Ho reagito: ’Un uomo marcio? Cosa vuol dire? Anche se è marcio, voglio vederlo’.
Siccome continuavano a rifiutarsi di mostrarmi il malato, li ho minacciati di chiamare la polizia e denunciarli per sequestro di persona. Visto il trambusto, è intervenuto anche il capovillaggio. Ha cercato di calmare gli animi e alla fine è stato lui a convincere la famiglia a mostrarmi il loro malato. Avevo visto tanti pazzi in pessime condizioni, in stato di abbandono per la strada, ma la scena che mi si è presentata davanti, quella notte, è stata sconvolgente. L’uomo era incatenato al suolo nella stessa posizione di Gesù in croce, le braccia e le gambe bloccate dal fil di ferro. Il ferro era entrato dentro la carne, si confondeva con la carne: carne e ferro erano diventati una massa indistinguibile. Era veramente marcio, coperto di ascessi. Ero deciso a portarlo via da lì, ma non avevo con me strumenti adatti a liberarlo, e non potevo chiederli alla famiglia. Tornai la mattina dopo, domenica delle Palme, insieme a una suora infermiera e a un paio di cesoie, con cui tagliai il fil di ferro facendo bene attenzione a non ferire il malato. Si chiamava Kouakou e aveva 21 anni. Non si reggeva in piedi, dovevamo sorreggerlo noi. Mi disse: ’Signore, non so come ringraziarvi. Non capisco perché i miei genitori mi hanno fatto questo, io non sono cattivo’. Poche settimane dopo è morto, perché le infezioni non erano più curabili, la setticemia troppo avanzata. Ma almeno è morto con dignità, come un uomo. Da quel giorno ho cominciato a viaggiare in lungo e in largo per la regione, andando in tutti i villaggi da cui mi arrivavano notizie di malati mentali incatenati o ai ceppi. Da allora porto sempre in auto gli ’attrezzi del lavoro’».
Gli attrezzi sono cesoie, sega, seghetto, mazza e martello. Da quella domenica delle Palme sono passati più di vent’anni, e Grégoire calcola di avere in tale lasso di tempo liberato dalle catene un migliaio di persone, compresi alcuni che erano tenuti prigionieri nei campi di preghiera dei sedicenti guaritori. Per alcuni anni è stata un’attività che Grégoire ha condotto in prima persona, con il supporto di qualche aiutante.
Negli ultimi tempi sono state create équipe che operano su appuntamento, per quelle famiglie che vogliono affidare il loro caro a un centro di accoglienza della San Camillo, ma fino all’ultimo momento lo tengono bloccato in una stanza o in una capanna perché non si fidano di quello che potrebbe fare. Quando l’équipe arriva, alcune famiglie restano a guardare mentre gli incaricati sciolgono l’infelice dalla sua prigionia, altre partecipano attivamente alle operazioni di liberazione.
«Non ricordo tutte le liberazioni che ho compiuto personalmente, sono state centinaia, e mi capita di farne anche ai giorni nostri», spiega Grégoire. «Non ho più dovuto litigare con le famiglie come mi successe la prima volta per liberare Kouakou. Io capisco le famiglie: non sanno cosa fare, temono che il loro congiunto faccia del male ad altri, e poi c’è la paura degli spiriti. Ma se andate da loro dicendo che del loro caro vi occuperete voi, che glielo riporterete guarito, non si oppongono, anzi vi ringraziano». Alcuni di loro sono incatenati da poche settimane, altri da anni che a volte si contano in doppia cifra. La persona che è rimasta più tempo incatenata fra quelle che Grégoire ha liberato è una certa Janine, tenuta fuori di casa per ben trentasei anni, prigioniera all’aperto nei pressi di un immondezzaio ai bordi del villaggio, un braccio bloccato in un tronco. «È morta di vecchiaia qualche anno fa. La riportammo al villaggio dopo tre anni trascorsi in uno dei nostri centri. Quando fece ritorno la accolsero con una grande festa, fu commovente».

Repubblica 12.5.18
Estetica e psicoanalisi
L’arte che guarisce la nostra ferita
È un lavoro che sa che il dolore, come la morte, è senza immagine, senza suono e senza nome
di Massimo Recalcati


Nel gennaio del 1968 un terremoto brutale cancella Gibellina nella valle del Belice. La nuova Gibellina verrà ricostruita a 20 chilometri di distanza. Architetti e artisti di tutto il mondo offrono i loro contributi alla ricostruzione.
L’invito verrà rivolto anche ad Alberto Burri che si reca sul luogo della tragedia, ma non trattiene le sue riserve: preferisce lavorare sulle macerie a cielo aperto della vecchia città piuttosto che donare un contributo per la ricostruzione di quella nuova. Di lì l’idea del grande Cretto: una enorme gettata di cemento bianco che avrebbe incorporato le macerie del terremoto. Scegliendo di non distanziarsi dall’orrore, di non retrocedere di fronte al luogo del dolore e della morte, Burri mostra la lezione più propria dell’arte: la sua dignità è tale solo se non evita l’incontro con il reale del trauma.
Per questa ragione Burri decise di costruire il suo Cretto proprio sul luogo dove l’orrore della morte aveva fatto la sua drammatica irruzione. Lo stesso si potrebbe dire, per fare un solo altro e notissimo esempio, di Guernica di Picasso che raffigura il terribile bombardamento nazifascista sulla città basca. Sono due esempi estremi: ci ricordano che l’evento dell’opera d’arte non può che commemorare la tragedia, non può che continuare ad evocarla. In questo senso non esiste arte spensierata. Perché il pensiero stesso nasce — come la psicoanalisi spiega — dalle prime esperienze di frustrazione, di incontro con l’assenza, con il vuoto. Per Schopenhauer il pensiero sorge, non tanto da un generico stupore rispetto alla manifestazione della vita, ma da un vero trauma, dal punctum pruriens del dolore e della morte, da una “spina nella carne” che non smette mai di pungere. E, tuttavia, se il lavoro dell’arte deve sapere tenere presso di sé il mortuum, la forza del negativo — come si esprimeva Hegel —, da questa vicinanza deve anche emergere con ostinazione talvolta ironica, se si pensa, per esempio, all’intensa opera di Maurizio Cattelan, che la morte non può essere l’ultima parola sulla vita. Il colmo del dolore non ha immagine, né suono e nemmeno può tradursi in parole; la sua esistenza è sempre nell’ordine dell’irrappresentabile.
Il trauma non si decifra simbolicamente come fosse una metafora ma tende a ripetersi silenziosamente. Per Freud il colmo del dolore consiste nell’irruzione di una quantità eccessiva di stimolazioni che offende e destabilizza l’equilibrio dell’apparato psichico e le sue povere difese. Non è vero che attraverso il lavoro del lutto possiamo liberarci — come credeva invece Freud — dal dolore della perdita. Ciascuno di noi porta con sé le cicatrici dei suoi dolori, dei suoi morti e delle sue molteplici separazioni.
Camminiamo nel mondo sempre circondati dalle assenze che hanno segnato la nostra vita e che continuano a essere presenti tra noi. Il lavoro del lutto non ci libera da queste assenze sempre presenti, ma ci permette di continuare a vivere, di resistere alla tentazione di scomparire insieme a chi abbiamo perduto. Se il dolore, come la morte, è senza immagine, senza suono e senza nome, la pratica dell’arte sorge come un possibile lavoro intorno a questo suo carattere inesprimibile. È questa la lezione di Burri con il suo Cretto, ma è questa altresì la lezione di tutta la grande arte: l’aspirazione alla forma sorge sempre da un confronto serrato con l’informe.
Ogni artista, come accade nel testo biblico a Giacobbe, lotta nella sua notte con un nemico mortale che non è altro che quella parte dell’esistenza che non può essere governata dall’ordine della ragione. Ogni artista si deve misurare col vuoto, con ciò che non ha forma, non ha limite, non ha un argine stabilito. Nell’arte contemporanea la barriera della bellezza come difesa fobico-ossessiva nei confronti del carattere ustionante di questo informe ha ceduto, i suoi veli sono stati strappati. Di qui l’emergenza dell’orrido, dell’abietto, del fondo informe della vita che rischia però di fondare una nuova retorica del brutto. Questa via dell’arte ha le gambe corte. Se la restaurazione della bellezza sull’informe del trauma non è più praticabile, allo stesso modo l’esibizione ostentata del brutto non sembra essere all’altezza del compito più proprio dell’arte. Piuttosto — come accade nei grandi artisti da Kounellis a Kiefer — si tratta di mettere in valore proprio lo strappo, lo squarcio del velo, il luogo da dove l’informe emerge. Con il rischio di sprofondare nel caos dell’informe, al di là del velo, di autodistruggersi, di rendere impossibile il sentimento estetico come tale. Il gusto per l’orrido che caratterizza le tendenze egemoni dell’arte contemporanea segue questa direzione destinata ad una seriale sterilità. L’evento della grande arte pulsa ancora quando lo strappo del velo non annichilisce l’evento della forma, ma la potenzia. Restare prossimi all’inesprimibile, all’eccedenza assoluta della vita e della morte.
Burri aveva visto bene il rischio di separarsi dal luogo della tragedia, di negare la presenza tra noi dello spettro della morte, dell’impossibile da governare.
Se, infatti, l’arte diventa puro divertissement, gioco linguistico, provocazione, essa perderà il suo rapporto particolare col dolore: non accontentarsi di celebrare il visibile e il suo ordine conformistico, ma discendere nell’abisso dell’informe, del Terrificante, dove incontriamo insieme alle macerie del mondo, le nostre. In questa discesa l’artista può indicarci la via in risalita della sublimazione: se la ferita non può essere curata, se nessun balsamo può guarirla, nessuna maceria, nessun dolore può essere l’ultima nota sulla vita. L’arte è all’altezza del suo compito quando, scriveva Beckett, ci ricorda che se è impossibile continuare è anche impossibile non continuare. È in questa forzatura che l’arte trova un passaggio stretto: se è impossibile dimenticare l’urto del trauma, il suo compito non è quello di ripetere il trauma, ma di elevare il suo urto alla dignità redentrice della poesia.

Corriere 12.5.18
Sotto accusa a Firenze
«Licenziati» i carabinieri della violenza
di Fiorenza Sarzanini


Marco Camuffo e Pietro Costa, i carabinieri accusati di aver violentato, lo scorso settembre, due studentesse americane a Firenze durante il servizio, sono stati «licenziati» dall’Arma. I due dovranno ora subire due processi: uno militare e uno davanti alla giustizia ordinaria.
Marco Camuffo e Pietro Costa sono stati destituiti dall’Arma. I due carabinieri accusati di aver violentato due studentesse americane la notte tra il 5 e il 6 settembre dello scorso anno a Firenze sono stati cacciati al termine dell’indagine disciplinare che era stata avviata subito dopo la denuncia presentata dalle ragazze. Immediata era scattata la sospensione dal servizio. E adesso, in attesa del rinvio a giudizio e dunque del processo sollecitato dai pubblici ministeri, è stata inflitta la sanzione più grave. Un provvedimento reso «inevitabile» dal comportamento dei militari. L’atto segna la volontà del comandante generale Giovanni Nistri di procedere in maniera rigorosa. E così, al di là delle contestazioni penali riguardo alla violenza sessuale, sulla decisione della commissione ha pesato il comportamento tenuto quella notte. E soprattutto la convinzione che non si sia trattato di un episodio sporadico.
Il primo illecito contestato si basa sulle modalità dell’intervento. Le verifiche hanno infatti consentito di accertare che dopo essere stati chiamati dalla centrale operativa per sedare una rissa all’interno della discoteca Flo, Camuffo e Costa si sono fermati al bar e hanno «agganciato» le due straniere. Con loro hanno cominciato a chiacchierare, si sono scambiati i numeri di cellulare, fino a proporre di uscire insieme dal locale e poi di accompagnarle a casa. Ed è in questo momento che scatta la seconda, gravissima violazione. Alle due giovani è stato infatti consentito di salire sulla macchina di servizio (mentre ciò può accadere soltanto in casi eccezionali) e, una volta giunti sotto il residence dove le americane alloggiavano con alcune amiche, l’auto è stata parcheggiata e i carabinieri sono entrati nel portone.
I due militari hanno negato di aver violentato le ragazze, ma entrambi hanno ammesso di aver avuto un rapporto sessuale. Sarà il giudice penale a dover stabilire se sussistano gli estremi dello stupro, dal punto di vista disciplinare quanto hanno fatto è stato ritenuto sufficiente per cacciarli. Anche perché in casi del genere il fatto di indossare una «divisa» rappresenta un vero e proprio abuso di autorità. In più i due sono usciti dalla zona di competenza, sia perché hanno lasciato la vettura di servizio incustodita nonostante fossero di turno. E sono stai «irreperibili» per circa un’ora. Quanto bastava mandarli via.

il manifesto 12.5.18
Israeliani e palestinesi in tre seminari della Fondazione Basso e Assopace
Iniziative. Parte oggi un ciclo di incontri con esponenti israeliani e palestinesi per fotografare l'attuale situazione politica, culturale e di repressione


Dalla Siria alla Palestina, il Medio Oriente è una pentola in ebollizione di tensioni accese da attori esterni e interni. Su questi temi la Fondazione Basso con Assopace Palestina ha deciso di lanciare tre seminari che vedranno protagonisti esponenti israeliani e palestinesi: si parte oggi alle 10.30 alla Casa della Pace di Monterotondo.
«La regione è l’emblema di una crisi diffusa della legalità internazionale, aggravata dalla logica unilaterale della presidenza Trump – ha spiegato ieri il presidente della Fondazione, Franco Ippolito – La nostra non intende essere una delle tante denunce, ma l’avvio di un percorso per fotografe la situazione in Israele, politica, di repressione, culturale».
All’evento di oggi partecipano il direttore dell’associazione israeliana per i diritti umani B’Tselem, Hagai El-Ad, il direttore dell’organizzazione palestinese in Israele Mossawa Jafar Farah, la ricercatrice israeliana Nurit Peled e Avraham Burg, politico e scrittore israeliano, ex presidente della Knesset e dal 2015 membro del partito di sinistra Hadash.
«L’unicità di Israele sta nell’aver legalizzato l’abuso, dalle demolizioni alle confische di terre – spiegava ieri El-Ad – Tutto è definito dalla legge. Israele viola le basi e i principi del diritto internazionale mentre insiste a dire che lo rispetta. Un pericolo: così svuota dall’interno il senso della legalità internazionale».
«Noi palestinesi cittadini israeliani – gli fa eco Farah – non viviamo sotto occupazione militare, ma in uno Stato che compie una discriminazione strutturale attraverso leggi, politiche diverse in economia e cultura e l’isolamentodei palestinesi. Ma così ha isolato anche gli ebrei all’interno della regione mediorientale».

La Stampa 12.5.18
Con i migranti attraverso le Alpi
dove muore l’Europa dei diritti
di Domenico Quirico


Volete vedere morire l’Europa, quella che ci ha magnificamente illuso con i diritti, i bei discorsi pieni di vento, le cui frontiere invisibili sconfinavano infinitamente oltre quelle della Unione visibile? Vi faccio da guida. Il viaggio è breve: stazione di Torino Porta Nuova, binario venti, dove partono i treni locali per la val di Susa, sì proprio quella dei No Tav, poi da Oulx in autobus salite a Claviere e, a piedi, al Monginevro per poi scendere a Briançon. Scoprirete un’Europa che non conoscete: nel terzo millennio lo scandalo di bambini e donne incinte che strisciano, di notte, tra la neve, verso frontiere inesorabili; e città dove poliziotti danno la caccia nelle strade ai neri; monti dove milizie di razzisti strafottenti, ramazzate in mezzo continente, si danno, sotto le telecamere, alle «ratonnades», le cacce ai topi dell’età di Vichy. E poi consegnano le loro prede a uno Stato, la Francia, connivente e grato.
Preparatevi. È un posto, questo, dove accettiamo, in modo ipocrita, l’orrenda divisione degli uomini che fomenta il dolore e lo rende senza pietà. Abbiamo chiesto al mondo dei fuggiaschi dai fanatismi, dalle povertà bibliche, di essere amati. Abbiamo gridato: qualsiasi cosa noi abbiamo commesso in passato, resterà tuttavia quello che abbiamo dato al mondo che perorerà sempre in nostro favore. Ma non serve a nulla essere amati: perché non siamo noi a esserlo. Si tratta sempre di qualcuno che non siamo.
Allora che cosa significa oggi per noi europei il possibile? A che punto siamo? Che cosa avviene nelle profondità di questo vecchio popolo? Alla frontiera di Monginevro ci si dicono le cose più vere, quelle che fanno male all’improvviso, come se ci si assalisse.
Il reato di solidarietà
Sì, parlo di migranti, ancora loro. Anche se nessuno sembra più occuparsene, rastrellati e inchiodati per ora lontani da qui, in attesa di esser resi definitivamente invisibili. E invece. E invece incontrate luoghi come «Jesus», a Claviere, un locale strappato, con virtuosa prepotenza, alla parrocchia perché i migranti possano respirare e nutrirsi prima della marcia a piedi verso la Francia. E l’ex caserma dove, a Briançon, altri uomini di buona volontà, francesi questi, li aiutano se ce l’hanno fatta. E ascoltate, increduli, le storie dell’inverno appena passato, non di scalate o discese in neve fresca, ma dei salvataggi di donne incinte e bambini, del calvario dei migranti al passo della Scala; di guide alpine denunciate per reato di solidarietà; di militanti che tra poche settimane, in un processo a Gap, rischiano dieci anni per una manifestazione pacifica a Monginevro per chiedere che la frontiera francese si aprisse ai migranti.
Ecco, la solidarietà: nata, qui, dall’obbligo che la gente di montagna sente di salvare chi la neve, il freddo, la miseria ha messo in difficoltà, e che poi diventa mobilitazione, decine di stanze offerte da famiglie per ospitare i migranti. Oltre e fuori dalla burocrazia dei centri di assistenza, dell’accoglienza in carta da bollo. È un modello come sostiene qualcuno? Non lo so. È politica, un risvolto della battaglia dei No Tav? Non saprei rispondere, quello che mi preme è perché non ci afferra più quel senso di necessità affascinante che emana da ogni vita umana. Rifletto sulle parole di un militante: «Noi lottiamo contro chi rifiuta il migrante ma anche contro chi vuole “assisterlo”, fermarlo a tutti costi. Vogliamo che ognuno abbia la possibilità di decidere il proprio destino». Una buona sintesi, mi pare, di ciò che dicevamo di essere. L’onore d’Europa dipende soltanto da noi, se lo abbiamo perduto nessuno può restituircelo, tranne noi stessi.
Allora: il treno. È mattina, una stazione silenziosa, quasi vuota. I treni dei migranti sono controllati, loro lo sanno, salgono qualche stazione più avanti. Appassisce anche il piccolo traffico che vi fioriva attorno, passeur veri e falsi, che vendevano informazioni sul viaggio verso la Francia, indirizzi telefonici, i sentieri «sicuri» o semplicemente chiedevano denaro in cambio di false promesse di passaggi facili e senza problemi. Penultimi tra gli infiniti sciacalli che li hanno braccati durante il cammino.
La valle sempre più stretta vaneggia, sotto, come una voragine, sfuma la pianura con le macchie bianchicce di paesi e città, si alzano pareti vestite di folti boschi scuri e di rocce ferrigne e, in alto, bave di biacca, la neve superstite al sole. Passa un ragazzo nero scortato dal capotreno. In silenzio. E penso a questa gente di deserto e di savana: queste rocce formidabili parlano loro un linguaggio muto che dice forse cose solenni e tremende; che sentono confusamente, senza comprenderle, come un mistero sovrumano.
Alla stazione di Oulx, davanti al Residence du Commerce, i migranti ci sono. Riempiono già il bus che sale a Claviere e a Monginevro, in Francia. Una donna grossa, che sembra dar consiglio agli altri, e ragazzi, alcuni giovanissimi. Guardo le scarpe: ciabatte di gomma, mocassini scalcagnati, sandali.
Davanti alla chiesa a Claviere il bus fa sosta, scendono tutti i migranti, tra un chilometro c’è la gendarmeria francese. Che li aspetta. Su un muretto sedute alcune donne, e bambini infagottati in giacche a vento lise, più grandi di loro. Su di loro si depone come polvere il rimorso di una grande missione mancata. Sono state appena respinte, ricacciate indietro. Raccontano che talora di fronte a donne e bimbi piccoli qualche gendarme fa finta di niente. Stavolta no.
Nelle stanze del posto di sosta «Jesus», una attivista, stende sul tavolo una carta della valle: traccia percorsi, spiega, segna qui c’è la caserma delle guardie di confine state lontani tenetevi a fianco della strada più in basso. Qui è bosco attenti, c’è ancora neve la traccia si perde. Mentre parla il suo corpo produce con foga parole, espansioni sentimentali, energia. Un bambino trae accordi da una chitarra. Una famiglia è seduta davanti alle brande, la donna allatta placidamente il più piccolo. Ci guardiamo a lungo dalle nostre sedie, come bestie timide, senza dire mai nulla. Non faccio più interviste ai migranti. I loro racconti da sette anni non portano a nulla: che serve frugare con le parole perché rivelino ogni proprio attimo e si trasformino in pensiero? Non bisogna sentire pietà. Dobbiamo misurarci insieme.
Ci avviamo verso il confine, due migranti sembrano decisi a partire con noi, esitano: forse è meglio aspettare la notte. Forse ci raggiungeranno salendo. Attraversiamo il campo di golf che la neve, sciolta ormai a larghe chiazze, impaluda di tinte giallastre. A segnare la via palline abbandonate e resti delle traversate che il disgelo ha scoperto: calze, berretti, guanti, bottiglie, cibo gettato via.
Dove venite in vacanza, ogni giorno, da mesi, il mondo è un continuo passaggio di sofferenze inavvertite. La sofferenza non è nulla: l’ingiustizia, l’insulto è che una gran parte di essa passa inavvertita.
Monginevro è vuota: fredda, incolore e inerte, case livide e chiuse, negozi sbarrati, strade senza auto e senza uomini, in quel silenzio pare che il tuo respiro rimbombi. Non ci sono autobus per Briançon in questa stagione morta. Tentiamo l’autostop. Ci carica una coppia di ragazzi italiani, simpatici, allegri, vanno a un festival di danza tradizionale vicino a Gap. Sono felici: tre giorni di danze. Poi raccontano che viaggiava con loro un ragazzo marocchino, contattato con la formula dell’auto condivisa, per risparmiar le spese: prima della frontiera abbiamo scoperto che aveva solo una fotocopia della carta di identità non valida per l’espatrio, uffa! Abbiamo dovuto rifar la strada per scaricarlo a Claviere, non vogliamo guai noi, con questi migranti.
Siamo chiusi come in un sacco. Questi rifiuti sono i nostri piccoli suicidi di tutti i giorni.
A Briançon davanti alla stazione ferroviaria, sotto i muri enormi, i bastioni pietrosi del forte di Vauban, freddo, arcigno, armoniosamente spaventevole, ritrovo i migranti, nella piccola casa dei volontari francesi che li aiutano dopo il passaggio. Abitanti e turisti passano con le loro compere sotto il braccio, i ristoranti preparano sulle tavole, bianche, con i fiori, le liste delle vivande, le campane della chiesa suonano le ore. I migranti ti guardano come sempre i migranti, come se sapessero che tra un minuto, tra un’ora non ti vedranno più; sguardi che sembrano sfuggirti perché sanno di essere farfalle ondeggianti in un mondo calmo e sicuro. Loro soli sanno che tutto è provvisorio, che tra poco non saranno più qui e nessuno si accorgerà che sono spariti.
Il racconto della volontaria
Una volontaria ci racconta che da un paio di giorni la polizia insegue i ragazzi neri nelle strade, chiede documenti anche a quelli che hanno lo status di rifugiato: cercano la provocazione, sperano in una ribellione violenta.
Merci presidente Macron! Ci hai davvero ingannati!
Questa notte sono arrivati dalla montagna sette migranti. Ieri ventiquattro.

Il Sole 12.5.18
La frontiera dove l’Unione si specchia nelle sue paure
In un anno i migranti clandestini sono scesi dell’80%
di Beda Romano


LESOVO (ALLA FRONTIERA TURCO-BULGARA) Il muro, perché di muro si tratta benché la polizia bulgara parli di barriera, si staglia all’orizzonte chilometri prima di giungere alla frontiera con la Turchia. Attraversa i campi, scavalca le colline, taglia le foreste per un totale di oltre 200 chilometri. Sulla strada per Istanbul, Lesovo è un paesino di qualche decina di anime in una campagna verdeggiante, ma poco coltivata. È l’ultima località bulgara prima del confine ritenuto il più controllato, il più ermetico d’Europa. Per alcuni, il muro è lo strumento sofisticato di una Unione che si vuole proteggere. Per altri, il simbolo controverso di una Unione che si chiude su se stessa.
Tra il 2015 e il 2016, la regione fu attraversata a piedi da migliaia di profughi provenienti dalla Siria e dall’Iraq alla ricerca di una vita sicura nel Nord Europa. Chi scrive ha dovuto avvertire preventivamente le autorità bulgare della sua visita nell’estremità sud-orientale dell’Unione europea. È accolto con garbo e premura dalle guardie di frontiera a Elhovo, una cittadina di 10mila abitanti a 30 chilometri da Lesovo. «Non abbiamo nulla da nascondere sulla gestione e sulla sicurezza del confine», premette Deyan Mollov. Il trentenne responsabile di una delle frontiere esterne dell’Unione più delicate si riferisce probabilmente alle presunte vicende di corruzione emerse di recente.
Il passaporto per l’Europa di Serie A
Il governo bulgaro va fiero della frontiera con la Turchia. Deve diventare il suo biglietto da visita per ottenere l’agognato ingresso del Paese nella Zona Schenghen. Anche sbarcando all’aeroporto di Sofia, gli europei subiscono lo zelo dei doganieri che complice la presidenza bulgara dell’Unione tentano di accreditarsi quali garanti di un controllo affidabile del confine. «Rispetto al picco degli ultimi anni l’arrivo di clandestini è crollato dell’83%», afferma non privo di calore umano il commissario Mollov, tuta mimetica verde e galloni dorati sulle spalle, soddisfatto dei risultati ottenuti.
Tracciata nel 1878, al momento dell’indipendenza della Bulgaria dall’Impero ottomano, la frontiera che dal Mar Nero si allunga fino a Svilengrad è stata divisa in cinque settori, tutti controllati dal centro di Elhovo. «Fino al dicembre del 2013 – racconta il nostro interlocutore – il confine non aveva alcuna costruzione, solo alcune telecamere. Si passava liberamente da un Paese all’altro...». Quattro anni fa fu deciso di inalzare un muro di metallo di tre metri e mezzo di altezza. La prima sezione era lunga 30 chilometri. La costruzione è stata completata nel novembre scorso. Lungo l’intero confine è possibile l’attraversamento in soli tre punti: a Kapitan Andreevo, a Malko Tarnovo, e a Lesovo.
Mentre la linea di demarcazione con la Grecia taglia la catena del Rila e quella con la Romania è segnata dal Danubio, il confine con la Turchia è particolarmente delicato, e non solo perché è frontiera esterna dell’Unione: attraversa la Tracia, regione collinosa e spesso pianeggiante. Da Elhovo, gli uomini di Deyan Mollov controllano 24 ore su 24 l’intero tracciato. In una sala di controllo, una cartina della regione è proiettata su uno schermo che occupa l’intera parete. Alcuni poliziotti seguono sui monitor le immagini provenienti da telecamere poste lungo tutto il muro. Ogni venti metri sensori nel terreno registrano i cambi di temperatura e i movimenti improvvisi. L’obiettivo è di individuare i migranti clandestini: «Possiamo essere sul posto in 15 minuti», assicura il commissario Mollov. E aggiunge: «Il 98% della frontiera è filmato da telecamere».
L’uomo è parco di cifre sull’equipaggiamento delle guardie di frontiere bulgare. Hanno a disposizione numerose jeep, e anche elicotteri, forse droni. Corre voce che siano in tutto 1.800 doganieri, con l’aiuto anche dell’Unione. Spiega da Bruxelles Natasha Bertaud, portavoce della Commissione europea: «Il Corpo europeo di guardie di frontiera ha attualmente sul posto 133 persone, tre veicoli dotati di termocamere e 41 auto di pattugliamento». Dal 2015 a oggi, l’esecutivo comunitario ha versato aiuti d’emergenza al governo bulgaro per 172 milioni di euro, oltre ai 97,2 milioni previsti dal bilancio comunitario 2014-2020.
Al varco di Lesovo, qualche giorno fa, code di camion aspettavano di attraversare la frontiera verso la Turchia. Sul versante bulgaro a gestire il posto di confine è Nikolaj Dimitrov, un cinquantenne impettito. Mentre racconta al suo interlocutore il lavoro dei suoi poliziotti, un camion è sottoposto a ispezione. Un uomo controlla con un apposito macchinario la presenza di anidride carbonica nel rimorchio. Un altro si incarica di verificare la presenza di persone sul fondo del mezzo pesante e di perlustrare la cabina. Un terzo si avvicina con un cane per scoprire eventuali ordigni. Su una piattaforma a qualche metro dal suolo, un quarto doganiere si accerta che non vi siano persone sul tetto del veicolo.
«Successivamente il camion passa nelle maglie di uno scanner che radiografa la merce», interviene il poliziotto. «Due settimane fa abbiamo scoperto quattro afghani in un mezzo turco. Erano saliti all’insaputa dell’autista tagliando la copertura». Oltre a migranti irregolari, i doganieri cercano droga, merce di contrabbando ed eventualmente armi. In una Europa che volentieri rivendica, spesso con altezzosità morale, di non voler costruire muri ma piuttosto di volerli smantellare, la frontiera turco-bulgara stona a dir poco. L’obiettivo è di rassicurare le pubbliche opinioni di molti Paesi, preoccupate dall’arrivo massiccio di migranti dal Vicino Oriente.
Peraltro, i doganieri bulgari sono stati oggetti di critiche e accuse. In una relazione pubblicata nel dicembre scorso, gli eurodeputati Kati Piri e Kathleen Van Brempt hanno dato voce alle denunce di non pochi viaggiatori costretti a versare piccole mance per evitare eccessi di zelo o per velocizzare code rese più lunghe del necessario. Il governo bulgaro ha smentito. La Commissione europea, invece, preferisce non commentare vicende specifiche, anche se in un recente rapporto ha avvertito che la corruzione rimane un problema in questo Paese balcanico. Transparency International pone la Bulgaria al 70mo dei Paesi più corrotti al mondo, su 180.
Un premier dai modi spicci
Addirittura alcuni parlamentari europei che in febbraio si sono recati al confine – tra questi la deputata francese della sinistra radicale Marie Christine Vergiat – hanno detto di temere che alla frontiera le autorità bulgare effettuino surrettiziamente dei refoulement, ossia respingano potenziali profughi. Più in generale, preoccupano i modi politici apparentemente un po’ bruschi del governo conservatore guidato dal premier Boyko Borisov, una ex guardia del corpo.
Il poliziotto Dimitrov ribatte che le autorità bulgare seguono alla lettera le regole internazionali. Entro 24 ore, al migrante clandestino vengono effettuate una visita medica e una intervista per conoscerne la provenienza nel caso non abbia documenti. Dall’inizio dell’anno sono stati segnalati al confine turco-bulgaro appena 62 migranti clandestini, pari a una diminuzione dell’80% rispetto allo stesso periodo del 2017 (viceversa alla frontiera tra la Grecia e la Turchia l’aumento è stato del 17% nelle ultime settimane). Al di là della presenza del muro, i dati sono anche il risultato di un discusso accordo con Ankara che sul proprio territorio ospita ormai milioni di rifugiati provenienti da Oriente.
In questi anni, il confronto con la fine della globalizzazione nel primissimo Novecento è venuto naturale. Come allora, il crepuscolo di una belle époque è sancito da scontri e tensioni. Come allora, tornano i controlli alle frontiere. In fondo il confine turco-bulgaro è al tempo stesso il simbolo della forza e dell’attrattività dell’Unione europea, ma anche della sua debolezza e delle due divisioni. Un figlio di questa terra, l’autore di “After Europe” Ivan Krastev, è convinto che l’unico modo per evitare una disintegrazione dell’Unione è di accettare e capire le lezioni della crisi migratoria. In questa ottica, il muro di Lesovo potrebbe essere considerato il minore dei mali.

il manifesto 12.5.18
Si accende a Teheran la rabbia contro Usa e Israele
Israele/Iran. ‎«Non possiamo fidarci neanche degli europei‎» dice l'ayatollah ultraconservatore Ahmad Khatami a sostegno delle proteste per l'uscita degli Usa dall'accordo sul nucleare e per i raid israeliani. Rohani rischia di esserne travolto. Israele intanto canta vittoria
di Michele Giorgio


GERUSALEMME Rabbia nelle strade di Tehran, proclami di vittoria in Israele. L’uscita degli Stati ‎uniti dall’accordo internazionale sul nucleare iraniano e i lanci di missili in Siria ‎tra Israele e la Guardia della Rivoluzione islamica (l’Iran però smentisce il suo ‎coinvolgimento), ieri hanno infiammato la capitale iraniana. “Mr Trump sta ‎dicendo sciocchezze”, “Morte all’America” e “Combattiamo, moriamo, ma non ‎accettiamo compromessi” hanno scandito i dimostranti non mancando di ‎condannare Israele. Proteste in parte innescate dall’alto e in parte spontanee ma che ‎rappresentano i sentimenti di buona parte degli iraniani che si sentono traditi dagli ‎Usa, tre anni dopo la firma di un accordo che doveva dare il via alla crescita ‎economica che non è mai arrivata. E le sanzioni annunciate a inizio settimana da ‎Trump danneggeranno ulteriormente l’economia iraniana, malgrado l’Unione ‎europea e gli altri Paesi firmatari dell’intesa del 2015 si proclamino determinati ad ‎andare avanti, senza l’America. Martedì a Bruxelles il ministro degli esteri iraniano ‎Mohammad Javad Zarif incontrerà le controparti di Germania, ‎Francia e Gran ‎Bretagna. All’incontro prenderà parte la “ministra degli esteri” dell’‎Ue Federica ‎Mogherini, sino ad oggi la più netta dei rappresentanti europei nel difendere ‎l’accordo di tre anni fa. ‎
A Tehran però i dubbi si fanno sempre più forti. Non sono sfuggiti gli abbracci ‎e baci alla Casa Bianca tra Emmanuel Macron e Donald Trump e la piena ‎disponibilità del presidente francese a modificare l’accordo per inserirvi la ‎sospensione allo sviluppo dei missili balistici iraniani. Un punto sul quale l’Iran ‎non intende fare concessioni. L’Iran ‎«non può fidarsi degli europei‎» ha tuonato ‎ieri in diretta tv l’ayatollah ultraconservatore Ahmad Khatami ‎«non possiamo più ‎fidarci dei firmatari europei, non possiamo fidarci dei nemici dell’Iran‎». E ‎Khatami ha puntato il dito contro lo Stato di Israele, visto come l’ispiratore delle ‎politiche di Trump in Medio oriente. ‎«Espanderemo la nostra capacità missilistica, ‎nonostante le pressioni» ha avvertito il religioso, ‎«per far sapere a Israele che se si ‎comporta stupidamente, Tel Aviv e Haifa saranno distrutte‎. Mettiamo in guardia ‎Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti e Bahrein, potrebbero pagare il prezzo di ‎qualsiasi azioni americana nella regione». ‎
 Come era prevedibile, e forse desiderato da Washington e Tel Aviv, la ‎decisione di Trump e i continui attacchi aerei di Israele contro presunte posizioni ‎iraniane in Siria, danno voce alle forze iraniane più radicali e indeboliscono il ‎presidente Rohani che con determinazione aveva cercato e ottenuto un’intesa ‎diplomatica con i Paesi membri del Consiglio di Sicurezza dell’Onu per voltare ‎pagina nelle relazioni tra il suo Paese e l’Occidente. Se questa radicalizzazione del ‎discorso politico sfocierà nella ripresa da parte dell’Iran dell’arricchimento ‎dell’uranio su «scala industriale‎», come minacciava ieri il ministro degli esteri ‎Zarif, Usa e Israele avranno il pretesto per lanciare un attacco contro l’Iran. ‎
 Bruciano anche gli attacchi aerei di Israele, deciso a costringere Tehran ad ‎abbandonare la Siria. «Butta fuori gli iraniani, Qassem Suleimani e la Forza al-‎Quds. Non ti aiuteranno e ti danneggeranno». Con queste parole il ministro della ‎difesa israeliano Lieberman si è rivolto ieri al presidente della Siria Assad mentre ‎perlustrava il Golan, il territorio siriano che Israele occupa dal 1967. ‎«Non dico ‎che tutto sia finito ma certamente siamo ben aggiornati‎», ha aggiunto con ‎soddisfazione riferendosi ai bombardamenti israeliani di mercoledì notte.‎
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il manifesto 12.5.18
Burg: «Europa assente e Casa bianca folle: Israele ha mano libera»
Medio Oriente. Intervista a Avraham Burg, politico e scrittore israeliano, ex presidente della Knesset: «La società israeliana si è radicalizzata perché, come nel resto del mondo, il welfare è stato demolito dalla filosofia neoliberista e la solidarietà sociale da politiche identitarie»
di Chiara Cruciati


Bombe israeliane su Damasco (ormai di una frequenza inquietante), missili siriani sul Golan, decisioni unilaterali dell’amministrazione Usa stanno conducendo la regione verso una pericolosa escalation bellica.
Ne abbiamo discusso con Avraham Burh, «Avrum», politico e scrittore israeliano, già presidente della Knesset, ex membro del Partito laburista e oggi della formazione di sinistra Hadash.
Il conflitto che Israele sta costruendo contro l’Iran si fa concreto. Quali sono gli obiettivi del governo Netanyahu?
Sono diversi. La prima ragione delle manovre tra due dei principali attori regionali, Israele e Iran, è l’immediato futuro della Siria, una lotta tattica e strategica. Spostandoci sul medio termine, la motivazione di Israele è evitare la libanizzazione della Siria, con milizie in stile Hezbollah, e dunque evitare che proxy dell’Iran si stabilizzino ai confini israeliani. La motivazione iraniana è opposta: una striscia di terra che dall’Iran passi per le zone sciite irachene, la Siria fino al Libano. Il terzo elemento, quello di lungo periodo, è la creazione da parte israeliana di una zona di influenza, in contrasto con quella iraniana: una coalizione Usa, Israele, Egitto e Arabia saudita, dove i sauditi giochinno da pivot della coalizione.
Di nuovo giovedì il ministro della difesa israeliano Lieberman ha lanciato un appello ai paesi del Golfo per la creazione di un asse anti-Teheran.
Non sono però così certo che una tale alleanza possa reggere. Il Medio Oriente non è quello che si vede, è luogo pieno di specchi: non sai mai qual è l’oggetto reale e quale il suo riflesso. Di base, se si vuole dividerlo tra sciiti e sunniti, è chiaro che Israele ha scelto il secondo fronte. Ma se si va a vedere in profondità non è così semplice. Un esempio: l’Iran sostiene Hamas che è una formazione sunnita. Il Medio Oriente è come il caffè arabo: bisogna aspettare che la polvere si posi in fondo alla tazzina per capire. Per questo non sono affatto sicuro che una simile alleanza possa davvero realizzarsi: in mezzo ci sono diversi elementi che potrebbero interferire, a partire dal ruolo della Turchia.
In tale contesto la società israeliana ha vissuto una polarizzazione ulteriore, dagli anni ’90 si è spostata a destra, si è radicalizzata. Un effetto delle politiche dei governi post-laburisti o la trasformazione è avvenuta alla base?
Se si guarda al processo vissuto dall’Italia negli ultimi 20 anni è piuttosto simile a quello in Israele: le politiche di Berlusconi e Netanyahu sono entrambe state fondate sull’apparenza mediatica, mentre il welfare veniva demolito dalla filosofia neoliberista e la solidarietà sociale distrutta da politiche identitarie. Il processo è identico, globale. La differenza sta nella presenza, in Israele, di un conflitto con i palestinesi che si sviluppa nell’ambito di dinamiche di trasformazione delle società e frammentazione della solidarietà interna.
Il nemico interno collante di una società frammentata sul piano socio-economico: i palestinesi sono lo strumento per evitare l’esplosione di conflitti interni?
Oggi assistiamo alla combinazione tra la divisione interna israeliana e la radicalizzazione dell’attitudine verso i palestinesi. Questo ha fatto venir meno qualsiasi spinta verso una soluzione. Abbiamo una leadership palestinese debole, una leadership israeliana priva di interesse verso il dialogo, una diversità di interessi da parte dei paesi vicini, un presidente pazzo alla Casa bianca e un’Europa invisibile. Non ci sono più attori, come successo con Oslo, che sostengano l’apertura di un dialogo.
Viene meno anche la legalità internazionale: il trasferimento dell’ambasciata Usa a Gerusalemme, lunedì, è un atto simbolico o il preludio a cambiamenti strutturali?
Trump non ha una politica chiara, è impossibile definirlo e comprenderlo. È possibile che oggi ripaghi i suoi amici conservatori in America e in Israele e che domani invece «ricatti» Israele: ho spostato l’ambasciata, ho creato un conflitto con l’Iran, ora dovete accordarvi con i palestinesi. Chissà. Di certo l’Occidente ha perso il controllo su tutto e Israele fa quel che vuole. A muovere i fili in Medio Oriente sono i vari imperi e i loro alleati locali, l’impero americano, il russo, il persiano e quello neo-ottomano.
Israele, allo stesso tempo, gode ancora di appoggio in Europa per la crescente islamofobia e perché visto come modello di sicurezza.
Non esiste un’Europa sola, ma due: un’Europa dell’est che d’improvviso si scopre «giudeofila» per giustificare la sua islamofobia; e poi un’Europa dell’ovest preda di poteri nuovi come in Italia i 5stelle, che non hanno idea della questione. In tale caos dominato dalla paura, in nome di una falsa sicurezza si sacrificano i diritti. E il modello è Israele.

Il Fatto 12.5.18
“È falso che le pene alternative diminuiscano i casi di recidiva”
Riforma penitenziaria. Un ricercatore smonta la tesi del governo: “Non provato che chi sta in cella torni a commettere reati più spesso”
di Gianni Barbacetto


Le pene alternative riducono la recidiva. Cioè chi sconta la sua pena fuori dal carcere poi delinque meno di chi resta chiuso in cella. Questo è l’assunto su cui poggia la riforma penitenziaria in corso d’approvazione, ripetuto a gran voce dai suoi sostenitori, che richiamano le ricerche e i dati forniti dalla amministrazione penitenziaria.
Chi accede alle misure alternative, dicono i dati, incorre nella recidiva solo nel 30 per cento dei casi, mentre chi sconta l’intera pena in carcere è recidivo al 70 per cento: è un argomento convincente per aprire il più possibile le celle. “Peccato che non sia vero”, dice Roberto Russo, ricercatore e docente di Diritto, che si è preso la briga di andare a controllare. “Si continua a ripetere che il soggetto ammesso alle misure alternative compia altri reati tre volte meno di un soggetto che non ha potuto accedere a questi benefici, ma mi sono chiesto: qual è la statistica da cui lo si deduce? L’ho cercata: non c’è”.
Russo ha trovato lo studio a cui i sostenitori della riforma fanno riferimento: si intitola “Le misure alternative alla detenzione tra reinserimento sociale e abbattimento della recidiva”, è stato scritto da Fabrizio Leonardi e pubblicato nel 2007 sulla rivista Rassegna penitenziaria e criminologica. “Molti lo citano, ma pochi l’hanno letto”, sorride Russo. “Prende in esame un certo numero di detenuti (8.817 per la precisione) ammessi al beneficio dell’affidamento in prova e che abbiano finito di scontare la loro pena nel 1998. Poi conta quanti di questi, al settembre 2005, ci siano ‘ricascati’, cioè siano stati nuovamente condannati in via definitiva. Sono solo 1.677, quindi il 19 per cento”.
Addirittura molto meno del 30 per cento. Tutto bene, quindi? “No, perché sono stati contati non quanti hanno commesso reati, ma quanti sono stati condannati in via definitiva entro il 2005”. Ossia: sono stati conteggiati soltanto quelli che, usciti dal carcere nel 1998, hanno commesso un nuovo reato, sono stati individuati (“cosa non scontata considerando l’alta percentuale dei crimini impuniti”), e infine processati in primo grado, in appello ed eventualmente anche in Cassazione, con sentenza definitiva emessa entro il settembre 2005.
“Capite bene che è un miracolo che siano più di mille, visto quanto durano i processi”. Da questa statistica restano fuori, spiega Russo, “tutti quelli che hanno compiuto reati ma non sono stati presi. E tutti quelli che, benché individuati, nel settembre 2005 erano sotto processo ma non avevano ancora avuto una sentenza definitiva”.
Russo osserva poi che “uno studio serio che abbia l’obiettivo di misurare davvero il tasso di recidiva deve profilare anche un ‘gruppo di controllo’: cioè bisognava esaminare tutti i soggetti che hanno avuto il fine pena nel 1998, dividerli in due categorie (quelli che hanno avuto accesso alla misura alternativa e quelli che non l’hanno avuta) e vedere se tra i due insiemi, a settembre 2005, vi fosse un significativo scostamento circa l’incidenza della recidiva. Solo allora si sarebbe potuto trarre delle conclusioni”.
Russo aggiunge un altro elemento, citando lo stesso autore dello studio del 2007, che avvertiva: “È bene ricordare che le persone ammesse alle misure alternative sono selezionate con un’attenzione all’affidabilità, una sorta di scrematura che abbassa, almeno in teoria, la possibilità che le stesse persone commettano nuovi reati”.
La “scrematura” è già fatta scegliendo le persone che non dovrebbero tornare a delinquere.
“Un esempio paradossale aiuta a comprendere”, continua Russo: “Volendo dimostrare il beneficio di un prodotto dimagrante, lo vado a testare non sulla generalità della popolazione, ma su persone scelte perché fanno sport e poi vado a misurare l’efficacia del prodotto un anno dopo che hanno smesso di farlo, scoprendo che solo il 19 per cento è in sovrappeso, mentre nel resto della popolazione è in sovrappeso il 70 per cento. Insomma: mi pare che le mie osservazioni dimostrino al di là di ogni ragionevole dubbio che non vi è alcuna possibilità di fondare scelte di politica criminale su uno studio che aveva tutt’altre finalità e che quindi non ha alcuna colpa circa l’utilizzo che ne viene fatto”.
Ora la riforma penitenziaria, già approvata dal governo Gentiloni il 16 marzo, dovrà essere esaminata in Parlamento: non certo a breve, nelle “commissioni speciali” già nate alla Camera e al Senato, ma nella commissione Giustizia che nascerà dopo la formazione di un governo. Sarà un calvario: favorevoli Pd e Forza Italia, contrari però sia il M5s sia la Lega, che anzi la definisce “riforma svuotacarceri” o addirittura “salvaladri”.

Corriere 12.5.18
«Follia, governo più a destra di Scelba» I tormenti di chi voleva il patto col Pd
La protesta dei volti noti che da sinistra avevano scelto il Movimento
di Giuseppe Alberto Falci


Roma Avevano scommesso su un accordo tra il M5S e il Pd, su un governo a tinte rosse e gialle in grado di far rinascere la sinistra italiana. O almeno pensavano così. Purtroppo sono rimasti delusi per il patto di legislatura con tanto di contratto che i Cinquestelle starebbero per siglare con il Carroccio di Matteo Salvini. «Non c’è dubbio che ci ho sperato fino all’ultimo secondo utile», allarga le braccia il professore Domenico De Masi, sociologo ma anche colui che ha ispirato alcuni punti del programma dei pentastellati come, ad esempio, il reddito di cittadinanza. «Ho sempre pensato che si sarebbe dovuta valorizzare l’anima più sinistra del Movimento per la formazione di un governo socialdemocratico». Non è preoccupato per le sorti del Paese ma di certo De Masi sostiene «che l’esecutivo che sta per nascere sia più a destra degli esecutivi di Scelba». Il flirt di Di Maio con Salvini non è stato digerito anche da Jacopo Fo, figlio di Dario Fo e Franca Rame. Fin dall’indomani delle elezioni Fo junior si è sgolato caldeggiando l’intesa fra i democrat e i pentastellati e invocando «il passo indietro di Di Maio, un accordo con il Pd perché solo così il Movimento si può salvare». Ma non è andata in questo modo. Oggi Fo si ritrova davanti la foto di Di Maio e Salvini seduti l’uno di fronte all’altro con un contratto da siglare: «È stata una scelta folle. L’unica speranza è che si mettano a fare cose concrete». Fra gli speranzosi dell’accordo giallorosso c’era anche l’attore e regista siciliano Pierfrancesco Diliberto, in arte Pif, che il 9 marzo fece un appello ai democrati su Facebook («Caro Pd, tenta l’accordo con il M5S. Perché no? Di Maio è un moderato»). Ma, in queste ore, forse deluso, preferisce restare in silenzio: «Non voglio entrare nel dibattito», risponde via WhatsApp. Per non parlare del direttore di Micromega, Paolo Flores D’Arcais, che in una recente intervista alla Stampa ha giudicato «abominevole» l’intesa con il Carroccio annotando che «il M5S ne uscirà con le ossa rotte».
Infine come non annoverare l’attore Ivano Marescotti, storico militante di sinistra, candidato alle Europee del 2014 con la Lista Tsipras, lo stesso che lo scorso 8 gennaio fece un endorsement dichiarando pubblicamente il voto alle truppe guidate da Di Maio. Da quel dì, però, sembra passata un’eternità. E infatti oggi Marescotti non la manda a dire e si rimangia tutto quanto: «Se il M5S fa un governo con la Lega e Berlusconi lascia correre vuol dire che il Cavaliere ha chiesto garanzie e che il Movimento gliele ha date. E allora io che avevo votato 5 Stelle ritiro il voto». Punto e accapo.

Il Fatto 12.5.18
M5S-Lega: i rischi dello strano patto
di Gianfranco Pasquino


Al momento, non so quanto temporaneamente, hanno molto di che rallegrarsi tutti coloro che volevano il governo dei “vincitori”. Sì, certo, le Cinque stelle sono il partito più votato e la Lega ha addirittura quadruplicato i suoi voti dal 2013 al 2018. Quindi, il loro eventuale governo non tradisce il mandato elettorale, anzi, sarebbe il modo migliore, ancorché non l’unico, per tradurlo nei fatti. Tuttavia, nelle democrazie parlamentari i governi non sono mai una semplice faccenda numerica. Per fare uno solo dei diversi esempi possibili, in Portogallo, il partito più votato, Pds, conservatori, sta, alquanto irritato, all’opposizione di una coalizione di sinistra (già, proprio così).
Comunque, i numeri parlamentari italiani offrivano/offrono almeno tre altre possibilità. I governi si costruiscono su affinità politiche e compatibilità programmatiche, tutte da verificare. Sono certamente molto soddisfatti tutti quegli elettori che hanno scelto pentastellati e leghisti per esprimere il loro forte dissenso e risentimento nei confronti della politica italiana com’è, da tempo, dei politici al governo e delle loro politiche. Quasi nulla di tutto questo può essere definito con il termine tanto onnicomprensivo quanto vago, populismo. È facilmente accertabile che qualche striscia di populismo c’è, eccome, sia nel M5S sia nella Lega, ma sconsiglio di usare il termine contro tutto quello che non piace, come fanno imprenditori, giornalisti, professori, spesso parte dell’establishment e come tali non sempre erroneamente criticati.
Cinque stelle e Lega rappresentano con notevoli diversità elettorati insoddisfatti e trascurati che, giustamente, adesso, pensano di avere maturato la loro rivincita. Con la Lega molto forte al Nord e con il Movimento dominante nel Sud Italia, mi avventuro a sostenere che la loro azione politica potrebbe portare a una sorta di ricomposizione dell’unità nazionale. Alla prova dei fatti, chi sa se le diversità saranno foriere, invece, di scontri? Non ho alcun dubbio che i più felici dell’eventuale governo Di Maio-Salvini sono il due volte ex-segretario del Partito democratico Matteo Renzi e i renziani di tutte le ore, compresa quella della nomina a parlamentari. All’opposizione andranno a rigenerarsi e a fare un partito più bello e più grande avendo evitato un devastante ritorno alle urne con conseguente perdita della poltrona. Nel comfort dell’opposizione magari non rappresenteranno quelli fra i loro elettori che avrebbero preferito per sé, ma anche per il paese (sì, resuscito la “funzione nazionale” dei partiti, di sinistra, sic), un governo Cinque Stelle-Partito democratico al nascituro governo Pentastellati-Leghisti. Infatti, è sbagliato sottovalutate i rischi di questa inusitata coalizione ed è più che ragionevole preoccuparsi della inesperienza e incompetenza dei futuri probabili governanti.
Se ne preoccupa e molto il presidente della Repubblica al quale spetta, sembra l’abbiano finalmente capito sia Di Maio sia Salvini, nominare il presidente del Consiglio.
Mattarella terrà certamente conto delle loro preferenze ma, oramai, lo ha ripetuto solennemente tre volte, sceglierà qualcuno che sappia che l’Italia nell’Unione europea ci deve stare, convintamente e attivamente. Non è possibile dire quanto effettivamente abbiano perso gli europeisti, purtroppo per loro privi di guida e di grinta (Macron non abita qui). Infatti se, da un lato, Grillo, che riesuma la proposta di un incostituzionale referendum sull’euro, dà un assist al sovranista Salvini, dall’altro, dopo la sua processione in Europa, Di Maio sembrava avere capito che esiste un vincolo esterno, dall’Italia liberamente accettato e che, rispettandolo, si creano anche le premesse per chiedere credibilmente di cambiarlo.
Hanno perso tutti coloro che pensavano di fare politica con gli annunci, con le narrazioni, con le prevaricazioni senza andare a parlare con gli elettori, offrendo loro una legge elettorale che consentisse di esercitare potere sulla scelta dei candidati e dei partiti, con il voto disgiunto e senza la tremenda manipolazione delle pluricandidature. Infine, hanno di che riflettere e dolersi tutti coloro che, qualche volta pur consapevoli che la politica è cambiata e deve certamente ancora cambiare, hanno mantenuto vecchi riti, conditi con qualche esagitazione, che si sono tenuti lontano dagli elettori, non proponendo spiegazioni, non offrendo partecipazione e rinunciando, per insipienza e per comodità, nonostante tutte le avvisaglie dell’insoddisfazione che venivano da più fonti, sondaggi inclusi, a cercare di (ri)dare dignità alla politica cominciando con i loro comportamenti personali. Ricominciare da capo non sarà sufficiente. Senza conoscenza del passato (una sola Repubblica democratica e una Costituzione da rispettare e attuare) non andremo da nessuna parte.

Repubblica 12.5.18
Laura Boldrini
“Un big bang o la sinistra si estinguerà Leu è una sigla da superare anche il Pd però cambi”
di Giovanna Casadio


ROMA «Non possiamo galleggiare perché così ci estinguiamo. Con il Pd è importante dialogare ma anche il Pd deve sentire questa esigenza». Laura Boldrini, ex presidente della Camera, riconosce che la sinistra rischia l’«espulsione» dalla scena politica e che si deve andare «oltre Leu» ma al tempo stesso invita tutta l’area progressista a «cambiare rotta». In fretta.
Presidente, la sinistra in cui lei si è candidata come riparte?
«Dalle realtà in cui ha perso consenso, dalle periferie, dove sia Leu che il Pd ma anche Potere al popolo hanno avuto i risultati peggiori».
Leu, la sua lista, ha avuto poco più del 3%. Aveva ragione Pisapia ad agitare lo spauracchio di una sinistra residuale?
«I risultati delle liste associate al Pd, che era l’operazione di Pisapia, non hanno neanche raggiunto il 3%. Per Leu non è stato soddisfacente, ma per le liste coalizzate con i Dem ancora meno. Tutti indistintamente siamo stati percepiti come establishment. Vogliamo prenderne atto seriamente e agire di conseguenza?».
Leu si deve sciogliere?
«Quello che è accaduto il 4 marzo è centrale. Il pericolo ora è che si consolidi il bipolarismo 5Stelle-Lega e che la sinistra rischi l’espulsione dal quadro politico.
Bisogna andare oltre Leu. Cosa vuol dire? Un’aggregazione più ampia, innovativa, con le migliori esperienze dei sindaci come la rete di Pizzarotti, del civismo, della cultura femminista, dell’ambientalismo e dell’associazionismo. Quando si prende il 3%, l’imperativo è cambiare, non riproporre stancamente lo stesso assetto».
In questo processo di rilancio ci deve essere anche un Pd magari de-renzizzato?
«Non ne faccio una questione di persone, ma di politiche. La lezione del 4 marzo riguarda tutta l’area progressista. Per risalire la china dobbiamo cambiare rotta rispetto alle politiche degli ultimi anni. Non possiamo galleggiare perché così ci estinguiamo. Con il Pd è importante dialogare ma anche i Dem devono sentire questa esigenza di cambiamento».
Si presenterà alle primarie del centrosinistra?
«Se ci sarà un centrosinistra e se ci saranno le primarie, ci ragioneremo».
Un governo 5Stelle-Lega sta per nascere. Meglio così o subito al voto?
«Votare a luglio sarebbe stato un azzardo. In piena estate è più alto il rischio di astensione. E poi saremmo andati a votare con la stessa legge: stessi assetti, stessa crisi istituzionale, stessa maionese impazzita. Ma certo, un governo Lega-5Stelle non mi piace neanche un po’».
Eppure c’è chi, nel Pd, ha festeggiato l’accordo Salvini-Di Maio.
«C’è poco da festeggiare, vedo il rischio di un governo oscurantista, con un arretramento sui diritti civili. Salvini ha più volte affermato di volere riportare il paese ai tempi di sua nonna: significa non guardare al futuro, restare fuori dalle grandi sfide. Sono molto preoccupata per come questo governo sposterà drammaticamente a destra l’asse politico. E penso che ora, di fronte a tutto questo, la sinistra e il centrosinistra debbano passare per un big bang se vogliono risollevare le proprie sorti».
Salvini l’ha spesso offesa pesantemente.
«Sì, ma in questo Salvini e i suoi si sono anche qualificati. Si sono rivolti a me in modo raccapricciante: bambole gonfiabili, auguri di stupro, fake news. Poi ho incontrato Salvini in un faccia a faccia e tutti hanno visto come gli exploit volgari nascondevano il vuoto di argomenti».
E con i 5Stelle?
«Per 5 anni hanno scambiato il Parlamento per un palcoscenico teatrale invece di cercare il dialogo per raggiungere risultati concreti. E Di Maio in questi due mesi ha avuto un atteggiamento camaleontico.
Anche questo preoccupa».

il manifesto 12.5.18
Big bang a sinistra? Impossibile, il Pd è sempre lo stesso
Nicola Fratoianni. "Liberi e Uguali deve organizzare un'assemblea aperta, non ci si può rilanciare nel chiuso di un dibattito congressuale. Ora con il partito democratico ci ritroveremo all'opposizione, ma se pensano di difendere l'establishment lo faranno senza di noi"
di Daniela Preziosi


Segretario Fratoianni (di Sinistra Italiana, ndr) da possibili alleati a oppositori dei 5 stelle?
Ancora non sappiamo che governo sarà, ma sappiamo che sarà uno spostamento pesante a destra dell’asse politico del paese. Il Movimento 5 stelle è stato finora un fenomeno ambiguo: un centro di comando che ruota intorno alla Casaleggio Associati, i suoi eletti e le sue reti, e un corpo elettorale molto grande. Oggi ha sciolto l’ambiguità a destra. Una scelta aiutata da chi dall’inizio ha operato e tifato perché il ’tanto peggio tanto meglio’ si realizzasse, nel proprio interesse, penso al gruppo dirigente Pd. Con questo non sto attenuando la pesante responsabilità della scelta di M5S.
Non si potrebbe dire in un’altra maniera, e cioè che il Pd di Renzi ha capito la natura di M5S, e invece oggi la sinistra radicale è costretta a fare autocritica e lanciare allarmi?
Il Pd ha un’enorme responsabilità innanzitutto per aver costruito le condizioni dello spostamento a destra. Che è frutto delle politiche e persino della cultura dei suoi governi, dal fiscal compact alla legge Fornero alla buona scuola. In quest’ultimo passaggio il Pd ha operato in piena continuità. Le sue scelte sono il frutto non di un ripensamento dopo la sconfitta, ma di chi difende la bontà delle proprie politiche rifiutando anche di provare a evitare il governo più a destra che l’Italia ha mai avuto.
Leu e Pd ora si ritroveranno uniti all’opposizione?
Lo misureremo nel modo concreto con cui sarà fatta l’opposizione. Ma c’è chi pensa che a un governo definito antiestablishment ci si debba opporre con un fronte a difesa dell’establishment. Noi no. Il rischio è che l’opposizione fatta così diventi la rappresentanza dei garantiti.
Si spieghi.
Entro nel merito. Di fronte a una proposta come la flat tax occorre una opposizione frontale e intransigente. Ma nello stesso tempo presenterò proposte di legge che facciano misurare la serietà dei parlamentari delle forze che hanno ottenuto successo al voto. Sul superamento radicale della legge Fornero, sul reddito di cittadinanza e sull’art.81 della Costituzione. Mi rivolgerò ai parlamentari di maggioranza e opposizione.
Per abolire la Fornero e per il reddito servono molti soldi. Abbiamo accusato Lega e 5Stelle di balle elettorali. Lei dove troverebbe le risorse?
Tagliando le spese militari, con una seria lotta all’evasione fiscale e ridiscutendo i regali alle imprese utilizzati per accompagnare lo smantellamento dello statuto dei lavoratori, come nel jobs act.
Quegli sgravi hanno creato un po’ di lavoro.
Lavoro instabile. La precarietà è cresciuta a dismisura grazie a questa legge.
Il pericolo del voto ha fatto venire alla luce le differenze nella lista Liberi e uguali. Non ci giro intorno: il nodo del rapporto con il Pd vi dividerà, prima o poi?
Di fronte al risultato del 4 marzo è evidente l’insufficienza di ogni proposta politica. Dobbiamo aprire una discussione su come si reinsedia la sinistra nella società. La composizione sociale del voto delle sinistre, dal Pd a Potere al popolo passando per Leu, è segnata da una condizione economica medio-alta. È una discussione da fare fra tutti. Ma oggi nel Pd non c’è traccia significativa di questa riflessione. Né della messa in discussione del ruolo del Pd non solo nella stagione renziana: la crisi ha origine nell’era della terza via. Senza questo mi sembra velleitaria ogni idea di ricostruire un campo che non sia il puro e semplice frontismo, sbagliato e inefficace. Nel Regno unito il Labour party riconquista forza solo quando costruisce una piattaforma che è la ridiscussione radicale di quella blairiana.
Non era la scommessa di Leu, più a sinistra uguale più voti? Ma non è andata così.
Non è impresa che si realizza in una campagna elettorale. Ma Leu non ha segnato una discontinuità con quella lunga stagione. Ha ridotto la sua differenza al renzismo. Ma non è solo il renzismo il problema.
Crede che gli ex Pd abbiano la tentazione di tornare a casa?
Il tema non è stato posto. Anzi,allo stato della discussione non mi sembra sia questo il tema. Non c’è neanche bisogno di dire che Sinistra italiana comunque non li seguirebbe. Mi pare però che in assenza di un Pd che si ripensa, il ripensamento di un campo sia affrettato. E quando si è discusso della possibile precipitazione elettorale abbiamo registrato punti di vista articolati. E in alcuni casi diversi.
Il Pd d’altro canto medita – forse – il ritorno alla coalizione, non il big bang della sinistra.
Lo dicevo prima. Intendiamoci: come sempre per me non c’è un no a prescindere. Prendo atto che oggi le condizioni per la discussione non ci sono.
Prima del voto c’era chi parlava di partito unitario. Farete almeno l’assemblea di Leu?
Io credo si debba fare. Lunedì abbiamo una riunione e spero che ne usciremo con la convocazione. È un dovere, l’avevamo promessa. Sono stati giorni difficili, segnati dalla sconfitta e da un dibattito pubblico che ha accentuato la nostra irrilevanza parlamentare, per forza di cose. Ma oggi serve un’assemblea aperta con chi vuole ricominciare a costruire un’iniziativa su quello che accade nel paese, in Europa e nel mondo: mentre qui c’è il totogoverno c’è stato l’attacco in Siria, Trump ha disdetto l’accordo con l’Iran sul nucleare, Israele ha bombardato le postazioni iraniane in Siria. Non credo che per rilanciarsi serva discuterne al chiuso dell’ennesimo processo costituente della sinistra.

Il Fatto 12.5.18
“L’intesa Lega-M5S è rischiosa. Il Pd ha puntato sul fallimento”
Giovanni Floris. “Se manterranno tutte le promesse rischiamo la bancarotta: dire ‘avevamo ragione’ non sarà consolatorio per i dem”
di Silvia Truzzi


Merito, competizione, solidarietà. Compiti in classe, gite, interrogazioni. È la scuola, lodata o criticata (spesso a vanvera), di certo troppo spesso riformata. Da un’inchiesta di un anno è nato Ultimo banco, ultimo libro di Giovanni Floris e primo titolo della nuova casa editrice Solferino. Con il conduttore di DiMartedì parliamo di politica – il difficile accordo tra i partiti dopo le elezioni – e di politiche della scuola.
Che voto diamo alla crisi di governo?
Il governo neutro che sembrava il risultato di una crisi irrisolvibile, potrebbe rivelarsi l’elemento che la scioglie. E fortunatamente mi sembra che il Quirinale segua con attenzione ogni passaggio di questa crisi. Se si farà il governo Lega-5 Stelle vedremo scontrarsi con la complessità del Paese chi ha vinto le elezioni semplificando. Io sono molto critico sui programmi di questi due partiti: hanno costi difficilmente sostenibili e non sono nemmeno tutti condivisibili. Non amo il linguaggio della Lega, o l’approccio dei 5 Stelle alla competizione politica. Gli ultimi segnali di Salvini all’estrema destra, le parole di qualche giorno fa di Grillo sull’euro non lasciano ben sperare. Su di loro pesa poi la ‘benevolenza’ di Silvio Berlusconi, che non è cosa da poco per chi vuole governare. Bisogna però riconoscere che la determinazione ad andare a governare di Lega e 5 Stelle è un segnale di buona fede: se si andasse ora a nuove elezioni, avrebbero solo da guadagnarci.
La crisi del Pd è anche una crisi di valori?
Il Pd sconta la crisi di una leadership forte, che ha svuotato il partito. La scelta di non dialogare con i 5 Stelle ha favorito l’alleanza del Movimento con la Lega, e i soggetti che il Pd reputa il peggio che possa capitare al Paese ora potrebbero governare. Non mi pare un gran successo per il partito. Non credo che avrebbero dovuto fare per forza il governo con Di Maio, ma che sarebbe stato utile avere una strategia, saper dove guardare.
Il tanto meglio, tanto peggio.
È sbagliato il punto di vista: non ci si può augurare un clamoroso fallimento come se non costasse qualcosa al Paese. Non credo che riusciranno ad abolire tout court la legge Fornero, né che faranno la flat tax insieme al reddito di cittadinanza, ma mettiamo che riescano a fare tutto ciò, tutto insieme: rischieremmo la bancarotta. Per il Pd dire ‘avevamo ragione’ non sarebbe una gran consolazione.
La scuola è l’argomento più politico che si possa immaginare. E non a caso la politica se n’è occupata moltissimo, pur con risultati rivedibili.
Praticamente ogni governo ha varato una riforma. Nessuna di queste però ha cambiato il destino della scuola, perché al fondo non c’era mai una visione. Si deve partire dall’idea che lo strumento culturale sia la bussola per affrontare problemi sempre più complicati. Il mio professore diceva ‘non c’è nulla di più pratico di una buona teoria’. Oggi in politica si tende a semplificare i linguaggi e le chiavi di lettura: non so se questo è l’effetto o la causa della situazione. Ma vedo un’aria di famiglia tra il modo in cui la politica tratta i problemi e quello in cui trattiamo la scuola.
E cioè?
Immaturità, superficialità, impreparazione, improvvisazione. La sottovalutazione del ruolo che l’approfondimento e lo studio dei problemi possono avere nella soluzione. La tendenza a demonizzare quello che non ci fa comodo.
“La classe dirigente che si è proposta alla guida del Paese negli ultimi tempi rischia di essere ricordata come approssimativa, sempre a caccia di una scorciatoia o di una battuta brillante che supplisca alla fatica di farsi un’idea approfondita su un problema”. È un’autocritica generazionale?
Mettiamola così: quelli della mia generazione che hanno avuto la possibilità di governare il Paese hanno tradito i propri tratti culturali. La formazione che hanno ricevuto avrebbe dovuto renderli pragmatici ma rispettosi del ruolo della cultura e della tecnica. Avrebbero dovuto distinguere tra percezione, desideri e realtà. Tra politica e potere. Eppure questa generazione si è lasciata attrarre dalla superficialità e dal populismo.
La riduzione di tutto a slogan – uno dei tratti distintivi del dibattito pubblico di questi anni – è un espediente vantaggioso: costa meno fatica.
La semplificazione è utile se dietro c’è conoscenza, è una tragedia se dietro non c’è nulla. Ci insegnavano il riassunto, esercizio in cui l’abilità si manifesta nel sintetizzare tutte le circostanze importanti, non eliminandone alcune a caso. La povertà di linguaggio veniva mal giudicata, oggi è la caratteristica comune di gran parte delle operazioni politiche e di molte operazioni culturali. La capacità di comunicare è importante, ma non è esorcizzando la complessità che si ottiene un buon risultato. Non si elimina il problema se si dà del “gufo” (o del “componente della casta”, o del “servo di Berlino”…) a chi lo individua. Dare autorevolezza alla scuola vuol dire restituire valore alla competenza, alla responsabilità, al lavoro collettivo. Quindi al Paese e alle sue istituzioni.
Di chi è la colpa?
Non è più il tempo di parlare di responsabilità, urgono rimedi. Subito un atto pratico e nel contempo simbolico: aumentare lo stipendio agli insegnanti, perché sia evidente che si dà un alto valore alla funzione che esercitano. A forza di provare ad abbassare gli stipendi a chi non ci piace abbiamo dimenticato di alzarli a chi lo merita. Se una collettività perde la capacità di governare il presente, bisogna semplicemente rimettersi a studiare.

Repubblica 12.5.18
I Robin Hood al contrario
di Massimo Giannini


Non prendiamoci in giro.
L’odierno Di Maio in versione Rumor può fare ogni sforzo per annunciare che il suo Frankenstein Grilloleghista eviterà «forzature» e userà tutto il «garbo» possibile con la Ue.
Ma le piccole astuzie dorotee del capo pentastellato non basteranno mai a nascondere o silenziare la ruspa del socio Salvini che avverte: «Stiamo lavorando per voi». Ogni ora che passa rafforza in Europa e nel mondo la preoccupazione per il caso Italia. Portatore di una doppia anomalia tra i Paesi fondatori dell’Unione: primo a essere governato da forze esplicitamente populiste, primo a essere orientato più verso la Madre Russia di Putin e l’Ungheria neo-fascista di Orbán che non verso l’Atlantico.
Qui, con la fusione fredda tra Cinque Stelle e Lega, si avvera la profezia di Steve Bannon.
«Una coalizione tra populisti in Italia sarebbe fantastica — aveva detto due mesi fa il “principe delle tenebre” della campagna elettorale di Trump — perché trafiggerebbe al cuore Bruxelles».
Qui, nella patria che fu di Altiero Spinelli, sul nascente governo Salvi- Maio mette il timbro anche Nigel Farage: «È il migliore scenario possibile — esulta il leader dei separatisti inglesi di Ukip — perché piaccia o no a Bruxelles l’Italia rappresenta ormai un trend che attraversa l’intero continente».
Difficile convincere del contrario noi stessi e l’intero Occidente che osserva stupito (dal Financial Times alla Faz, dal Washington Post a Bloomberg) il Paese più indebitato dell’Eurozona crollato di fronte “alle forze del nazionalismo e del protezionismo emerse negli ultimi due anni come la più grande minaccia all’ordine politico”. Dobbiamo ringraziare Sergio Mattarella, che pur nella profonda solitudine politica con cui affronta questa ennesima notte repubblicana ribadisce due principi non negoziabili. La « narrazione sovranista » è seducente ma inattuabile. Il premier “terzo” del governo nascente, così come i ministri che lo affiancheranno, saranno “nominati” dal presidente della Repubblica, come prevede la Costituzione.
Fare politica, accettando le regole del “sistema”. Un sano bagno di realismo, per due formazioni anti-politiche e anti-sistema cresciute libere e irresponsabili nelle praterie dell’opposizione (mentre i governi della sedicente “sinistra riformista” perdevano colpevolmente la connessione col Paese reale, dopo aver accusato la paleolitica “sinistra radicale” di “mettere il gettone nell’iPhone”). Ma quanto possono reggere, dentro questa “camicia di forza” che si chiama semplicemente democrazia rappresentativa, e che non ha nulla a che vedere con la famosa “ frattura tra il popolo e le élite”?
Possono ripagare la fiducia dei popoli con la moneta buona della prosperità, come chiede Draghi, e non tradirla con i trenta denari dell’irrealtà.
Il governo nasce grazie a un compromesso al ribasso, l’ossimoro moroteo della « astensione benevola » o « benevolenza critica » di Berlusconi, trasformato da “Male assoluto” a “Male astenuto” in virtù delle solite trattative sottobanco ( conflitto di interessi, nomine Cdp- Rai, affare Mediaset- Vivendi). Un’altra polizza per la vita di Salvini, garante dell’incolumità politica e finanziaria del Cavaliere almeno fino al compimento dell’opa amichevole sul suo elettorato. Ma un’altra minaccia per la verginità di Di Maio, già violata dalle troppe contaminazioni tollerate dal 4 marzo in poi e adesso denunciate con rabbia dai “ duri e puri” nello sfogatoio del web.
Ora sta ai due dioscuri del nuovo scegliere a quale destino condannare il Paese e se stessi. Governo del logoramento o «governo del cambiamento»? «Restaurazione » o « Rivoluzione » , usando l’epos millenaristico del capocomico genovese? La prima opzione implica il rispetto dei vincoli comunitari (bilancio europeo, Fiscal compact, disavanzo inferiore all’1,5% del Pil), il riconoscimento delle prerogative del Capo dello Stato (dicasteri di Economia, Esteri e Interni negoziati con il Quirinale) e il cedimento ai “ ricatti del delinquente” ( secondo la formula classica dei grillini da combattimento).
La seconda opzione significa fedeltà alle mirabolanti televendite pre- elettorali. Cioè un « contratto di governo » in cui, oltre alla legge sul conflitto di interessi e alla « espulsione immediata di 600 mila clandestini » , figurano la Flat tax al 15% di Salvini, il reddito di cittadinanza di Di Maio, e l’abolizione della legge Fornero di Salvini e Di Maio. Tutte allegramente finanziate in deficit, cioè ancora una volta scaricate sulle future generazioni. La “tassa piatta” leghista costa 60 miliardi di minor gettito ed è l’imposta dei Robin Hood al contrario che toglie ai poveri per dare ai ricchi (senza correttivi, una famiglia con 30 mila euro di reddito annuo passerebbe da 210 a 2.700 euro di prelievo). Il reddito di cittadinanza grillino costa 28 miliardi secondo le stime Inps. La cancellazione grilloleghista della Fornero costa 130 miliardi in cinque anni. Poi c’è il disinnesco degli aumenti automatici dell’Iva, che ne costa altri 12,4.
Questa è la posta in gioco di una legislatura che nasce, ma per sopravvivere non oltre le elezioni europee del 2019. Di Maio e Salvini incarnano due campi ideologici opposti uniti solo dalla comune natura populista. È questa stessa natura che li esalta, ma al tempo stesso li condanna. Se non fanno quello che hanno promesso, perdono i loro elettori. Se lo fanno, perdiamo tutti.

Il Fatto 12.5.18
Affari e outlet, i pm: “I genitori di Renzi vadano a processo”
L’inchiesta - Secondo l’accusa Tiziano e consorte hanno falsificato due fatture delle aziende di famiglia, per un totale di 160 mila euro
di Davide Vecchi


I genitori di Matteo Renzi, Tiziano e Laura Bovoli, devono essere processati per emissione di fatture false. Ieri i magistrati della Procura di Firenze, Luca Turco e Christine von Borries, hanno trasmesso al giudice delle indagini preliminari la richiesta di rinvio a giudizio per Renzi, Bovoli e per Luigi Dagostino, imprenditore pugliese attivo nel settore degli outlet. Ed è proprio per le attività relative all’outlet The Mall di Reggello, sorto a tre curve da casa Renzi di Rignano sull’Arno, che i genitori dell’oggi senatore Pd sono finiti all’attenzione dei magistrati toscani.
I due sono accusati di aver emesso due fatture per “operazioni inesistenti” nei confronti della Tramor Srl, all’epoca amministrata da Dagostino, incriminato anche per truffa. La prima fattura ammonta a 20 mila euro ed è stata emessa dalla Party srl, società fondata da Tiziano Renzi (40%) e dalla Nikila Invest (60%) amministrata da Ilaria Niccolai, compagna di Dagostino. La seconda, da 140 mila, emessa dalla Eventi 6, società della famiglia Renzi di cui è oggi presidente Laura Bovoli che detiene l’8% delle quote mentre le figlie Matilde e Benedetta possiedono rispettivamente il 56 e il 36%.
L’intera vicenda è stata portata alla luce ormai due anni fa dai colleghi Pierluigi Giordano Cardone e Gaia Scacciavillani del fattoquotidiano.it che hanno rivelato la ragnatela societaria e di interessi dei genitori Renzi attorno al fortunato outlet The Mall. All’inchiesta giornalistica Tiziano Renzi rispose minacciando querele. Poi Giacomo Amadori sul quotidiano La Verità ha rivelato l’esistenza della fattura da 140 mila euro emessa dalla Eventi 6. La Guardia di Finanza ha perquisito la sede dell’azienda e il 22 marzo è emerso che i coniugi Renzi erano iscritti nel registro degli indagati.
Il padre dell’ex premier scelse di difendersi sui giornali con una nota a pagamento: “All’improvviso dal 2014 la nostra vita è stata totalmente rivoluzionata: da cittadino modello a pluri-indagato cui dedicare pagine e pagine sui giornali”, scrisse. “Ribadisco con forza e determinazione che non ho mai commesso alcuno dei reati per i quali sono stato, e in alcuni casi ancora sono, indagato. Se devo essere processato che mi processino il più velocemente possibile, se possibile”.
Concetto ribadito il 18 aprile quando i magistrati hanno trasmesso l’avviso di chiusura indagini e l’avvocato dei coniugi Renzi, Federico Bagattini, ha annunciato la decisione di non voler presentare memoria difensiva. Così, ieri, sono stati accontentati: i pm hanno chiesto il processo. “Siamo certi di poter dimostrare in sede processuale l’assoluta correttezza dei comportamenti tenuti dai signori Renzi”, ha commentato l’avvocato Bagattini. L’inchiesta relativa al “The Mall” non è l’unica che coinvolge direttamente i genitori dell’ex premier e soprattutto l’unica società di famiglia sopravvissuta ai fallimenti: la Eventi 6. Questa ditta è stata sempre messa in salvo.
Qui venne trasferito dalla Chil Srl (destinata al fallimento) il “dipendente” Matteo Renzi, unico assunto a tempo indeterminato e nominato dirigente poche settimane prima che diventasse presidente della Provincia di Firenze. E qui è stato accantonato e graziato dai vari creditori il trattamento di fine rapporto che poi nel 2014, appena nominato premier, il beneficiario ha incassato: circa 48 mila euro lordi. Ma non accantonati dalle aziende: tutti contributi figurativi, dello Stato quindi, versati prima dalla Provincia e poi dal Comune di Firenze negli anni in cui ha guidato questi enti. Un tesoretto messo miracolosamente al riparo, considerati i numerosi epiloghi negativi registrati nei dieci anni dalle aziende di famiglia e definiti dai pm fiorentini un “sistema di fallimenti dolosi”.
La Eventi 6, finora, era sempre stata solo sfiorata dalle indagini. A lei, oltre Firenze, è recentemente arrivata anche la Procura di Cuneo che contesta una bancarotta fraudolenta documentale a Laura Bovoli già amministratrice della Party Srl. I magistrati piemontesi guidati da Francesca Nanni hanno individuato una serie di operazioni effettuate tra la società e la Direkta srl, un’azienda cuneese fallita nel 2014 e guidata da Mirko Provenzano. Gli inquirenti hanno scoperto che negli anni tra il 2011 e il 2012 c’è stato un fitto rapporto tra le due aziende. Fitto quanto poco chiaro: la Direkta pagava la Eventi 6 con assegni coperti da versamenti che la Eventi 6 prima faceva alla Direkta. Gli atti sono in parte state trasferiti a Firenze. E, a quanto si apprende, anche la Procura di Genova dovrebbe aver ricevuto documenti da Cuneo relativi ai rapporti finanziari tra le due aziende: la magistratura ligure si è occupata anni fa delle aziende di famiglia Renzi e ha indagato Tiziano per bancarotta in relazione alla Chil per poi archiviare la sua posizione.

Corriere 12.5.18
I pm: i genitori di Renzi a processo per fatture false
di Marco Gasperetti


D’essere giudicato davanti a un tribu-nale e non in un interminabile processo mediatico, Tiziano Renzi lo aveva chiesto un paio di mesi fa diffondendo, dopo l’ennesimo avviso di garanzia, un lungo docu-mento. Così ieri, quando è uscita la notizia della ri-chiesta della Procura di Firenze di processare il padre e la madre dell’ex premier per una presunta vicenda di fatture false, l’avvocato di famiglia, Fe-derico Bagattini, ha com-mentato «che la richiesta di rinvio a giudizio è ampiamente compatibile con la nostra richiesta. Siamo certi di poter dimo-strare in sede processuale l’assoluta correttezza dei comportamenti tenuti dai signori Renzi». Secondo i magistrati fiorentini, Ti-ziano Renzi e Laura Bovoli, invece, devono essere in-criminati con il fondato sospetto di aver emesso due fatture false da 20 mi-la e 140 mila euro per «operazioni inesistenti» da parte delle società da loro stessi controllate: la Party e la Eventi 6. A bene-ficiare del denaro la Tra-mor Srl, una società di cui all’epoca dei fatti era amministratore Luigi Dagostino, imprenditore pugliese, «re degli outlet di lusso», e «creatore» di The Mall, l’outlet toscano nei pressi di Rignano sul-l’Arno, dove vive la fami-glia Renzi. Dagostino, già salito alla ribalta delle cro-nache per l’acquisto del Teatro Comunale di Firen-ze (poi tornato in mani pubbliche) è considerato politicamente molto vici-no all’ex segretario del Pd ed ex premier Matteo Ren-zi. Contro l’imprenditore i pm Christine von Borries e Luca Turco hanno chiesto anche l’incriminazione per truffa. Secondo le in-dagini della Guardia di Finanza, le due fatture di Tiziano Renzi e della mo-glie Laura Bovoli, sarebbe-ro state gonfiate e non corrisponderebbero alle prestazioni tecnicamente rilevate. La prima, da 20 mila euro, sarebbe stata emessa dalla Party srl, società fondata da Tiziano Renzi e dalla Nikila Invest, srl amministrata dalla compagna di Dagostino. La seconda, da 140 mila euro, avrebbe avuto come oggetto uno studio di fattibilità (secondo l’accusa mai realizzato) di una «struttura ricettiva food con i relativi incoming asiatici e la logistica da e per i vari sistemi di trasporti pubblici quali ferrovie e aeroporti».

Il Fatto 12.5.18
Br, così Moro “chiamò” per trattare la liberazione lo 007 del patto con l’Olp
di Miguel Gotor


La drammatica evoluzione del sequestro Moro fu condizionata da un secondo aspetto di politica estera segreta, quello che riguardò i rapporti con i palestinesi. Accanto al nodo della sicurezza atlantica concernente le rivelazioni intorno a Gladio, infatti, Moro in alcune sue lettere fece riferimento a degli accordi di intelligence, il cosiddetto “lodo Giovannone”, stipulato nell’ottobre 1973 con i palestinesi, nei giorni in cui infuriava la Guerra del Kippur tra Israele ed Egitto. Si trattava di un’intesa che il governo italiano, allora guidato da Mariano Rumor, mentre Aldo Moro era ministro degli Esteri e Paolo Emilio Taviani degli Interni (tra le carte del suo archivio personale sono stati ritrovati documenti relativi alla questione risalenti già al dicembre 1972), strinse grazie all’azione del colonnello Stefano Giovannone, che da circa un anno occupava l’incarico di capocentro dei Servizi segreti militari italiani a Beirut. Il lodo prevedeva di salvaguardare l’Italia da attentati della guerriglia palestinese e di evitare che il nostro territorio, in quegli anni già dilaniato dallo stragismo neofascista con regolare puntualità, si trasformasse in un campo di battaglia del conflitto tra arabi e israeliani, portato avanti dai rispettivi servizi di intelligence.
In cambio di questa tutela, volta a garantire il più possibile la sicurezza quotidiana e l’incolumità dei cittadini italiani sul loro territorio nazionale, il nostro Paese si impegnava, per cause di forza maggiore inerenti la ragione di Stato, ma in dispregio del dettato costituzionale che prevede l’obbligatorietà dell’azione penale, ad assicurare alla controparte mediorientale due condizioni: anzitutto a concedere dei salvacondotti giudiziari ai guerriglieri palestinesi catturati sul suolo nazionale dalle forze dell’ordine nell’atto di compiere attentati verso obiettivi italiani o stranieri (in particolare israeliani e statunitensi); in secondo luogo, a “chiudere un occhio” sul continuo traffico d’armi che dal Nord dell’Europa, utilizzando l’Italia come una passerella, i palestinesi utilizzavano per combattere gli israeliani in Medioriente.
Naturalmente si trattava di accordi segreti, a conoscenza di selezionati vertici militari e politici, i quali ritennero pro bono patriae che corrispondesse al supremo interesse nazionale stipularli. Oggi sappiamo che il ministro degli Esteri Aldo Moro svolse un ruolo nella definizione di questo lodo, la cui titolarità, a livello pubblicistico, gli fu maliziosamente attribuita da Cossiga. Ad esempio, l’ambasciatore Luigi Cottafavi ha testimoniato che i giuristi Leopoldo Elia, Renato Dell’Andro e Giuseppe Manzari, tutti legati a Moro da stretti rapporti di fiducia e di stima, furono utilizzati nel 1973 nelle vesti di consulenti per definire i termini dell’accordo.
Nel corso del suo sequestro, Moro indirizzò proprio a Cottafavi, Dell’Andro e Manzari delle lettere sull’argomento, certamente scritte tra il 22 e il 23 aprile, ma distribuite dalle Brigate rosse in modo riservato soltanto il 29 aprile 1978. A questi testi vanno aggiunte le due missive spedite all’allora capogruppo della Dc Flaminio Piccoli e una al presidente del Comitato parlamentare di controllo sui servizi di informazione, sicurezza e sul segreto di Stato Erminio Pennacchini, anch’esse redatte come le precedenti negli stessi due giorni e recapitate soltanto una settimana dopo dai sequestratori. Il fatto che i brigatisti abbiano distribuito in modo riservato questo fascio di lettere è importante perché dimostra come fossero consapevoli che esse riguardavano un nodo segreto della diplomazia estera italiana che, in quel frangente, avevano interesse a tutelare, in quanto era in corso, proprio in quei giorni, una trattativa occulta che a parole, nei loro comunicati, avevano negato “perché nulla deve essere nascosto al popolo”.
Tra queste lettere è lo stesso Moro a dirci che la “più importante” è quella rivolta a Piccoli in cui si affermava: “Si tratta della nota vicenda dei palestinesi che ci angustiò per tanti anni e che tu, con il mio modesto concorso, riuscisti a disinnescare”. In essa Moro aggiungeva: “Vorrei che comunque Giovannone stesse su piazza”, ossia richiedendo la presenza del colonnello dei Servizi a Roma in quei giorni. In un’altra missiva aggiungeva: “Dunque, non una, ma più volte, furono liberati con meccanismi vari palestinesi detenuti e anche condannati, allo scopo di stornare gravi rappresaglie che sarebbero state poste in essere, se fosse continuata la detenzione” e ribadiva la necessità che “se è in Italia (e sarebbe bene da ogni punto di vista farlo venire) il Col. Giovannoni (sic), che Cossiga stima”.
Queste due lettere a Piccoli sono importanti anche per un altro motivo: nei dattiloscritti corrispondenti ritrovati in via Monte Nevoso nell’ottobre 1978 compaiono una serie di errori di ortografia tipici che consentono di attribuire l’attività di battitura a macchina con sufficiente certezza a Prospero Gallinari. Inoltre, uno dei due dattiloscritti, è l’unico che riporta un segno autografo a penna di un brigatista (la perizia grafologica ha dimostrato essere la mano di Mario Moretti) che aggiunse e corresse, peraltro in modo impreciso, gli incarichi di governo attribuiti da Moro a Pennacchini.
Ma le due missive sono tra le più rilevanti dell’intero epistolario perché attestano l’esistenza di un canale di ritorno riservato tra la prigionia e l’esterno e quindi contribuiscono a potenziare la dimensione spionistico-informativa del sequestro. Infatti, in entrambe si richiedeva la presenza di Giovannone in Italia e le due missive furono sicuramente recapitate il 29 aprile, ma con altrettanta certezza vennero scritte dal prigioniero nel pomeriggio del 23 aprile. Ora, a partire dalla declassificazione di documenti dei servizi avvenuta soltanto nel 2014 grazie alla cosiddetta “Direttiva Renzi”, sappiamo che Giovannone, in base al foglio di viaggio che non fa alcun riferimento alla vicenda Moro, già il 24 aprile era in viaggio verso l’Italia (“su piazza”, come richiesto dallo scrivente), facendo uno scalo tecnico a Creta “causa rifornimento dovuto a fortissimo vento contrario”. Dal momento che le lettere uscirono dalla prigione soltanto il 29 aprile, è evidente che qualcuno dal suo interno fu in grado di avvertire i Servizi della richiesta di Moro e della necessità della missione di Giovannone dal momento che i brigatisti tergiversavano nel distribuire le missive, impiegando, diversamente da altri casi accertati, quasi una settimana.
Sul cosiddetto “lodo Giovannone” e sulla trattativa segreta che riguardò i palestinesi in funzione di intermediazione per ottenere la liberazione a Beirut di quattro capi militari della Raf, legati all’organizzazione terroristica internazionalista di Illich Ramirez Sanchez, detto Carlos, sono usciti validi recenti contributi di Francesco Grignetti (Salvate Aldo Moro. La trattativa e la pista internazionale, Editore Melampo) e, sulla scorta dei lavori della Commissione Moro che ha presieduto nell’ultima legislatura di Giuseppe Fioroni e Maria Antonietta Calabrò (Moro il caso non è chiuso. La verità non detta, Lindau).
I quattro tedeschi, autori di svariati omicidi in Germania nel 1977, erano detenuti in quei giorni in Jugoslavia e lo spionaggio italiano, o almeno la parte di esso leale a Moro, si impegnò, direttamente con il presidente Josip Broz Tito per promuovere la loro liberazione, si può facilmente immaginare con quale reazione da parte di Bonn. Sappiamo che durante il sequestro il collaboratore di Moro, Sereno Freato, si recò in missione segreta a Belgrado dal presidente Tito viaggiando su un aereo privato messogli a disposizione dall’allora giovane e rampante imprenditore milanese Silvio Berlusconi. Inoltre, siamo a conoscenza che, all’alba del 9 maggio 1978, il vicecapo del Sismi, Fulvio Martini, si recò in macchina in Jugoslavia partendo da Venezia arrivando fino alla cella dove i quattro giovani erano detenuti. Proprio lì fu raggiunto dalla notizia della morte di Moro e fece rientro in Italia. Nell’agosto 1978, sarebbe stato allontanato dal servizio segreto militare ormai egemonizzato dal piduista Giuseppe Santovito, ma ritornò ai massimi vertici della struttura, nominato nel maggio 1984 dal premier Bettino Craxi, dirigendola sino al 1991, ormai in un’altra Italia. Le sue memorie, Nome in codice Ulisse, sono dedicate alla veneranda memoria di Giovannone che perse la furibonda partita per salvare Moro.
Alla luce di questi dati, fa sorridere che, a distanza di quarant’anni dai fatti, i protagonisti o i testimoni di allora ancora discettino nell’ormai rituale occasione degli anniversari sulla cosiddetta linea della fermezza (i più colti si spingono a citare Creonte e Antigone), continuando a ignorare la realtà, ormai accertata, delle trattative che intervennero in quei giorni, il che obbligherebbe a interrogarsi sulle ragioni politiche del loro presunto fallimento per la parte riguardante la vita dell’ostaggio. Speriamo che in occasione del prossimo decennale, costoro possano trovare il tempo di leggere qualche serio libro di inchiesta e dei buoni libri di storia
10 – fine

La Stampa 12.5.18
A colloquio con il grande scrittore americanoPhilip Roth
“Sua maestà Kafka il mio insegnante di ossessioni nascoste”
intervista di Elena Mortara


Sole splendente, cielo azzurro terso e vento sferzante: cammino per le strade dell’Upper West Side di Manhattan verso l’appuntamento con Philip Roth. A pochi mesi dall’uscita del primo Meridiano Mondadori dedicato alla sua opera da me curato, sto per incontrarlo nel suo appartamento. Entrando, sono inondata dalla luce dell’ampio luminosissimo soggiorno, con finestre-balcone estese per gran parte della parete di fronte, aperte allo spettacolo della città. Roth indossa una camicia color carta da zucchero e pantaloni di lana marrone chiara. Accanto a noi, in questo ambiente splendente di luce, un tavolino su cui sono appoggiati molti libri. Senza molti preamboli, la conversazione inizia spaziando dai ricordi famigliari all’Italia conosciuta da giovane, dagli incontri con altri scrittori alle riflessioni sui suoi libri, con scoperte talvolta sorprendenti. È un Roth accogliente e in gran forma. «Sono felice», ammette con tutta semplicità, quando gli chiedo come si senta, ora che ha appena pubblicato in America una sua nuova splendida raccolta di saggi (Why Write?, 2017) e sono da poco usciti, in contemporanea, in Italia e in Francia, i primi volumi dedicati al complesso della sua opera narrativa da parte delle due più prestigiose collane letterarie di questi due Paesi, i Meridiani Mondadori e La Pléiade di Gallimard.
Perché nella raccolta di saggi ha deciso di collocare il suo testo del 1973, «“Ho sempre voluto che ammiraste il mio digiuno”, ovvero, guardando Kafka», come primo pezzo della raccolta?
«Innanzitutto, è un testo che mi piace così tanto. È come se mi fosse arrivato in dono. Insegnavo all’Università della Pennsylvania all’inizio degli Anni 70, tenevo un corso su Kafka, e avevo una classe meravigliosa, con studenti così brillanti. Dunque stavo per scrivere questo testo biografico su Kafka per la classe. E poi, mentre lo scrivevo, mi è venuta questa idea di immaginare che Kafka, rifugiatosi in America, fosse divenuto il mio insegnante di scuola ebraica. Perché io andavo alla Hebrew School dopo la scuola. La odiavo, ma sono contento di averlo fatto. Gli insegnanti, alcuni di loro, erano dei profughi. È lì che mi è venuta l’idea, perché avevamo questi profughi, queste povere persone tormentate. Tutti noi ragazzi ebrei eravamo perfetti nella scuola normale e dei birichini alla Hebrew School».
Come lei dice nella prefazione al volume, quel primo testo è un misto tra saggio e racconto, una «hybrid essay-story». È anche un modo per iniziare la sua raccolta di saggi ricordandoci che è uno scrittore di fiction, sottolineando la qualità ibrida di questo testo?
«Sì, e il libro finisce anche in questo modo. L’ultimo pezzo termina con quel lungo brano tratto da I
l teatro di Sabbath».
Così ha creato una cornice. E al contempo sottolinea l’importanza che Kafka ha avuto per lei. È così?
«Beh, io avevo soltanto studiato e letto Kafka intorno ai vent’anni, ma non sapevo cosa fosse veramente. Poi, sui trent’anni, ho iniziato a leggerlo di nuovo, e l’ho capito, ne ho sentito realmente la forza e la maestosità. Così ho iniziato a insegnare Kafka, e mi sono avvicinato così tanto alla sua scrittura. E poi sono andato a Praga, la prima volta proprio come una sorta di pellegrino. In seguito ho incontrato gli scrittori. Il mio libro Un professore di desiderio ha una bella scena, in cui uno viene presentato alla prostituta di Kafka, se la ricorda? È una scena molto carina. La donna dice, cito a memoria: “Non mi hai mai picchiato. Perché i ragazzi ebrei non mi picchiano mai?”».
Come scrittore, in che modo Kafka l’ha influenzata o colpita?
«L’ossessività, lo scavare in ogni aspetto di una situazione, continuamente rivoltando una situazione. Anche la commedia. E poi la drammatizzazione dell’estrema frustrazione, dell’estremo intrappolamento. Tutto ciò mi ha “parlato”. Non scrivo come Kafka, ovviamente... E la mente che si intravede, la mente dietro tutto ciò. È interessante, la sua mente è nascosta, è nascosta, ma è lì».
Ho notato che la sua prima dedica in «Goodbye, Columbus» è rivolta a sua madre e suo padre. Nella sua introduzione al suo ultimo libro di saggi, lei sottolinea la frase di Edna O’Brien, «Le influenze determinanti su di lui sono i suoi genitori».
«Sa, i miei genitori sono stati molto importanti per me, perché erano così buoni, e hanno cresciuto mio fratello e me con tanto affetto. Ma anche la comunità in cui sono cresciuto, quel grosso quartiere ebraico, è stato per me come un genitore di più ampie dimensioni. Poiché erano tutti ebrei, c’erano alcune famiglie non ebraiche, ma non molte. E davvero noi ci sentivamo così al sicuro. Durante la guerra, l’America non era in pericolo, ma avevamo assorbito la guerra, e il quartiere era così sicuro. E sapevamo anche dell’antisemitismo, perché negli Anni 20 e 30 gli Stati Uniti erano un Paese molto antisemita. E poi ovviamente sapevamo di Hitler; quindi sapevamo che c’erano posti dove eravamo disprezzati. Eppure in questo posto noi eravamo amati, c’era una sorta di amore comunitario. Dunque era un posto molto speciale, un posto molto speciale».
Ho l’impressione che per lei sia stata molto importante la Jewishness, l’ebraicità, non il Judaism, non l’ebraismo come sistema di pensiero, come religione, ma l’ebraicità, l’esperienza di essere ebreo.
«Sì, potremmo dire l’ebraismo etnico. Certo, perché sono sempre stato consapevole di me stesso come ebreo, anche se non sono mai stato un ebreo osservante. Ho fatto il bar-mitzvah, quella è stata l’ultima volta che sono andato in una sinagoga. La difficile condizione storica degli ebrei mi divenne chiara molto presto. Quindi ne sono stato sempre consapevole. Per quanto riguarda la scelta dei miei personaggi nei miei libri, ho scritto su di loro perché li conoscevo. Ero interessato agli ebrei, ero interessato a queste persone che conoscevo, erano ebrei. E dopo il mio primo libro, dopo Goodbye, Columbus, a parte Lamento di Portnoy, l’intera importanza dell’ebraicità diminuisce. Non è da nessuna parte nella mia trilogia, in Pastorale americana. Certo, lui è ebreo, ma...»
Ci sono altri libri in cui il tema è estremamente importante. Come in «La controvita», in «Il complotto contro l’America», in «Operazione Shylock»…
«Non riesco a uscirne!»
Che mi può dire del grande cambiamento da lei apportato a partire dal 2000 nel modo di elencare i titoli dei suoi libri, nella pagina situata accanto al frontespizio nelle edizioni americane, quando ha cominciato a raggrupparli per gruppi di romanzi e non più in semplice ordine cronologico? Quando e perché ha iniziato a pensare che quello era un nuovo modo di presentare le sue opere?
«Penso di aver voluto attirare l’attenzione dei lettori sul fatto che alcuni di questi libri sono collegati, non sono semplicemente una lunga lista di libri. E infatti la gente ha cominciato a vedere Zuckerman come un personaggio perché avevo collocato insieme tutti quei libri, e così è stato anche per Kapesh come personaggio. E poi c’erano i “Roth books”, i libri con il personaggio di Roth. Quindi mi è sembrata una buona idea, e penso che in effetti sia stata efficace, ha portato la gente a focalizzare l’attenzione, per quanto si possa indurla a farlo».
Il primo volume dei Meridiani Mondadori include otto dei suoi romanzi scritti tra il 1959 e il 1986 fino a «La controvita». Personalmente trovo questo romanzo estremamente importante da tutti i punti di vista: per il dibattito, per la struttura…
«È un buon libro. Qualcosa è mutato, i miei lavori sono cambiati con questo romanzo. Questo è il tipo di perno su cui si cambia, perché qui ho avuto l’idea della complessità e dell’amplificazione. Nei miei primi romanzi, ad eccezione di Lasciar andare che era una creazione giovanile, io condensavo molto. E poi con La controvita mi sono aperto e ho permesso l’ingresso della complessità. E questo ha cambiato tutto ciò che è venuto dopo, fino all’ultimo. Gli ultimi quattro libri sono ridiventati piuttosto semplici».
Con «La controvita» lei ha esplorato la possibilità di creare delle storie alternative, mostrando come la realtà può prendere delle direzioni diverse.
«Come di fatto avviene!»
Sì, come avviene! Anche a seconda delle nostre scelte, ma…
«…ma qualche volta no!»

La Stampa 12.5.18
Limonov
Sono reazionario condanno il razzismo
di Paola Italiano


Condanna il razzismo, denuncia il rischio del ritorno del fascismo, ma si sente un precursore dei movimenti nazionalisti dell’Europa. Scrive tantissimo, ma odia tutti gli scrittori. Un sorvegliato speciale in Russia, ma di Putin dice che «conta molto meno di quanto creda l’Occidente, che per lui ha una fissazione». Eduard Limonov è contraddittorio esattamente come ci si può aspettare avendo in mente la biografia che ne ha scritto Emmanuel Carrère, che Limonov ha letto solo per poche decine di pagine: gli è grato per aver accresciuto la sua celebrità nel mondo, ma nulla più. Non è arrivato al punto del libro nel quale Carrère ebbe seri dubbi sul proprio lavoro e si bloccò per più di un anno: quello in cui vide il dissidente russo, membro di una squadra di cecchini serbo bosniaci nell’ex Jugoslavia degli anni 90, sparare con la mitragliatrice verso Sarajevo sotto lo sguardo di Radovan Karadzic (che nel 2016 sarebbe stato condannato dal Tribunale penale internazionale a 40 anni di carcere per genocidio e altri crimini di guerra). Ma è inutile chiedergli oggi conto di quelle scelte: Limonov dice che nella sua vita «non ha alcun rimpianto».
Teppista, guerrigliero, intellettuale, scrittore, poeta, attivista politico, martire dell’opposizione democratica in Russia. Circondato dall’aura del profeta, del guru. Uomo dalle mille vite, quella a New York negli anni Settanta, poi a Parigi dove entrò nelle grazie dei circoli intellettuali che poi gli voltarono le spalle, Eduard Veniaminovich Savenko alias Limonov si trova oggi fuori del suo Paese per la prima volta dopo 23 anni: non era nemmeno sicuro che gli avrebbero dato il visto per venire in Italia e al Salone del Libro di Torino, dove presenta un’autobiografia, Zona industriale, in cui racconta gli anni della sua vita dopo l’uscita dal carcere, nel 2003.
Allora aveva scontato due dei quattro anni a cui era stato condannato per acquisto di armi: unica accusa che ha resistito rispetto a quella di cospirare contro il governo. È stato il suo editore italiano, Sandro Teti, a portarlo in Italia, ed è un po’ strano vedere il fondatore (all’inizio degli anni Novanta) del partito nazionalbolscevico, oggi fuorilegge, girare per una fiera come il Salone. Capelli bianchi, occhiali, fisico asciutto, Limonov, che ha 75 anni, sembra davvero avere fatto un patto con il diavolo come il Faust di Goethe a cui ha dedicato molte pagine di Zona industriale.
Com’è stata l’esperienza del carcere? Ne è uscito cambiato?
«Ho vissuto molto bene in carcere perché ho provato subito una grande empatia con tutte le persone recluse. Stavo bene. Ho scritto sette libri. Non sono cambiato: avevo già sessant’anni, come facevo a cambiare? La mia vita è stata molto intensa: ho scritto libri e combattuto guerre».
Nel suo libro parla di Goethe, e del Faust. Quali altri scrittori sono per lei dei punti di riferimento?
«A seconda del periodo della vita ho avuto diverse preferenze, ma in generale non amo gli scrittori, non li sopporto proprio. Anzi, li odio».
Anche Carrère?
«Carrère è un’eccezione. Non è certo Goethe».
Cosa ne pensa dell’avanzata dei nazionalismi in Europa?
«Io ho conosciuto Jean-Marie Le Pen e tutta quella che è l’ideologia di destra già alla fine degli anni Ottanta. Quando ho costituito il mio partito, all’inizio degli anni Novanta, eravamo dei precursori rispetto ai nostri tempi perché avevamo superato la concezione di destra e sinistra, mettendo insieme elementi che appartenevano all’una e all’altra. Pensai subito che, pur tenendo presente le gravi lacune di Jean-Marie Le Pen e gli aspetti negativi come il razzismo, quella ideologia avrebbe riscosso consensi negli anni successivi e avrebbero trovato un riscontro importante nella popolazione europea».
Oggi ci sono leader che ammira?
«No. Io ho la mia ideologia e non condivido e non ammiro nessun politico attuale».
Cosa pensa della situazione politica italiana?
«Che anche l’Italia si muove verso posizioni nazionaliste e isolazioniste, con derive razziste. E questa situazione potrebbe portare a rianimare le ideologie che erano state liquidate dopo la Seconda guerra mondiale. I primi che devono difendersi da questo rischio sono i Paesi che erano alleati della Germania, come i Paesi Baltici, l’Ungheria, la Romania: perché, nonostante quel che dice oggi la nuova storiografia, tutti erano Stati fascisti, totalitari. E non è una questione dei governi, ma delle popolazioni: l’arrivo oggi di un numero eccessivo e incontrollato di immigrati fa rinascere sentimenti razzisti e negativi».
Una delle cinque domande che il Salone del Libro ha posto a scrittori e intellettuali è «perché mi serve un nemico»: chi sono oggi i nemici di Limonov?
«Io ho molti nemici e io sono orgoglioso di avere molti nemici. Li ho perché le mie idee irritano molte persone. Se danno fastidio, vuol dire che sono efficaci».
E Putin?
«Voi in Occidente siete fissati con Putin. È un presidente eletto dalla stragrande maggioranza della popolazione, che a una parte della popolazione non va bene. Ma non è l’unico che governa la Russia. In realtà è un “frontman”: ci sono circa trenta gruppi che concorrono a fare la politica russa, con interessi finanziari e non solo. Anche rappresentanti dell’esercito e politici importanti, come la presidente della Camera alta del Parlamento, Valentina Matvienko».
Nel mondo si celebrano i duecento anni dalla nascita di Karl Marx. Crede che le sue teorie oggi abbiano ancora qualcosa da dire oggi?
«Credo che tutti i pensatori del XIX secolo, come Marx o come Nietzsche, abbiano esaurito la loro spinta. Il Manifesto del partito comunista è stato scritto nel 1848, siamo nel 2018: credo che le ideologie, come gli uomini, invecchiano. Ne salvo solo uno: Malthus».
Perché?
«Perché ha posto il problema della relazione tra l’uomo e il pianeta: Marx aveva posto quello della relazione tra gruppi di persone, tra classi. Malthus fu l’unico a intuire il rischio dell’esaurimento delle risorse».
Denuncia le derive razziste, rischi di ritorno dei fascismi, parla della questione ambientale: sembra quasi un intellettuale progressista.
«Io sono un intellettuale reazionario, che viene da un Paese reazionario. Siamo una forza bruta che anche in passato ha fatto fuori ideologie negative come quelle di Hitler e di Napoleone. E siamo venuti in Europa per salvarla già svariate volte».

Corriere 12.5.18
Polemiche Il filosofo denuncia: nelle scelte dell’editoria le logiche commerciali prevalgono sui criteri scientifici
Carlo Sini : una cultura dispersa è l’anticamera del conformismo
di Cristina Taglietti


TORINO Niente come una fiera, e il Salone del Libro in particolare, con il suo corollario di voci e rumori, a volte di musiche assordanti, sembra incarnare meglio lo spirito del nostro tempo votato, dice il filosofo Carlo Sini, alla dispersione. Eppure, nella vetrina dei saperi, dove lo spazio delle riflessione sembra compromesso, gli incontri filosofici hanno un pubblico tenace e neppure tanto piccolo. Molti visitatori, ieri, sono rimasti fuori dalla lectio magistralis di Sini, ma anche dall’incontro in cui Danco Singer, del Festival della Comunicazione di Camogli, ha messo a confronto lo storico Alessandro Barbero e il filosofo Maurizio Ferraris, su un tema, Visioni, che guarda avanti verso il futuro e indietro verso il passato incrociando i saperi.
Il pubblico che segue gli incontri filosofici ha caratteristiche molto peculiari. Si va alla fiera come a lezione, con il quaderno degli appunti e i testi dei filosofi, non soltanto quelli dei relatori: La scienza della logica di Hegel, le opere di Platone, l’immancabile Derrida sono alcuni dei titoli visti tra le mani. E alla fine molti chiedono, più che il firmacopie, un supplemento di spiegazione, l’approfondimento su un’opera citata o su un concetto espresso, come se fossero studenti desiderosi di ben figurare.
Ieri l’editore Mimesis ha dedicato, con Massimo Donà, Giuliano Compagno e Gianni Vattimo, un omaggio a Mario Perniola, scomparso lo scorso gennaio, figlio elettivo di due padri, Luigi Pareyson e Guy Debord, e alla sua capacità di guardare al contemporaneo con uno sguardo obliquo, libero da condizionamenti. Oggi arriveranno Umberto Galimberti (in dialogo con Enzo Bianchi e poi con Nadia Fusini), Giulio Giorello (a riempire con nozioni di filosofia per ragazzi il format chiamato L’ora buca, assieme a Giancarlo De Cataldo che, invece, farà lezione di diritto), mentre Simone Weil (1909-1943) «parlerà» attraverso le lettere, pubblicate da Adelphi, con il fratello matematico André.
Sini, che conosce bene il Salone, vede tutto ciò come uno degli effetti tutto sommato positivi della dispersione. «Queste manifestazioni la rappresentano bene. Siamo colmati da una molteplicità di voci. Questo è il posto canonico, il luogo della totale dispersione. Da uno stand all’altro la cultura è esplosa: c’è tutto, dalle arti marziali ai francobolli cinesi. Ma sarebbe sciocco dire che è un male. Io propongo una lettura positiva. È la vita stessa, la ricchezza è nella molteplicità».
È quella che nel libro Del viver bene (edito da Jaca Book che sta pubblicando le Opere di Sini, 6 volumi in 11 tomi) definisce «la democrazia delle occasioni». «Se non dà un accesso il più possibile diffuso al maggior numero di persone è una finzione, è pura retorica». Ma, è il pensiero del filosofo, più esplode la molteplicità, più si mette in movimento qualcosa di paradossale che ha come risultato l’omogeneità: «Tutto è differenziato, niente è differente. Il conformismo è l’altra faccia della dispersione. Tutto si adegua alla produzione di merci che, intendiamoci, non sono il diavolo. Ma questo modello è stato così potente che ha assimilato a sé anche il modello culturale. La desertificazione delle culture nazionali ne è una delle conseguenze».
Così, se nella formazione domina il modello anglofono, tecnico-scientifico, al difetto omogeneizzante non sfugge neppure l’editoria. «C’è un’unica editoria — dice Sini — si copiano tutti tra loro, gli autori sono sempre gli stessi che fanno il giro, nessuno osa niente. Non c’è coraggio, non c’è scoperta, si propone un prodotto uniforme, ripetitivo. D’altronde i direttori scientifici sono diventati direttori commerciali, attenti al marketing».
Un discorso che Sini fa pensando anche alla produzione filosofica. «Prima andava di moda Deleuze, adesso è il momento degli anglosassoni. Per venire pubblicati devono aver sfondato un certo livello di riconoscibilità, magari per ragioni biografiche. Lo stesso Sartre è diventato famoso con L’essere e il nulla, poi è stato dimenticato».
La riflessione sulla dispersione, e sulla moltiplicazione delle verità, delle competenze, dei saperi, è al centro della riflessione del filosofo che, anche nella sua lectio, nata in risposta a una delle domande lanciate dal Salone (Chi voglio essere?), ne ha illustrato gli effetti negativi. «Oggi domina l’interdisciplinarità, mentre dovremmo parlare di transdisciplinarità. Il progetto che ci incalza è quello di tentare una riunificazione dei saperi che non sia contraria alla specializzazione, ma che la riconduca a un nucleo condiviso. Un tempo non è che Kant non capisse Newton. Oggi è così: tra filosofi e scienziati non ci intendiamo perché non abbiamo più un sapere comune».

La Stampa 12.5.18
I nostri “podcast”
Notizie, approfondimenti e storie: la rivoluzione del giornale che si ascolta
di Francesca Sforza


La sfida per gli ascolti è la nuova battaglia dei giornali, che in un mondo in cui le abitudini sono sempre più caratterizzate dalla mobilità, hanno capito di doversi misurare non solo con le parole scritte, ma anche con quelle pronunciate. E se i temi restano quelli tradizionali dell’informazione, dell’approfondimento o dell’intrattenimento, il modo di trattarli è ispirato a una ricerca di maggiore confidenza con il lettore-ascoltatore, nell’idea di dar vita a una comunità intellettuale che, oltre a leggersi, si può ascoltare.
«La Stampa», con i podLast, è stato il primo giornale italiano a sperimentare un intero palinsesto settimanale di podcast ascoltabili dal lunedì al venerdì sulla piattaforma a pagamento Audible. E da oggi inaugura un’altra avventura: le pillole audio in collaborazione con Samsung. Ogni giorno, su tutti i device Samsung, sarà possibile ascoltare i giornalisti della «Stampa» che raccontano il mondo: tre minuti al mattino, dalle 8 in poi, e cinque minuti al pomeriggio, dalle 17,30.
Mattina e pomeriggio
La fascia mattutina sarà dedicata alla notizia del giorno, e condotta ogni settimana da una diversa firma della «Stampa» - si comincia il 15 maggio con il direttore Maurizio Molinari - mentre nel pomeriggio si alterneranno diverse rubriche settimanali: lo Sport il lunedì con Paolo Brusorio, responsabile delle pagine sportive; le storie dal mondo di Francesca Paci ogni martedì; tecnologia e utopia di mercoledì con Gianluca Nicoletti; i migliori film della settimana scelti da Fulvia Caprara il giovedì; i viaggi intelligenti consigliati da Raffaella Silipo a ridosso del week end, per chiudere il fine settimana con i consigli di libri brevi e originali presentati da Michela Tamburrino e quelli dedicati a salute e benessere di Claudia Ferrero.
Sarà sufficiente scaricare la App gratuita Samsung Members per ricevere le segnalazioni quotidiane e, tra un impegno e l’altro, scegliere cosa ascoltare. «In un’epoca in cui la pluralità mediatica tra giornali, social network e condivisioni social ci espone a milioni di informazioni al giorno, molto spesso non certificate, - dice Alicia Lubrani, Head of Marketing Communication Samsung Italia - abbiamo pensato ad un servizio editoriale esclusivo facilmente fruibile da smartphone, in grado di dare una fotografia chiara delle principali informazioni del giorno».
Secondo l’ultimo rapporto di Edison Research sui media digitali, l’uso di podcast è in costante e progressivo aumento nel mercato americano, dove il numero di ascoltatori ha raggiunto 124 milioni nel 2018, il 4% in più rispetto all’anno precedente. Come sottolinea l’European Journalism Observatory, “In Europa i podcast sono ancora un fenomeno relativamente nuovo a causa delle differenze nell’uso della tecnologia e nella cultura mediatica, ma un crescente numero di giornalisti europei ha iniziato a usarli”. Anche l’Italia promette di essere un mercato interessante; mettetevi in ascolto, l’avventura è appena iniziata.

Il Sole 12.5.18
Trump: «Marchionne il mio preferito»
di Marco Valsania


New York Donald Trump ha un prediletto tra i dirigenti delle case automobilistiche mondiali. Ed è un’eccezione alla sua regola di America First: l’amministratore delegato di Fiat Chrysler Automobiles, Sergio Marchionne. «È lui oggi il mio preferito in questa sala», ha detto il Presidente incontrando i vertici delle aziende nella Roosevelt Room della Casa Bianca.
La scelta di Trump è caduta su Marchionne, piuttosto che sugli altri nove top executive presenti tra i quami spiccavano Mary Barra di GM e Jim Hackett di Ford, per squisite ragioni domestiche. «Voglio più vetture prodotte negli Stati Uniti, milioni di vetture», ha detto vantando «progressi» ma lamentando «troppe importazioni». E qui ha citato i piani di Fca per spostare operazioni dal Messico al Michigan, storica patria statunitense delle quattro ruote. Più veicoli Trump li vuole anche sfornati in Ohio e Pennsylvania, Nord e Sud Carolina.
Tra Trump e le case auto sono emersi interessi comuni se non identici - l’ammorbidimento degli obiettivi di consumi e emissioni, al centro del mini-summit: la Casa Bianca si batte, attraverso riforme dell’Agenzia per la protezione ambientale Epa, contro regolamentazioni giudicate troppo stringenti. Le aziende, da parte loro, invocano flessibilità per rispettare nuovi target, pur confermando l’intento di migliorarli e evitare polemiche e passi indietro.
«Ho apprezzato l’opportunità avuta oggi di discutere con il Presidente del nostro comune impegno nei confronti dell’industria dell’auto - ha detto Marchionne - Nel nostro settore, le preferenze dei consumatori e gli sviluppi tecnologici sono in continua evoluzione e, pertanto, rivisitare e valutare gli standard dell’Epa, come originariamente previsto, è la cosa giusta da fare». Ancora: «Sono ottimista che il Presidente riuscirà a trovare il modo di preservare un programma nazionale che stimoli miglioramenti continui nell’efficienza dei veicoli e al contempo ci permetta di realizzare veicoli che i nostri clienti vogliano acquistare, a prezzi a loro accessibili. Raggiungere questo risultato richiede la volontà di tutte le parti di arrivare a compromessi attraverso un dialogo ponderato e basato su dati». Marchionne ha aggiunto che revisioni del Nafta potrebbero spingere Fca a «reindirizzare la produzione messicana verso un mercato globale».
Negli Stati Uniti è tuttavia il nodo ambientale a dover essere sciolto rapidamente. Un’aggressiva deregulation federale minaccia incognite: l’amministrazione sta considerando revisioni degli standard nei consumi per i modelli 2022-2026 stabiliti sotto la precedente amministrazione di Barack Obama. La proposta li congelerebbe ai livelli del 2020 per cinque anni, ad una media di 30 miglia al gallone su strada contro il target di 36 miglia nel 2025. Ma questo può dar fiato a offensive legali di una dozzina di stati che rappresentano il 40% delle vendite di auto, guidati dalla California, per preservare norme più dure sollevando lo spettro di un mercato diviso e di aumenti dei costi.

Il Sole 12.5.18
Cassazione. La delibazione della decisione ecclesiastica travolge le decisioni prese in sede di separazione
La Sacra Rota annulla il mantenimento
Obbligo cancellato anche se la sentenza civile è passata in giudicato
di Patrizia Maciocchi


Roma Il riconoscimento della nullità del matrimonio affermata dalla Sacra Rota cancella l’obbligo dell’assegno stabilito nella sentenza di separazione, anche se divenuta cosa giudicata. La dichiarazione di invalidità del vincolo originario fa, infatti, venire meno il presupposto sul quale poggiano l’assegno e le decisioni accessorie collegate ad esso. È una presa d’atto che prescinde da qualunque considerazione sul rapporto tra le due giurisdizioni: civile ed ecclesiastica. Con la sentenza 11553 depositata ieri, la Suprema corte dà un altro scossone in tema di diritto al mantenimento.
I giudici della Prima sezione civile, accolgono il ricorso di un ex marito che chiedeva la revoca dell’obbligo di versare alla ex moglie 250 euro, stabiliti in sede di separazione. Una richiesta scattata appena ottenuta la delibazione della decisione rotale sulla nullità delle nozze concordatarie, che era arrivata dopo il passaggio in giudicato della sentenza di separazione.
Il Tribunale aveva accolto la domanda, ma la Corte d’appello aveva ribaltato il verdetto. I giudici di seconda istanza si erano basati su due precedenti con i quali la Cassazione aveva affermato che il sopravvenire della dichiarazione di nullità del matrimonio non può mettere in discussione il diritto all’assegno, una volta che si sia formato il giudicato sulla sentenza che attribuisce l’assegno di divorzio.
La Corte d’appello aveva fatto dunque riferimento a un precedente non adatto al caso esaminato, perché relativo ad un assegno di divorzio e non al mantenimento durante una fase transitoria come quella della separazione.
Per la prima volta, la Cassazione affronta il tema dell’“effetto” Sacra Rota su una sentenza di separazione passata in giudicato e lo fa rimarcando le differenze tra assegno di divorzio e di mantenimento, fondati su presupposti del tutto diversi. Il primo, di carattere “assistenziale”, deve scattare tra due persone “singole”, mentre il secondo trova il suo fondamento proprio sulla permanenza del vicolo matrimoniale.
Con il divorzio cessano gli effetti civili del matrimonio concordatario e resta in piedi solo un vincolo di solidarietà economica post coniugale, in virtù della quale l’assegno va riconosciuto al coniuge debole, se il giudice accerta che non ha mezzi adeguati per vivere, nè è in grado di procurarseli. Da qui l’intangibilità dell’assegno di divorzio, salvo mutamenti della condizioni previsti dalla legge 898/1970.
Diverso il caso della separazione che sospende solo i doveri di natura personale, fedeltà, convivenza, e collaborazione, mentre lascia inalterati quelli patrimoniali ma «è innegabile - si legge nella sentenza - che il vincolo matrimoniale venga meno allorquando sia resa efficace nello Stato italiano, attraverso il procedimento di delibazione, la sentenza ecclesiastica di nullità del matrimonio concordatario». Viene dunque a cadere il pilastro sul quale poggia il diritto al mantenimento.