venerdì 11 maggio 2018

Corriere 11.5.18
Cinema e fede
Wenders e altri, la religione conquista il Marché


Cannes ha scoperto Dio. Dopo anni in cui il tema del cristianesimo era stato pressoché ignorato, il mercato del Festival di quest’anno sta dimostrando una ritrovata fede in tutti i temi cristiani.
Non sono mai stati così tanti i titoli che hanno attirato l’attenzione di acquirenti internazionali al Marché du Film, trovando distribuzioni anche lì dove fino a qualche anno fa era impensabile accadesse, ad esempio in Cina. In un’edizione del Festival in cui il documentario di Wim Wenders sul Papa, Le Pape François - Un homme de parole, passerà (domenica) nella sezione Séance Spéciale, dedicata agli eventi speciali.
Ma ad appassionare i distributori di tutto il mondo sono anche film come l’americano I can only imagine, che, con un budget di circa 80 milioni di dollari ha subito trovato distribuzione in Cina, Corea e Medio Oriente.
Oltre al film che spiega come sia nato il più popolare inno cristiano contemporaneo, sono altri i titoli spirituali che stanno avendo successo in Francia. Ad esempio, An interview with God, con David Strathairn e Brenton Thwaites, sul credo degli evangelici e Sansone, che ricalca le grandi tradizioni bibliche del grande schermo, assenti da tempo. Una tendenza in cui l’Italia è arrivata prima, grazie a Sorrentino e al suo pontefice tabagista di The Young Pope. E proprio in questi gironi, su Sky Atlantic, ha debuttato Il miracolo, serie di Niccolò Ammaniti in cui una statuetta della Madonna inizia a piangere sangue. (c. maf.)

il manifesto 11.5.18
De Masi: «È il giorno più nero per la sinistra. Dal ’46 Italia mai così a destra»
Intervista. L’altolà del sociologo: «La Lega si mangerà i 5 stelle. Serve un’opposizione militante, Pd ed ex la smettano di litigare. I soldi per le promesse non ci sono. Faranno scelte simboliche a costo zero: liberalizzazione delle armi, stretta su immigrati e richiedenti asilo. Cambieranno la nostra antropologia»
di Daniela Preziosi


«È il giorno più nero per la sinistra italiana. In Italia inizia il governo di destra più a destra dal ’46. E io ho ottant’anni: sono nato sotto il fascismo nel ’38 e morirò in un’Italia di destra, ma “destra destra”». Domenico De Masi sorride, ma è serio. Sociologo del lavoro, è stato uno degli studiosi più ’aperturisti’ verso i 5 stelle, per i quali ha condotto anche una ricerca. Oggi però la musica cambia, spiega. Virano a destra. «Marx distingueva la classe in sé e la classe per sé. I 5 stelle hanno una doppia composizione, sociologicamente omogenea ma ideologicamente molto divisa. La loro base sociale è stata analizzata dall’Istituto Cattaneo: il 45 per cento è di di sinistra, il 25 di destra, il 30 fluttuante. Ha votato per loro il 37 per cento degli insegnanti, il 37 degli operai, il 38 dei disoccupati e il 41 dei dipendenti della pubblica amministrazione. Li ha votati un iscritto della Cgil su tre e 2milioni di ex elettori del Pd».
Insomma una base sociale di sinistra.
Attenzione a quello che dice Marx. Era la base della sinistra a cui però i partiti pedagogicamente insegnavano ad avere una coscienza di sinistra, un’anima e una coscienza di sinistra. Ma ora i partiti la pedagogia non la fanno più. I 5 stelle hanno la base più vicina a quella che aveva il Pci di Berlinguer. Ma manca Berlinguer. E Gramsci.
C’è Renzi.
Se il Pd avesse accettato il governo con loro gli sarebbe stato facile riconquistare la propria base. Oggi Salvini può fare l’opposto: attrarre gli elettori di destra dei 5 stelle. Nel 2013 la base sociale del Pd era ancora simile. L’operazione di Renzi è stata quella di cambiare la base sociale del suo partito. Un’operazione riuscita, ma suicida.
Ma se ci sono tutti questi elettori di sinistra nei 5 stelle, perché si sono rivoltati all’idea di accordo con il Pd?
Non si sono rivoltati loro, si sono rivoltati quegli altri.
Adesso questi elettori come reagiranno all’accordo con la Lega?
Ora questo gruppo è sconcertato, sperava in una democratizzazione dei 5 stelle, non in una destrizzazione. Non credo che M5S abbia la forza di traghettarli a destra. Questi due milioni di voti sono usciti dal Pd da sinistra del Pd. Ora sono in libera uscita. Ma non c’è una sinistra in cui rientrare.
Può succedere invece che il governo giallo-verde faccia dei provvedimenti popolari, come investire soldi sulle pensioni. La sinistra sarebbe costretta ad apprezzare.
Il problema sono i soldi.Le priorità di Salvini e quelle di Di Maio sono diverse. A Di Maio al sud serve un generoso reddito di cittadinanza. Salvini sarà disposto a una via di mezzo. Ma di una cosa sono certo: prima faranno provvedimenti a costo zero ma altamente simbolici. Liberalizzeranno il porto d’armi per la legittima difesa, un provvedimento che violenta la cultura italiana. Aumenteranno i controlli sugli immigrati, ridurranno gli aiuti ai richiedenti asilo, che già oggi stanno in campi di concentramento orribili. Insomma con cose così rischiano di modificare la nostra struttura antropologica.
Crede che non troveranno le risorse per cambiare la legge Fornero?
Potrebbe essere che fanno un ritocco alla legge ma nel frattempo cambiano tutti i quadri Rai, e questo piccolo ritocco diventa una grande conquista.
C’è stata una luna di miele fra 5Stelle e sinistra radicale. Anche lei ha dato loro molto credito. Sebbene non poche cose, per esempio l’uso della piattaforma Rousseau consigliavano prudenza. Ora lei ha cambiato idea?
Faccio una premessa. Sono stato a Ivrea, invitato da loro (alla kermesse in ricordo di Gianroberto Casaleggio, ndr). In quell’occasione ho potuto capire bene questa piattaforma, che mi hanno fatto studiare per due giorni. La piattaforma ha otto filoni e uno di questo, per esempio, serve ai consiglieri comunali come formazione e-learning per sapere, di un dato argomento, quali leggi esistono a che punto sono gli altri comuni eccetera. Una cosa da pionieri che tutti gli copieranno presto. Comunque il grande elettore dei 5 stelle è stato Renzi, e lo dico io che avevo nel Pd il mio partito di riferimento. Liberisti non siamo, e invece ci siamo ritrovati un Pd neoliberista. Un Pd che ha maltrattato per esempio gran parte del costituzionalismo italiano. Il mio contatto con i 5 stelle è stato di natura professionale, ma comunque mi consentiva di intrufolarmi in questo movimento: un sociologo non può non essere intrigato da un fenomeno così. Ho visto che nel M5S c’è un’anima di sinistra e una di destra. Di qui il tentativo di aiutare, nel mio piccolo, quest’incontro fra 5 stelle e Pd. Poteva nascere la più bella socialdemocrazia del Mediterraneo, una colonizzazione intellettuale dei 5 stelle. Oppure si può creare il governo più di destra della storia dell’Italia repubblicana e quello più a destra della Ue. In due anni Salvini si mangerà i 5 stelle.
Lei crede che si apra un ciclo lungo della destra?
Ma certo. Intanto è un governo che avrà un sacco di aiuti. Parliamoci chiaro: a tifare Lega-5 stelle sono stati quasi tutti, il Corriere, Repubblica, la Confindustria diceva «fate presto», le centrali mediatiche hanno dato ordine alle tv di dire che comunque ci voleva subito un governo, e cioè quel governo, visto che il Pd era indisponibile.
Qual è il destino dei 5 stelle dopo questa svolta?
La Lega se li mangerà. Gli elettori più a destra passeranno con Salvini. Quelli di sinistra tenderanno alla fuga. Da oggi serve un’opposizione militante. Lo dico chiaro, nessuno pensi neanche lontanamente che voglio una delle duecento cariche che ora verranno distribuite da loro. No, serve un’opposizione vera. Ma senza riferimenti è impossibile. Poco fa ero in una trasmissione. In una giornata come questa, il giorno più nero della sinistra, mentre nasce il governo più a destra d’Europa, l’esponente del Pd e quello di Mdp che facevano? Litigavano fra loro.

Repubblica 11.5.18
Lo sconcerto degli elettori
L’ira dei fan di sinistra De Masi: il governo più a destra di tutti
De Monticelli: spero che perdano voti L’attore Marescotti: non mi avranno più
di Concetto Vecchio


ROMA Questo rischia di essere il governo più a destra di sempre. Peggio di quello di Tambroni, che almeno aveva alle spalle la Dc». Il sociologo Domenico De Masi evoca l’esecutivo che nel 1960 ebbe l’appoggio del Movimento sociale italiano. De Masi ha votato M5S, «da uomo di sinistra» precisa, «perché speravo che poi facessero un governo col Pd». Invece sta per nascere la compagine «più anti europea, più anti immigrati, più filo piccole imprese della Repubblica. Un giorno funebre». Di Maio e Salvini che si prendono palazzo Chigi inquieta quel pezzo di società progressista che, per delusione verso il Pd, ha guardato con simpatia al Movimento, pensando che fosse «una costola della sinistra», per citare un’espressione che D’Alema nel ‘95 usò nei confronti Lega. Stufa di Renzi ha votato per Di Maio: ora si ritrova un governo alla Orbàn.
Lo storico dell’arte Tomaso Montanari ha espresso questo timore in un tweet: «Terribile errore». Perché «in politica il giallo e il verde possono produrre il nero». La filosofa Roberta De Monticelli nottetempo ha pubblicato un post indignato su Facebook, sfogando la sua delusione per chi va a governare «con un demagogo dagli istinti tribali e la benevola simpatia» di Berlusconi. «La responsabilità di questa situazione», ragiona al telefono, è del Pd che li ha sospinti nelle braccia di Salvini.
E qui c’è stato un doppio errore: uno ideale, perché i democratici hanno anteposto l’interesse del partito a quello pubblico pur di non fare l’alleanza, e uno politico, perché dicendo “hanno vinto loro, ora governino”, hanno finito per ragionare come se fossimo ancora in un sistema maggioritario». De Monticelli li guardava «con speranzosa attenzione», anche se poi ha votato per +Europa. E adesso?
«Mi sa che hanno già abbassato la guardia su temi che li avevano contraddistinti, come anticorruzione, conflitto d’interessi, evasione fiscale.
Spero che perdano voti!» L’ombra del Cavaliere che si allunga è quindi l’altro rospo da mangiar giù per un mondo filo M5s che si scopre deluso.
«Perché B. autorizza Salvini a fare ciò che per oltre due mesi gli ha furiosamente proibito?», si domandava ieri sul Fatto quotidiano Marco Travaglio. «O ha paura del voto o anche perché ha ottenuto quelle garanzie che ha sempre preteso dai governi non suoi per non scatenare la guerra termonucleare: favori a Mediaset e nessuna norma contro le quattro ragioni sociali della sua banda (corruzione, evasione fiscale, mafia e conflitto d’interessi)». «Se questa operazione sarà controllata da Berlusconi non mi avranno più.
Perderanno almeno due milioni di voti», dice infatti l’attore Ivano Marescotti, che ha scelto l’M5s «per rovesciare il tavolo». Ora è profondamente inquieto.
«Salvini è un fascistello del ventunesimo secolo. Io ero per andare a nuove elezioni. Non è vero che l’esito sarebbe stato lo stesso».
Antonio Catania, il protagonista di Mediterraneo, dopo una vita a sinistra, il 4 marzo ha dato la sua preferenza al M5S. Avrebbe voluto anche lui un governo col Pd, «ma Renzi è stato di un infantilismo inspiegabile. La presenza di Salvini non mi entusiasma, temo la sua posizione sull’immigrazione, e ancora di più il rapporto non chiaro che lo lega a Silvio Berlusconi. Ma per il resto dico: aspettiamo i fatti. Certe categorie, destra e sinistra, non valgono più. Il capo della Lega rappresenta le paure dell’italiano medio verso l’ignoto, una paura comune. Non lo capiscono i miei amici del centro storico che votano ancora per il Partito democratico».

il manifesto 11.5.18
L’ira antisistema ostile alla libertà
Salone internazionale del Libro di Torino. Intervista con Yascha Mounk autore del volume «Popolo vs Democrazia». Una radiografia della crisi dei sistemi politici liberali e della crescente disaffezione alla politica. Lo studioso di origine tedesca presenterà oggi il suo saggio alla kermesse editoriale di Torino
di Benedetto Vecchi


Tagliente nei giudizi, chiaro nell’esporre il suo punto di vista e capace di offrire una visione semplice di un mondo tuttavia complesso. Yascha Mounk ha dalla sua anche la giovine età che lo porta a disattendere convenzioni e modi d’essere dell’Accademia universitaria. Nel suo primo libro (Stranger in My Own Country. A Jewish Family in Modern Germany, Farrar Straus and Giroux) rende, ad esempio, pubblico il malessere di un giovane di origine ebraica che si sente straniero nel paese, la Germania, dove è nato. Un memoir dove il tema dell’identità è affrontato con disincanto, rifiutando tuttavia la facile strada della rivendicazione di una appartenenza senza tempo consapevole del fatto che nel paese di nascita non c’è stata mai una rielaborazione sul nazismo, ma solo una consolatoria e autoassolutoria condanna del Terzo Reich. Oppure hanno destato sospetto e discussione le tesi contenute nel suo libro The Age of Responsibility. Luck, Choice and the Welfare State (Harvard University Press) dove sostiene che la responsabilità, termine frequentemente usato da esponenti politici conservatori, deve diventare un concetto chiave nel lessico politico della sinistra dato che la responsabilità verso gli altri è stata la leva fondamentale nella costruzione del welfare state.
Mounk, che insegna negli Stati Uniti, si è schierato contro la candidatura di Donald Trump, sottolineando però che il suo populismo è tutto meno che un fenomeno politico e sociale folkloristico. Il populismo, per Mounk, va preso sul serio perché costituisce il pericolo maggiore per la democrazia. È questo il tema del suo libro Popolo vs Democrazia (Feltrinelli, pp. 333, euro 18), che sarà presentato oggi al Salone internazionale del libro di Torino (ore 15.30, sala Blu). E questo il tema dal quale ha preso avvio l’intervista avvenuta tra uno un appuntamento di lavoro tra Milano e la città piemontese.
Nel suo libro scrive della fine della grande illusione che ha tenuto banco dopo il crollo del Muro di Berlino. Il mondo, questa la retorica dominante, stava entrando in un periodo di benessere, mentre la democrazia sarebbe stato il destino politico per tutti i paesi. Lei sostiene che a quella illusione è subentrata un’era di tensioni, conflitti e dove la democrazia non è il destino manifesto dei sistemi politici….
Allora veniva affermato che la globalizzazione economica avrebbe consentito la crescita del benessere su tutto il pianeta. Superata una soglia di benessere, la democrazia sarebbe stata alla portata di tutti i paesi. La situazione è cambiata con la crisi economica e quando in paesi di recente democratizzazione ci sono state elezioni all’interno di un quadro di forte limitazione di libertà di stampa, di associazione. Mi riferisco a paesi come l’Ungheria, la Polonia. Ci troviamo di fronte a situazioni che potremmo definire di democrazia senza diritti. Qui la parola chiave è il popolo, che deve essere rappresentato nella sua organicità. Il populismo tuttavia non riguarda solo l’Europa. È infatti un fenomeno politico globale.
Molti commentatori dipingono il populismo come una cultura politica antisistema. Potrebbe, all’opposto, essere visto come una ciambella di salvataggio per sistemi politici in deficit di legittimazione e in crisi di rappresentanza….
Il populismo non è certo un fenomeno unitario, eguale sempre a se stesso. Podemos è cosa diversa dalle formazioni populiste dell’Europa del Nord. Ma tutti i populisti sono antiestablishment. O come dice lei antisistema. Non penso vada cercata una coerenza da parte dei partiti populisti. Spesso esponenti politici populisti esprimono posizioni antitetiche l’una con l’altro nell’arco della stessa giornata. Quel che rimane costante è la critica all’operato del governo perché corrotto; perché trama contro gli interessi del popolo. La critica riguarda anche i media, colpevoli di falsificare la rappresentazione della realtà. Il governo, i media e gli altri partiti politici sono cioè responsabili di soprusi, ingiustizie sistematiche. Non penso dunque che il populismo funzioni come ciambella di salvataggio.
Ho seguito con attenzione la diffusione di parole d’ordine populiste in Germania: la dominante era il terrore che il primato economico tedesco potesse essere messo in discussione. Il populismo era cioè declinato dentro una cornice nazionalista. In Italia, invece il declassamento del ceto medio, la crisi economica, l’impoverimento della popolazione è stato l’ordine del discorso che ha trovato un forte collante nella denuncia della corruzione, dei privilegi della casta. Qui i sentimenti dominanti sono stati l’ira cieca contro le ingiustizie, il risentimento.
Inizialmente, Beppe Grillo proponeva una idea di comunità tollerante, aperta, giovane: cosa diversa dall’establishment vecchio, egoista, corrotto e avido rappresentato dai vecchi partiti. Ma il movimento dei 5 Stelle ha poi veicolato una visione chiusa della comunità, alimentando una logica complottista in base alla quale tutti gli altri politici erano in combutta per annientare la voglia di libertà, di pulizia, di tutela dei beni comuni espressi dal popolo.
Nel suo libro, lei si sofferma sul fatto che la democrazia corre il rischio di rimanere ostaggio delle élite. Cita il caso del denaro necessario per essere eletti al Congresso e al Senato degli Usa….
Per essere eletti al Congresso o al Senato statunitense servono milioni di dollari. Per questo le èlite sono avvantaggiate. Spesso i candidati fanno già parte di circoli economici e finanziari che possono favorire il finanziamento della campagna elettorale . Fanno parte dell’élite anche i lobbisti È costume negli Usa che grandi imprese o grandi azionisti finanziano candidati in maniera tale da condizionare il loro operato una volta eletti. Anche qui i rischi della democrazia sono alti. Se invece guardiamo a paesi non democratici, scopriamo che le leadership funzionano come caste separata dal resto della società e che riproducono se stessi secondo logiche familiste.
La depoliticizzazione è un altro dei temi che lei affronta. La democrazia più che far crescere l’attenzione verso la gestione della cosa pubblica sembra favorire la depoliticizzazione. È così?
In tutto i paesi democratici c’è una caduta nella partecipazione alle elezioni. Spesso il numero dei votanti costituisce una minoranza della popolazione. I partiti perdono iscritti. Tutti i tentativi di rivitalizzare i partiti non funzionano come dovrebbero. La cosiddetta società civile privilegia gli affari privati, la logica amicale del piccolo gruppo che si incontra per condividere ansie e speranze che rimangono private. Il populismo non ferma la depoliticizzazione. Semmai l’accelera quando sostiene che i politici fanno parte di una casta che tutela solo i loro interessi.
Lei sostiene che i social media sono il vettore di propagazione del populismo che proponeva un futuro roseo. Eppure i social media prospettano più che un futuro un eterno presente….
I social media sono stati presentati dai tecno-ottimisti come il mezzo, lo strumento per una democratizzazione radicale dei media. Questo fino al 2010, 2011. Ci sono state anche dei tumulti, rivolte qualificate come twitter revolution. Poi è subentrato un pessimismo radicale sulle capacità liberatoria dei social media. Sono stati considerati una sorta di potente strumento di manipolazione dell’opinione pubblica che per di più istupidiva le persone. Certo i social media mettono in discussione il potere dei media tradizionali, ma rispondono comunque alla stesso logica economica. Per quanto riguarda il populismo, i social media sono stati un vettore per la sua diffusione. Da questo punto di vista il Movimento 5 stelle è stato un case study interessante per comprendere il potere di un nuovo media che fa della critica ai vecchi media il proprio marchio di origine.

Repubblica 11.5.18
Intervista a Piercamillo Davigo
“Lotta ai corrotti Dieci tipi di reato frenano i processi ne basta uno solo”
di Liana Milella


ROMA Se gli si chiede se è un magistrato “grillino” sbuffa e risponde: «Mi pare di aver dato sufficienti prove di indipendenza da chiunque durante la mia vita professionale». Rifiuta commenti sui colleghi, qualsiasi accusa gli facciano. Alla domanda su cosa sarebbe il “populismo giudiziario” risponde: «Io non lo so... provi a chiederlo a chi ne parla ....».
Piercamillo Davigo, ex pm di Mani pulite, ex presidente dell’Associazione nazionale magistrati, nel 2015 fondatore della corrente della magistratura Autonomia e indipendenza, candidato alle elezioni per i togati del Csm dell’8 e 9 luglio, ha un’ossessione, suggerire riforme sulla giustizia per farla funzionare. Come quella di ridurre «a uno solo i reati di corruzione invece della decina oggi esistente». Ma se gli chiedessero di fare il Guardasigilli, a chiunque direbbe «no».
Citando “Prendi i soldi e scappa” di Woody Allen, lei sostiene che «alla lunga il delitto rende bene... è un buon lavoro». Davvero gli italiani sono così? Non è una generalizzazione?
«Non penso affatto che tutti gli italiani vivano così. C’è un dato inoppugnabile, il nostro sistema penale è inefficace. Da lontano fa paura, ma svolge solo la funzione dello spaventapasseri, in realtà è innocuo. Con una pena fino a 4 anni non si va in galera. E per essere puniti fino a 4 anni già si deve commettere un reato di una certa gravità. Allora tanto vale dire che la repressione penale non serve. Chiudiamo i tribunali. Ma dobbiamo chiederci perché negli altri Paesi le stesse regole funzionano. Non mi pare di esporre tesi forcaiole, ma solo di fare affermazioni di buon senso».
Nel suo ultimo libro - “In Italia violare la legge conviene.
VERO!”, Laterza - c’è un’altra affermazione forte, «in Italia a rispettare le leggi sono i fessi, a violarla i furbi». Non teme l’accusa di qualunquismo?
«Ho scritto che in Italia esiste una subcultura diffusa secondo cui a violare le leggi sono i furbi e a rispettarle i fessi. Ma stiamo ai fatti. Il condono del 2009 grida vendetta, la dichiarazione integrativa si fa sulla base di ciò che hai dichiarato, più hai evaso meno paghi, un’assurdità. Per chi vuole violare la legge ci sono mille occasioni per farla franca, per chi la rispetta un sacco di guai. Esempi? Guardi il codice degli appalti, non fa né caldo né freddo a chi fa le turbative d’asta, ma crea un sacco di problemi alle persone oneste».
Il presidente dell’Anac Cantone non la pesa così.
«E allora perché lo hanno
rivisto?».
Lei scrive che gli italiani non pagano né tasse, né debiti, lo fanno solo dipendenti e pensionati. Quindi, pagando anche per quelli che evadono, pagano tantissimo. Carcere contro gli evasori come in Usa?
«Il carcere funziona solo se gli evasori sono pochi, ma se sono 12 milioni come da noi è impossibile. Servono altri sistemi meno penetranti sulla libertà personale. Come investigare il rapporto tra i beni disponibili e il reddito dichiarato. Anziché perdere tempo a controllare gli scontrini. Hai una villa al mare e una montagna e un reddito da pezzente? Com’è possibile?
Allora ti controllo».
Corruzione. Da anni è un leit motiv legislativo. Vedi leggi Severino e Orlando. La destra è contro gli aumenti di pena.
M5S li chiede. Ma in carcere per corruzione ci stanno quattro gatti. E quindi?
«Aumentare le pene massime è fumo negli occhi perché i giudici si attengono ai minimi. Se vuoi fare davvero paura devi aumentare i minimi. Io cambierei tutte le fattispecie dei reati di corruzione riconducendola a unità. Ormai i processi si fanno per capire in quale casella inserire il comportamento tra i dieci reati possibili. E si perde un sacco di tempo. Invece esiste un reato militare, solo per la Gdf, che punisce il finanziere che collude con i privati in danno della finanza. Funzionerebbe benissimo per la pubblica amministrazione: se colludi con un privato sei punito. La Consulta ha già detto che questo reato è legittimo. E poi dicono che non sono garantista».
Beh, da sinistra i suoi colleghi la accusano di volere tutti i galera.
«So che lo dicono, però vedo che sono applauditi dal Foglio. Come mai? Si facciano delle domande.
Non voglio tutti in galera, ma un sistema serio, mentre oggi non lo è. Facciamo l’esempio della truffa? Negli Usa Madoff fa una catena di Sant’Antonio e viene condannato a 155 anni che sta scontando. In Italia sarebbe finito in prescrizione. Se la differenza è niente e 155 anni, i truffatori dove devono andare a fare le truffe?».
I suoi detrattori dicono che l’idea degli agenti provocatori non è garantista.
«Sono stufo. Lo ripeto una volta per tutte. La Convenzione di Merida impone le operazioni sotto copertura, l’Italia l’ha firmata ma è inadempiente. Chi mi accusa non sa di che parla.
Dovrebbero chiedersi perché la firma manca. Parlano di agenti provocatori anziché di operazioni sotto copertura.
Nelle turbative d’asta perché non si può mandare in sede di gara un poliziotto che si finge imprenditore e di fronte al reato arresta il colpevole?».
Le accuse al Csm, mafioso addirittura, non sono qualunquiste?
«Alt... io non ho mai usato quest’espressione, lo hanno fatto altri. Ho solo detto che i criteri seguiti nelle nomine non sono più comprensibili. Voglio solo regole più chiare, fatte rispettare e soprattutto trasparenti».
Tipo i curricula pubblici? Il 50% dei suoi colleghi chiede la privacy.
«I cittadini hanno diritto di conoscere la carriera di chi vuole andare a dirigere un ufficio.
Almeno nella rete Intranet, consultabile solo dai magistrati, le schede di autorelazione ci devono stare».
Sparare così sul Csm non rischia di far saltare tutto?
«Pretendere il rispetto delle regole è forse un’aggressione?
Ma stiamo giocando? Io chiedo solo che il Csm rispetti le regole che esso stesso si è dato».

La Stampa 11.5.18
“Abominevole l’intesa con il Carroccio
Il M5S ne uscirà con le ossa rotte”
Flores d’Arcais: Renzi non recupererà voti, gli manca credibilità
di Andrea Carugati


Paolo Flores d’Arcais, direttore di MicroMega. Come giudica il nascente governo M5S-Lega?
«Per quello che se ne può giudicare allo stato attuale è abbastanza abominevole».
Sarà il governo più a destra dell’Italia repubblicana?
«Salvini rappresenta in Italia il lepenismo, cioè il fascismo postmoderno. Questo basterebbe. Ma in più c’è il fatto che tratta con Di Maio anche a nome di Berlusconi, mentre milioni di elettori hanno votato M5S per chiudere un quarto di secolo di egemonia di Berlusconi sulla vita pubblica, esercitata dal governo e dall’opposizione attraverso la legittimazione del conflitto di interessi e leggi che hanno reso più difficile la lotta alla mafia e alla corruzione. Come può dunque un governo siffatto rispondere alle motivazioni che hanno spinto gli elettori a votare M5S?».
Il Movimento sostiene che nel contratto di governo ci sarà anche la voce conflitto d’interessi. Si fida?
(ride con difficoltà a frenarsi)
Pensa che questo esecutivo aiuterà le fasce più deboli?
«Salvini vuole la flat tax, che è incostituzionale e regalerà altri soldi ai ricchi. Che altro c’è da aggiungere? In più ci sarà l’opposizione benevola di Berlusconi!».
Crede che i 5 Stelle usciranno con le ossa rotte da questa avventura?
«Penso proprio di sì».
Questo esito è responsabilità del Pd renziano?
«Hanno fatto di tutto per arrivarci e l’hanno pure dichiarato. Si illudono che l’inevitabile malgoverno che tradirà le aspettative degli elettori del Movimento offrirà una rivincita a Renzi. Si può solo dire “Quos vult Iupiter perdere dementat prius”(A quelli che vuole rovinare, Giove toglie prima la ragione, ndr)».
Un’esperienza di governo negativa Di Maio-Salvini non potrebbe riportare voti al Pd?
«Gli umori degli elettori oggi sono molto volatili e imprevedibili. Ma la credibilità dell’entourage di Renzi e dei suoi finti oppositori dentro il Pd è al livello delle suole delle scarpe».
Prevede una reazione della base grillina contro Salvini?
«Non mi aspetto nulla. Spero che prima o poi ci sia un risveglio della società civile, a partire dalla generazione dei ventenni e dei trentenni. Per quanto possiamo contare, con MicroMega continueremo a fare il possibile perché questo accada...».

Corriere 11.5.18
Pop-corn e altro
L’euforia (strana) del Pd
di Pierluigi Battista


Mai la prospettiva dell’opposizio-ne ha fatto tirare un simile sospiro di sollievo. È come se nel Pd, soprattutto in chi lo ha guidato fino alla disfatta del 4 marzo, si fosse diffusa un’euforia da pericolo scampato. Finalmente lo spettacolo dei «populisti» che governano, sgranocchiando pop-corn, come ha detto Renzi. Come se l’opposizione fosse una vacanza e non una traversata nel deserto per guadagnarsi nuovamente i consensi che sono scappati.
Ma poi non avevano detto che la tenaglia Lega e 5 Stelle era un pericolo per le istituzioni? Allarme rientrato? È il tempo delle noccioline da addentare?
Nel Pd, tra un sacchetto e un altro di pop-corn, qualcuno pensa che l’opposizione sia mettersi al bordo del fiume e aspettare che l’avversario annaspi. La speranza del passo falso, della gaffe, dell’incidente per poi magari generare un sentimento di nostalgia e magari un ritorno di fiamma nell’elettorato disilluso e tormentato dal fallimento di chi si è dimostrato incapace. Un po’ come succede a Roma, quando l’evidente incapacità della giunta Raggi di risolvere problemi essenziali della città a cominciare dallo smaltimento dei rifiuti genera nell’attuale opposizione sarcasmo e battute, peraltro giustificate, e non la ricerca di soluzioni che possano trasmettere all’elettorato deluso il senso di un’alternativa che dica: ecco concretamente come noi saremmo in grado di risolvere il problema dell’immondizia. Questo è il compito democraticamente fondamentale di un’opposizione, non l’attesa per i numeri da circo di chi va a governare. Invece prevale il sollievo, l’euforia, l’attesa puerile dell’avversario che inciampa e fa il capitombolo che, come ha sostenuto un secolo fa Henri Bergson, rappresenta la scena primaria di ogni effetto comico che muove al riso. Ma qui c’è poco da ridere. E non c’era niente da ridere anche quando, appena pochi giorni fa, Luigi Di Maio ha adoperato la stessa metafora per affrontare l’eventualità di un governo «neutrale» proposto dal presidente della Repubblica nel caso in cui le forze politiche non fossero riuscite a giungere a una conclusione praticabile. Anche qui pop-corn, divertimento, attesa, deresponsabilizzazione. Ma in una democrazia matura le cose non funzionano così. E segnala un deficit di responsabilità democratica l’indicare, in ambedue i casi citati, il miraggio dell’opposizione come dimensione della spensieratezza, della tranquillità in platea, della convivialità con gli amici come se si guardasse insieme una serata del Festival di Sanremo.
Inoltre appare una contraddizione evidente, nel Partito democratico, quella che separa il sollievo per il pericolo scampato e i toni severi e preoccupati con cui invece veniva vista l’ipotesi di un’alleanza tra il Movimento 5 Stelle e la Lega di Matteo Salvini. Si parlava, prima delle elezioni soprattutto, di una minaccia per la democrazia, per l’Europa, per l’economia, di una tenaglia destinata a stritolare con parole d’ordine avventurose lo stesso profilo civile dell’Italia, e addirittura il fondamento delle relazioni internazionali del nostro Paese. Non un governo qualsiasi, ma un governo che avrebbe nascosto in sé qualcosa di estremamente pericoloso. Ora però, il sollievo di una parte del Pd (ma non per esempio del segretario reggente Martina) per aver evitato di andare al governo e per potersi rifugiare nella nicchia tranquilla dell’opposizione rischia di svelare un fondo di insincerità nella declamazione di quell’allarme. Se un’alleanza di governo viene vista come un pericolo, allora non è il tempo delle noccioline. Se invece non è un pericolo, un male è stato diffondere timori infondati. Se un governo è una minaccia, un partito che abbia a cuore gli interessi generali e non solo i propri, dovrebbe far di tutto, con gli strumenti della democrazia, per allontanare gli spettri che minacciano l’Italia. Invece prevale un atteggiamento di gioco, in cui la pratica dello sgambetto prende il posto della lotta politica. Un atteggiamento che esclude, come sinora è accaduto, la riflessione sulle dimensioni di una sconfitta tanto cocente, nella speranza che i consensi fuggiti via possano ritornare con facilità, come se la sconfitta fosse una parentesi, un incidente di percorso. L’opposizione democratica ha una sua nobiltà, ma è anche dura, aspra, faticosa. Di Maio e Renzi, che evocano i pop-corn, si illudono che non sia così. Un’illusione che porterà a disillusioni sempre più amare .

Corriere 11.5.18
Militanti e «tifosi» Il malessere nell’ala sinistra del Movimento
di Marco Imarisio


«Avviati i gruppi di sostegno per i pentastellati di sinistra». Nell’immagine che accompagna la scritta c’è un gruppo di persone disposte in circolo — tipo riunione degli alcolisti anonimi — che consolano con mani sulle spalle e sguardi affettuosi l’unica figura di schiena, china su se stessa e si presume avvilita. Marco Chessa, consigliere comunale M5S a Torino, è l’autore della sintesi definitiva della situazione, postata su Facebook con l’eloquente hashtag #riderepernonpiangere. Il militante diventato attivista del Movimento nel 2015 perché attirato da ognuna di quelle cinque stelle che significavano acqua pubblica, ambiente eccetera, insomma tutto quello che un uomo all’epoca di 29 anni non trovava più in zona Pd e affini, è lui. La conversazione è stentata. A ogni livello i pitbull da guardia della controrivoluzione incombono e la sindaca Chiara Appendino sta con Luigi Di Maio, più per convenienza che per intima convinzione da ex simpatizzante di Rifondazione comunista. «Sono orgoglioso di essere cresciuto nei valori della Resistenza e dell’Antifascismo» dice Chessa. «Ai populismi di destra che minacciano “passeggiate” su Roma posso solo confermare che le loro formazioni e le loro ideologie non sono in grado di rappresentarmi. Né ora, né mai».
Il Movimento liquido è sempre stato formato da due blocchi piuttosto solidi. Fin dall’inizio. Beppe Grillo non ha mai nascosto il rimpianto per il vecchio Pci. Gianroberto Casaleggio era approdato dall’utopia di Adriano Olivetti a un leghismo neppure troppo temperato. Adesso che la roulette pentastellata sembra destinata a fermarsi sulla casella di Pontida, i dolori di stomaco della base non sono inferiori a quando sembrava il turno dell’alleanza con il Pd. Torino non è Roma. Nella seconda città più importante amministrata dai Cinque Stelle, la stragrande maggioranza dei consiglieri comunali proviene da delusioni di sinistra e la pensa come Chessa. Con variazioni sul tema non di poco conto. «Io digerisco il governo con la Lega ma solo se come prima mossa mi cancellate il decreto Lorenzin» scrive la consigliera comunale Daniela Albano, antivaccinista convinta, e qui volendo si aprono scenari di fantasmagorici e insalubri baratti.
Ma Roma, intesa come ragion di governo a ogni costo, non è neppure altrove. «Non conosco Salvini di persona, ma la sua visione del mondo, o quella che mette in scena, su immigrati, omosessuali e sulle donne, non corrisponde in alcun modo alla mia» dice la senatrice napoletana Paola Nugnes, una dei pochi parlamentari a rompere la consegna del non disturbate il manovratore. L’area della sinistra pentastellata ha sempre avuto come riferimento Roberto Fico, ma il neopresidente della Camera risulta coperto e allineato. Così la voce più forte del disorientamento dei movimentisti diviene l’ultima che si è aggiunta al coro in ordine di tempo. L’attore romagnolo Ivano Marescotti, comunista figlio di comunisti, aveva fatto notizia prima delle elezioni con la sua scelta di campo a favore di M5S. «Da militante di sinistra speravo che il Movimento restasse agganciato ai “nostri” valori. Mi ritengo già all’opposizione. Ma se vanno con la Lega perderanno i voti di quelli come me. Le analisi dell’ultimo voto dicono che siamo il 45%». La tesi di Marescotti è che alla fine il colpevole sia il Pd, un classico come il maggiordomo nei romanzi gialli di una volta. «Perché ci sono dubbi? C’è chi ha deciso di consegnare M5S e il Paese a questa deriva. E lo rivendica come un merito. Complimenti vivissimi». «Infami, avete sbancato il Sud al grido “mai con la Lega” e ora vi calate le braghe». «Se sapevo che il mio voto per voi andava alla Lega...». Ci sarà comunque un prezzo da pagare per M5S. I commenti in calce al video di Luigi Di Maio che aggiornava sulla trattativa lasciano presagire un contrappasso. Anche sul blog delle Stelle, piattaforma Rousseau, quindi con un notevole filtro, non mancano le perplessità. In questo caso rimandano quasi tutte a Marco Travaglio. Il direttore del Fatto quotidiano ha scritto che comunque vada «sarà un pastrocchio» non per il tradimento dei penstastellati a sinistra ma per il convitato di pietra del nuovo esecutivo. «Con tutte queste ambiguità il governo M5S-Lega conviene a Lega, Berlusconi e Pd, ma non al M5S e — quel che più conta — agli italiani». L’eterno ritorno dell’ex Cavaliere, insomma, sotto la maschera dell’astensione benevola. «Coraggio, ti compriamo una bella camicia verde» ha scritto un militante al povero Chessa. Preferirei di un altro colore, è stata la risposta.

il manifesto 11.5.18
Riforma penitenziaria, i penalisti lanciano un ultimo appello a Mattarella
Carcere. A Roma la procura chiede il rinvio a giudizio di dieci persone, tra poliziotti penitenziari e medici, per il suicidio di un giovane detenuto malato psichico. Mentre a Napoli si apre il processo a carico di 12 agenti per la «Cella zero» di Poggioreale
di Eleonora Martini


«La normativa avrebbe il pregio di risollevare gli istituti di pena italiani da quella gravissima situazione di sostanziale illegalità che viene quotidianamente denunciata». Proprio nel giorno in cui la procura di Roma chiude l’inchiesta sul suicidio di un giovane detenuto con problemi psichici ipotizzando per dieci persone il reato di omicidio colposo, e a Napoli molti ex detenuti manifestano all’apertura del processo a carico di 12 agenti penitenziari accusati di violenze nella cosiddetta «Cella zero», l’Unione delle Camere penali italiane lancia un ultimo accorato appello, rivolto questa volta direttamente al presidente Mattarella, per salvare in extremis la riforma dell’ordinamento penitenziario voluta dal ministro Orlando che attende solo l’ultimo atto del governo.
Valerio Guerrieri aveva 22 anni ed era affetto da patologie psichiche quando si è suicidato nel carcere romano di Regina Coeli, il 24 febbraio 2017. Arrestato nel settembre 2016 in flagranza di reato per resistenza e lesioni a pubblico ufficiale e danneggiamento aggravato, il 14 febbraio dell’anno scorso il giovane viene condannato a sei mesi di reclusione  ma da scontare in una Rems (le residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza che hanno sostituito gli Opg) perché il perito del tribunale aveva riscontrato «un rischio suicidario non basso, quindi non trascurabile» che andava «soppesato dal punto di vista trattamentale».
E invece Guerrieri dieci giorni dopo si è impiccato nella sua cella. Ieri, dopo un anno di indagini, il pm Attilio Pisani ha chiesto il rinvio a giudizio per otto agenti penitenziari e due medici del carcere ipotizzando il reato di omicidio colposo. Archiviato invece un esposto presentato dalla mamma di Guerrieri che contestava l’illegittimità della detenzione.
Un fatto, questo, che ha sorpreso il Garante dei detenuti della Regione Lazio, Stefano Anastasia che ricorda come «il ragazzo sia stato trattenuto in carcere per più di dieci giorni senza un titolo legittimo di detenzione». «Perché – chiede ora Anastasia – quando è venuta meno la custodia cautelare per cui era entrato a Regina Coeli, non è stato liberato? E perché tanti altri come lui, persone con problemi di salute mentale, ma né condannati né sottoposti a custodia cautelare, continuano a essere trattenuti in carcere senza un titolo legittimo di detenzione?».
A Napoli invece si è aperto ieri, con un sit in di protesta di ex detenuti, il processo a carico di 12 agenti penitenziari accusati di presunte violenze commesse nella cosiddetta «Cella zero» di Poggioreale, ossia una cella spoglia di qualsiasi arredamento ma soprattutto senza area di videosorveglianza. I manifestanti, alcuni dei quali denunciano di aver subito le medesime violenze dei sei detenuti dalla cui testimonianza è stata avviata l’inchiesta, si sono detti preoccupati «perché questo processo iniziato oggi già puzza di prescrizione». I reati contestati, infatti – lesioni, maltrattamento, e in due casi sequestro di persona – risalgono al periodo compreso fra la fine del 2012 e i primi mesi del 2014.
Una cronaca, quella di ieri, particolarmente emblematica in un frangente nel quale sembra ormai impossibile trasformare in legge il primo decreto attuativo della riforma dell’ordinamento penitenziario (quello sulle misure alternative) che attende solo l’approvazione definitiva da parte del governo. L’esecutivo infatti, come ha spiegato al manifesto l’ex presidente della Consulta, Flick, non ha più l’obbligo di attendere un passaggio alle commissioni parlamentari.
E così ancora ieri l’Ucpi ha fatto appello al presidente Mattarella affinché indichi al «governo ancora in carica la strada per la definitiva approvazione e promulgazione della legge». Una «riforma fondamentale», ricordano i penalisti, che ha anche «il compito di dare attuazione ai principi costituzionali dell’articolo 27 ed a quanto richiestoci dall’Europa».

La Stampa 11.5.18
Israele colpisce gli iraniani in Siria
Netanyahu: “Passata la linea rossa”
Centrate dozzine di postazioni dei pasdaran dopo l’attacco con i razzi sul Golan Èil bombardamento più massiccio dal 1973. Damasco: intercettata la metà dei missili
di Giordano Stabile


I pasdaran attaccano le postazioni israeliane sul Golan e lo Stato ebraico scatena in Siria i più massicci bombardamenti dalla guerra dello Yom Kippur del 1973. Lo scontro fra l’Iran e Israele sul fronte siriano ha conosciuto la notte più tesa dal 10 febbraio scorso, quando l’abbattimento di un F-16 da parte delle contraerea siriana aveva fatto temere un conflitto aperto. Allora come ieri è stata la Russia a fare da cuscinetto, ma adesso, dopo che Donald Trump ha stracciato l’accordo sul nucleare, anche per Vladimir Putin è sempre più difficile convincere l’alleato sciita a contenersi.
Il primo «attacco diretto dell’Iran a Israele», come è stato definito dalle forze armate israeliane, è stato innescato prima dell’alba da un raid israeliano su una base utilizzata dalle milizie sciite a Sud di Damasco, nella cittadina di Kisweh, già colpita due giorni fa. Questa volta però gli iraniani, o qualche milizia alleata, hanno reagito. Un lanciarazzi mobile ha tirato 20 ordigni verso le Alture del Golan. La contraerea israeliana li ha intercettati e subito dopo è partita la rappresaglia. Sono stati impegnati 28 cacciabombardieri F-16 e F-15 che hanno lanciato 60 missili aria-terra e colpito «dozzine di obiettivi» iraniani attorno a Damasco e più in profondità ancora, nella provincia di Homs. Al volume di fuoco si sono aggiunti anche 10 missili terra-terra e alla fine, secondo le forze armate israeliane, «tutte le postazioni militari costruite negli ultimi mesi dall’Iran sono state distrutte».
Il premier Benjamin Netanyahu, reduce dall’incontro con Putin a Mosca, ha spiegato che «l’Iran ha oltrepassato la linea rossa» e la risposta «è stata adeguata»: «Ho inviato un messaggio chiaro: la nostra operazione è diretta contro obiettivi iraniani in Siria, ma se l’esercito siriano agirà contro Israele, noi agiremo contro di lui». Un portavoce israeliano, il colonnello Jonathan Conricus, ha precisato che la Russia «è stata avvertita in anticipo degli attacchi». Nei raid sarebbero rimasti uccisi 23 militari, «molti iraniani». Il ministero della Difesa russa ha ribattuto che le difese siriane «hanno intercettato la metà dei missili lanciati». Anche le forze armate siriane hanno vantato «l’alta percentuale di successo» delle proprie difese, come in occasione dei raid franco-anglo-americani del 14 aprile scorso.
Per il governo siriano «il confronto diretto segnala l’inizio di una nuova fase della guerra». Il conflitto civile, con la resa dei ribelli nelle ultime sacche attorno a Damasco e Hama, è quasi finito. Bashar al-Assad ora vuol prendersi i territori che ancora gli sfuggono lungo le frontiere, e l’area a ridosso del Golan è una di queste. Attorno alla città di Quneitra si sono ammassate truppe regolari e milizie sciite libanesi, irachene e siriane, con il supporto dei consiglieri militari delle forze speciali Al-Quds, guidate dal generale Qasseim Suleimani. Secondo l’Intelligence militare israeliana è stato lo stesso Suleimani a dare «l’ordine di attacco» sul Golan.
L’ala oltranzista del regime iraniano vorrebbe quindi andare allo scontro diretto con Israele, senza attendere il tentativo di Hassan Rohani di salvare l’accordo sul nucleare. Ieri il presidente iraniano ha ricevuto la telefonata della cancelliera Angela Merkel, che lo ha rassicurato sulla permanenza nell’accordo della Germania, insieme a Francia e Inghilterra, «finché l’Iran manterrà i suoi impegni». Ma il fronte del Golan resta incandescente. La guerra a bassa intensità è cominciata lo scorso febbraio, quando un elicottero Apache israeliano ha ucciso il comandante di Hezbollah Mohammed Ahmed Issa vicino a Quneitra, e da allora rappresaglie e contro-rappresaglie non si sono mai fermate. Nessuno sa dove si fermeranno.

La Stampa 11.5.18
Rifugi, riservisti e sirene anti-aeree
Lo Stato ebraico pronto alla guerra
L’esercito ordina ai sindaci di aprire i bunker Rafforzati i sistemi di difesa al confine
di Rolla Scolari


In Israele il segnale che la costante tensione regionale è andata oltre il livello di guardia è l’ordine dell’esercito ai sindaci di aprire i rifugi antimissile. Le sirene nel Nord, alcune collegate alla voce registrata che avverte i residenti – Tzeva Adom, in ebraico colore rosso, allarme rosso – sono partite poco dopo la mezzanotte di giovedì. Gli abitanti di alcune comunità sono restati nei rifugi fino alle due del mattino. Postazioni militari iraniane in Siria hanno lanciato venti missili contro una base israeliana. Alcuni sono stati intercettati, altri sono caduti in territorio siriano.
In seguito all’annuncio, martedì, del presidente americano Donald Trump sull’uscita degli Stati Uniti dall’accordo internazionale sul nucleare iraniano, Israele è entrato in allerta. Sono ormai mesi che l’establishment militare teme, con il rafforzarsi dell’Iran nella vicina Siria, un possibile attacco. I vertici militari hanno chiesto ai riservisti di tenersi pronti e rafforzato il dispiegamento di batterie del sistema di difesa anti-missilistico Iron Dome nella regione settentrionale del Golan.
Benché i raid israeliani sulla Siria, in risposta al lancio di razzi iraniani, siano stati i più aggressivi in decenni, la leadership politica d’Israele punta a mantenere in casa il business as usual. Il Paese d’altronde è abituato a passare nel giro di poche ore dalla quotidianità all’emergenza bellica. Scuole, uffici, negozi al Nord sono rimasti aperti ieri, nonostante l’attacco notturno e l’allerta ovunque. Gli abitanti delle zone più a rischio – quelli lungo i confini con il Sud del Libano, roccaforte delle milizie sciite di Hezbollah, e con la Siria in guerra, e le comunità rurali del Sud, attorno a Gaza – conoscono le procedure in caso d’attacco. I siti Internet e i social network di esercito e municipalità forniscono i tempi d’impatto dei missili. A seconda della posizione geografica di città e villaggi – Israele da Nord a Sud è lungo appena 470 chilometri, poco più della distanza tra Torino e Venezia – per trovare rifugio si ha a disposizione da pochi minuti a pochi secondi. Assieme alle sirene, un sistema di sms gestito dallo Stato attraverso le compagnie telefoniche avverte i cittadini in tempo reale di minacce imminenti.
Oltre ai rifugi anti-bomba, sarebbe obbligatorio avere in casa una stanza con muri e porte rinforzate, senza finestre. Contando questi «bunker» familiari, Israele avrebbe circa un milione di rifugi, molti dei quali, come documentato da un servizio fotografico del «Guardian» qualche anno fa, convertiti nella quotidianità in palestre domestiche, sale musicali o di danza.
L’infrastruttura di difesa civile è stata potenziata dopo la guerra del 2006 contro Hezbollah, che in 34 giorni di conflitto ha lanciato centinaia di razzi Katiuscia sul Nord. Da allora, l’ospedale Ichilov di Tel Aviv ha costruito quattro piani sotterranei, normalmente usati come parcheggio, che possono ospitare mille letti, e dispongono di forniture d’ossigeno, acqua potabile, elettricità, di generatori capaci di operare una settimana. Il Rambam Medical Center di Haifa, al Nord, è più grande: in meno di 48 ore può trasferire quasi 2.000 pazienti nel suo sottosuolo. E il parcheggio sotterraneo del teatro Habima di Tel Aviv, in caso di attacco chimico, biologico o missilistico può essere convertito in un rifugio pubblico per migliaia di cittadini.

Corriere 11.5.18
Realtà e animazione sulle stragi di Gaza
di P. M.


Il primo film italiano a essere proiettato a Cannes è La strada dei Samouni di Stefano Savona, selezionato alla Quinzaine des Réalisateurs. Il documentarista palermitano aveva già raccontato l’operazione «Piombo fuso» dell’esercito israeliano nella striscia di Gaza del 2009 (col documentario omonimo). L’incontro con i Samouni sopravvissuti lo ha spinto a ricostruire la tragica storia della loro famiglia, che in quell’operazione di guerra ha perso 29 membri. Per farlo ha raccolto negli anni le testimonianze dei sopravvissuti – la piccola Amal, sua madre, alcuni parenti – ma ha anche affidato ai disegni di Simone Massi e a una ricostruzione 3D il compito di «documentare» quello che evidentemente non era stato filmato: i momenti dell’attacco, le uccisioni, gli ordini contraddittori che arrivavano ai soldati israeliani guidati dall’occhio di un drone (e che sono stati resi pubblici da un’inchiesta sollecitata dall’Onu). In questo modo le immagini reali e quelle ricreate si fondono in un film di straziante potere emotivo, dove la forza documentaria delle riprese si intreccia con la bellezza di un’animazione che rifugge da ogni precisione realistica, dove la disperazione umana si mescola alle ambizioni politiche (i membri di Hamas che vogliono trasformare i morti in «loro» martiri), la sopportazione contadina (i Samouni sono agricoltori da generazioni) diventa la spinta per andare avanti, la memoria del passato si interroga sui dubbi del presente. Facendo di La strada dei Samouni (che la Rai ha meritoriamente coprodotto e che ci auguriamo metta presto in onda) un nuovo tassello di un viaggio dentro il cinema e la sua capacità davvero unica di raccontare la Storia riflettendo sui suoi drammi.

il manifesto 11.5.18
Iran, la voragine ci inghiotte
di Tommaso Di Francesco


Mentre la crisi italiana dopo il voto del 4 marzo getta la maschera, con la rischiosa trattativa di governo tra le due forze populiste vincenti ed emergenti, all’ombra dello «statista» Berlusconi, ecco che subito si riaffaccia la voragine di un’altra guerra.
Stavolta con l’Iran come target e Israele come protagonista.
Sono decine le persone uccise nei raid israeliani della notte scorsa in Siria «contro obiettivi iraniani»; l’esercito israeliano – che sostiene di aver reagito al lancio di venti razzi sul Golan (che è territorio siriano occupato da Israele) – ha colpito con 70 missili complessivi, 60 con 28 jet F15 ed F16 e dieci con missili tattici terra-terra dal territorio israeliano.
È la prova generale di un’altra guerra su vasta scala e diretta, dopo le tante in Siria «per procura».
Alla nuova deflagrazione ha dato il via libera Trump con la denuncia dell’accordo sul nucleare civile dell’Iran faticosamente raggiunto da Obama insieme ai 5 più 1 (i membri del Consiglio di Sicurezza Onu con potere di veto, Regno Unito, Francia, Stati Uniti, Russia e Cina più la Germania) e definito da Mogherini «storico».
Lo ha fatto con l’annuncio peggiore di nuove sanzioni non solo contro l’Iran ma anche contro chi avrà rapporti con Teheran.
Che quella di Trump sia una scelta di guerra, lo ha denunciato anche il segretario dell’Onu Antònio Guterres. Ma per Trump è di più: è una promessa elettorale da rovesciare nella voragine mediorientale.
Come del resto l’altro «ordigno» che lancerà tra poche ore: lo spostamento dell’ambasciata Usa a Gerusalemme.
Perché l’intento della Casa bianca è lasciare incandescente il «forno» del conflitto tra sciiti e sunniti, eredità delle guerre bipartisan contro l’Iraq.
La guerra in Siria non deve finire con la sconfitta – invece cogente – dello jihadismo alimentato in primis dall’Arabia saudita alleato storico d’acciaio degli Stati uniti.
Per questo Trump è diventato un piazzista di armi.
A fine 2017 ha riunito il fronte sunnita a Riyadh per schierarlo contro l’Iran, portando in dote alla petromonarchia dei Saud una fornitura di armi di 100 miliardi di dollari. E qui, tra Mediterraneo, fossa comune di migranti e martoriato Medio Oriente non c’è nemmeno la Cina a garantirgli la scena per una trattativa con il cattivo di turno, come accade nella penisola coreana.
Direttore d’orchestra il premier israeliano Benjamin Netanyhau, che aizza contro il nucleare civile dell’Iran mentre Israele possiede centinaia di atomiche (alcune puntate su Teheran) e che va al conflitto, e al tiro al piccione dei palestinesi – dopo aver fatto scempio di ogni possibilità di pace interna – perfino «in bicicletta», sponsorizzato dai media occidentali dopo le tre tappe israeliane del Giro d’Italia (povero Ginettaccio).
Unica voce alternativa al mondo Amnesty International che, dopo un rapporto agghiacciante sui corpi devastati a Gaza dai proiettili israeliani, chiede con forza l’embargo di armi per Israele.
Il dossier nucleare di Netanyahu è pari alla sua faccia tosta: Israele è l’unica potenza atomica del Medio Oriente e detta legge sul nucleare civile altrui; eppure «Bibi», con uno spettacolo da comico di crociera, ha «rivelato» al mondo le presunte preparazioni atomiche dell’Iran che l’atomica non ce l’ha, ma aderisce a controlli e Trattati, e vuole solo diversificare le fonti energetiche per la crisi economica che l’attanaglia anche per il peso delle sanzioni Usa.
Mentre in queste ore l’Arabia saudita – fomentatrice del jihadismo sunnita e alleata d’Israele – avverte: «Se Teheran avrà l’atomica anche noi l’avremo».
Tra gli altri effetti collaterali, la scena sembra pronta per l’intervento diplomatico di Putin, grande alleato della presidenza Rohani,- del resto Putin venne pubblicamente ringraziato da Obama nel 2015 per la sua decisiva mediazione.
Alternativa alla guerra sembra stavolta la reazione dell’Unione europea che di quell’accordo è stata in parte artefice. Ora, almeno a parole, da Macron a Mogherini, da Merkel all’uscente Gentiloni, si conferma uno schieramento contrario perfino con l’atlantica May. Tutti presi a schiaffi in faccia da Trump.
Ma che accadrà quando le capitali europee dovranno fare i conti con lo spettro che già terrorizza, vale a dire l’annunciato embargo americano alle transazioni con l’Iran? Ci vorrebbe allora un’Europa non atlantica.
Perché mentre l’Unione europea si barcamena solo sulle vicende monetarie ed economiche perseguendo coi vincoli di bilancio le già scarse politiche sociali dei Paesi comunitari, la sua politica estera fin qui resta avventurista o apre fronti tardo-coloniali, come fa Macron in Africa; oppure pensa alla difesa europea ma come doppio subalterno (nelle spese e nelle finalità) all’unica realtà sovranazionale d’Europa: la Nato.
Teheran intanto minimizza.
Ma s’incendiano nuovi fronti. Così si prepara al peggio. Che non è solo il conflitto in Siria, ma l’attesa provocazione di un raid aereo israeliano su siti nucleari iraniani – un déjà-vu che stavolta sarebbe un detonatore – del quale già si intravvede la traiettoria.
Siamo nella voragine. Ci stiamo dentro nel vuoto di contenuti e di forze che assumano la pace e il rispetto della Costituzione come condizione senza la quale non c’è governo possibile.

il manifesto 11.5.18
Scontri sul Golan occupato, i monarchi del Golfo stanno con Israele
Iran/Siria/Israele. Come gli Stati Uniti il ministro degli esteri del Bahrain afferma che Israele ha il diritto di difendersi dall'Iran. Nuova vittoria diplomatica per il governo israeliano. Netanyahu accusa l'Iran di aver passato la "linea rossa" lanciando mercoledì notte dal territorio siriano missili contro il Golan. Tehran nega ogni responsabilità
di Michele Giorgio


GERUSALEMME «Fino a quando l’Iran continuerà con l’attuale status quo delle sue ‎forze e i missili ‎che operano nella regione, ogni paese – compreso ‎Israele – ha il diritto di ‎difendersi eliminando la fonte di pericolo‎». ‎Questo tweet non è di @potus, il ‎presidente degli Stati uniti Trump ‎che adora i micromessaggi per annunciare ‎alcune delle sue decisioni ‎più importanti. A postarlo è stato ieri il ministro degli ‎esteri del ‎Bahrain Khalid bin Ahmed Al Khalifa, a commento del ‎pesante ‎bombardamento israeliano in Siria di mercoledì notte contro ‎presunte basi ‎iraniane. Con poche parole ha dimostrato quanto si sia ‎capovolto il quadro delle ‎alleanze in Medio oriente. Per le ‎monarchie sunnite del Golfo colpire e se ‎possibile annientare l’Iran ‎e i suoi alleati è un imperativo. E che a farlo sia l’ormai ‎ex nemico ‎Israele non genera più imbarazzi. Presto avverrà tutto alla luce del ‎sole. ‎Minimizzare il passo del Bahrain sarebbe un grave errore. ‎Dietro questo ‎minuscolo arcipelago del Golfo c’è l’Arabia saudita ‎del principe ereditario ‎Mohammed bin Salman che, come Israele, ha ‎applaudito con soddisfazione alla ‎decisione di Donald Trump di far ‎uscire gli Usa dall’accordo internazionale sul ‎nucleare iraniano. Non ‎sorprende che ieri il ministro della difesa israeliano ‎Lieberman ‎abbia chiesto agli Stati del Golfo di ‎«uscire subito allo scoperto e ‎di ‎iniziare a parlare apertamente‎» per formare ‎«un asse dei moderati‎ ‎contro la ‎minaccia iraniana‎».
 Lieberman ha esaltato come una vittoria eccezionale l’offensiva ‎aerea e ‎missilistica lanciata da Israele sulla Siria, la più vasta dalla ‎guerra del 1973. ‎Offensiva che ha descritto come una risposta al ‎lancio dalla Siria di 20 missili ‎terra-terra da parte di unità scelte al ‎Quds della Guardia repubblicana dell’Iran ‎sulle alture del Golan, il ‎territorio che Israele occupa dal 1967 e che si è ‎annesso ‎unilateralmente. Bombardamenti aerei e decine missili, sempre ‎secondo la ‎versione di Tel Aviv, che avrebbero distrutto tutte le ‎posizioni iraniane in Siria – ‎radar, posti di osservazione, basi, campi ‎di addestramento, depositi di armi – e ‎causato vittime tra gli iraniani ‎‎(i morti sarebbero almeno 23, in maggioranza ‎‎”stranieri”, secondo ‎fonti dell’opposizione siriana). ‎«Non consentiremo all’Iran ‎di ‎trasformare la Siria in un proprio avamposto militare…Mi auguro ‎che il capitolo ‎sia già chiuso e che ognuno abbia recepito il ‎messaggio‎», ha aggiunto con tono ‎minaccioso Lieberman. Qualche ‎ora dopo il premier Netanyahu ha accusato l’Iran ‎di aver superato la ‎‎”linea rossa”. ‎«La nostra reazione è venuta di conseguenza – ‎ha ‎affermato – Tzhal (le forze armate, ndr) ha condotto un attacco su ‎grande scala ‎contro degli obiettivi iraniani in Siria…Ho inoltrato un ‎messaggio chiaro al regime ‎di Bashar Assad: la nostra operazione è ‎diretta contro obiettivi iraniani in Siria. ‎Ma se l’esercito siriano ‎agirà contro Israele, noi agiremo contro di esso, come è ‎esattamente ‎avvenuto».‎
La Russia, alleata di Damasco ma che non ostacola in alcun ‎modo i raid ‎israeliani, sostiene che metà di quei missili sono stati ‎abbattuti dalle difese siriana. ‎Mentre l’Iran smentisce qualsiasi ‎responsabilità nell’attacco contro le postazioni ‎militari israeliane sul ‎Golan. ‎«Tehran non ha nulla a che fare con i missili lanciati ‎a ‎Israele dalla Siria nella notte di mercoledì‎», ha affermato il vice ‎responsabile del ‎Consiglio supremo della sicurezza nazionale ‎iraniano, Abu al-Fadl Hassan al-‎Baiji. Da parte sua la Siria ammette ‎che gli attacchi israeliani hanno colpito ‎battaglioni di difesa aerea, ‎radar e un deposito di munizioni ma insiste sul ‎coinvolgimento ‎esclusivo delle sue forze militari. E sottolinea che l’escalation ‎ha ‎riguardato il Golan occupato da Israele. ‎«La difesa antiaerea siriana ‎è rimasta in ‎azione per alcune ore e si sono sentite forti esplosioni», ‎raccontava ieri al ‎manifesto Anna Costa, una cooperante italiana ‎della Ong di Bologna GVC, da due ‎settimane a Damasco ‎«la ‎popolazione comunque è tranquilla e non sembra temere ‎il possibile ‎inizio di una guerra (con Israele). D’altronde non dimentichiamo ‎che ‎questo Paese da anni fa già i conti con la guerra al suo interno».‎
Di fronte alla valanga di dichiarazioni e proclami delle parti ‎coinvolte non è ‎facile stabilire in modo defintivo chi siano i ‎vincitori e i vinti degli scontri ‎dell’altra notte. Israele però ha ‎sicuramente vinto un altra battaglia della guerra ‎politica e ‎diplomatica che sta facendo a Tehran, diffondendo l’iranofobia, e ‎non ‎solo nei Paesi occidentali, con l’appoggio dei sauditi e delle ‎monarchie del ‎Golfo. ‎«La comunità internazionale deve impedire ‎alla forza al-Quds iraniana di ‎trincerarsi in Siria. I tentacoli del ‎diavolo vanno tagliati prima che si espandano ‎qui e altrove‎» ha ‎detto. Netanyahu è deciso a sfruttare in pieno l’appoggio totale ‎che ‎garantisce Donald Trump alle sue politiche. Ieri anche i leader ‎europei, da ‎Emmanuel Macron ad Angela Merkel, che pure non ‎hanno digerito l’uscita degli ‎Usa dall’accordo sul nucleare iraniano, ‎erano dalla sua parte, impegnati a ‎condannare Tehran e a dispensare ‎scontati appelli alla moderazione che certo non ‎basteranno ad ‎evitare la nuova guerra. A Tel Aviv, Tehran, Riyadh, Damasco ‎e ‎Beirut sanno che la resa dei conti arriverà, presto o tardi. L’altra ‎notte ne ‎abbiamo avuto solo un assaggio. ‎

Il Sole 11.5.18
Siria campo di battaglia. Decine di razzi sul Golan, dura risposta delle forze israeliane
Prove generali di guerra tra Israele e milizie iraniane
di Roberto Bongiorni


«Spero che questo capitolo sia chiuso e ognuno abbia ricevuto il messaggio». Le parole con cui il ministro israeliano della Difesa, Avigdor Lieberman, ha concluso la sua spiegazione suggeriscono che Israele non desideri una guerra aperta con l’Iran. Non subito. Neppure Teheran sembra volerla. Eppure l’intensificarsi dei raid israeliani contro le postazioni militari iraniane in Siria, soprattutto l’ultima grande operazione di giovedì notte (ne sarebberro stati colpiti 50), somiglia sempre di più alle prove generali di un conflitto diretto.
Il raid di giovedì notte segna comunque un punto di svolta. Non solo perché, secondo l’esercito israeliano, si è trattato della «più grande operazione militare israeliana in Siria dall’inizio del 2011». Ma anche perché sarebbe la prima volta che le milizie filo-iraniane dispiegate in Siria attaccano direttamente il territorio israeliano con «decine di razzi» (che sarebbero stati neutralizzati). Un attacco ordinato, sempre secondo l’Idf, dal generale iraniano Qassem Soleimani, comandante della Forza al Quds.
Seguendo un copione collaudato, ognuna delle parti ha minimizzato le proprie perdite enfatizzando (in questo caso solo l’esercito israeliano) quelle inflitte al nemico. Martedì, poche ore dopo l’annuncio del presidente americano Donald Trump di voler uscire dall’accordo sul nucleare iraniano, i caccia israeliani avevano attaccato una base iraniana in Siria, provocando delle vittime (quelle dell’ultimo raid sarebbero più di 20).
Davanti al pericolo concreto di un confronto militare regionale dalle conseguenza potenzialmente catastrofiche la comunità internazionale sta cercando di correre ai ripari. Ma lo sta facendo in modo sfilacciato. Se il presidente francese, Emmanuel Macron, la cancelliera tedesca, Angela Merkel, ed anche la Russia (quest’ultima alleata del regime siriano ma con rapporti amichevoli con Israele) hanno lanciato un appello alla distensione attraverso la via del dialogo, il Regno Unito ha dichiarato il suo sostegno al diritto di Israele di difendersi dall’Iran. Gli Stati Uniti hanno invece apertamente assunto le difese di Israele, rivolgendo severi moniti(simili a minacce) all’Iran.
Nell’arco di sei mesi lo scenario mediorientale è cambiato drasticamente. In peggio. Durante il primo periodo della guerra civile in Siria, Israele aveva scelto il ruolo di spettatore neutrale, attento però a non farsi risucchiare dal pantano siriano. Ma pur sempre determinato a proteggere la sua sicurezza nazionale ogni qualvolta la ritenesse minacciata. In quest’ottica aveva subito tracciato la sua linea rossa, anzi le sue linee rosse: nessun trasferimento di armi sofisticate agli Hezbollah libanesi, suoi acerrimi nemici ed alleati dell’Iran, nessuna base iraniana in Siria capace di minacciare la sua sicurezza nazionale, e nessuna presenza di milizie filo-iraniane vicino al confine tra Siria e Israele. Ogni volta che ha ritenuto fossero state superate, ha reagito con raid aerei in Siria. Dal 2013 ve ne sarebbero stati almeno 100.
Una prima svolta è avvenuta in febbraio. Quando un drone iraniano, secondo l’esercito di Israele armato di esplosivo, ha sorvolato il suo spazio aereo. L’esercito aveva subito abbattuto il drone, rispondendo con una dura rappresaglia contro la base T-4, in Siria. Poco dopo un caccia F-16 era precipitato, probabilmente colpito dal sistema anti-aereo siriano. Era la prima volta in quasi 30 anni che un caccia israeliano veniva abbattuto. Per Gerusalemme, che ha sempre cercato di mantenere la superiorità aerea anche in funzione di deterrenza, era stato un duro colpo. Il 9 aprile, il giorno dopo il brutale attacco con armi chimiche sulla regione del Goutha (imputato al regime siriano) un nuovo raid israeliano aveva colpito ancora la base T-4.
Un nuovo e grave elemento di tensione rischia ora di aggravare la crisi. L’uscita degli Stati Uniti dall’accordo sul nucleare iraniano, caldeggiata da Israele, potrebbe far precipitare la situazione in Medio Oriente. Consapevole di una potenziale rappresaglia iraniana in Siria, il premier israeliano, Benjamin Netanyahu, ha alzato i toni dello scontro; Israele potrebbe andare in guerra con l’Iran «più prima che dopo».
Sembra la tempesta perfetta. Ci sono stati colpi di Stato e rivoluzioni. Invasioni di potenze straniere (gli Usa in Iraq nel 1991 e nel 2003) e conflitti per procura. Ma era dai tempi della guerra tra Iran e Iraq (1980-1988) che la regione non vedeva un conflitto aperto tra due potenze rivali. Questa volta c’è anche un campo di battaglia: la Siria. Mai come oggi Israele e Iran sono stati vicini a una guerra. Anche se loro stessi sembrano aver paura delle conseguenze.

il manifesto 11.5.18
Iran tra le braccia della Cina e meno sicurezza per tutti
Le conseguenze. La chiusura di Trump apre scenari inquietanti in un Medio Oruiente già in fiamme. A Teheran la politica militare non la decide il moderato Rohani, ma il leader supremo Ali Khamenei. E i pasdaran in un clima di instabilità potrebbero anche tentare il colpo di mano,
di Farian Sabahi


La decisione di Trump di chiudere all’Iran, nonostante il rispetto dell’accordo verificato dall’Aiea, ha molteplici conseguenze e non solo per le imprese. In prima battuta, il prezzo del barile resterà alto a beneficio di Teheran e Mosca, per le tensioni regionali ma anche perché le nuove sanzioni Usa ostacolano gli investimenti tecnologici nel settore energetico di imprese europee come Total. In seconda battuta, gli iraniani rischiano di finire tra le braccia dei cinesi, in grado di acquistare il loro petrolio e di rifornirli di tutto quanto necessario, facendosi beffe delle sanzioni occidentali.
A FAR RIFLETTERE sono poi le conseguenze per lo Stato ebraico in termini di sicurezza. Il premier Netanyahu e i gruppi pro-Israele si sono subito complimentati con Trump, ma a distanza di qualche giorno i toni si smorzano perché la situazione sembra degenerare, tant’è che i tafferugli sulle Alture del Golan hanno indotto il Dipartimento di Stato americano a mettere in allerta i propri cittadini: potrebbero trasformarsi in una guerra scatenata dagli Hezbollah libanesi, dalla Siria di Assad e dai pasdaran contro lo Stato ebraico. Uno scenario da non sottovalutare, soprattutto dopo i bombardamenti israeliani che mercoledì notte hanno preso di mira le postazioni iraniane in Siria.
La politica militare non è prerogativa del governo moderato di Rohani, ma del leader supremo Ali Khamenei, anziano e non in ottima salute: la situazione potrebbe sfuggirgli di mano. Ora che la Repubblica islamica sta per compiere quarant’anni, in una situazione di instabilità non sarebbe da escludere un colpo di Stato dei pasdaran, che da tempo controllano posti chiave della politica e una bella fetta dell’economia. In previsione di una guerra aperta, l’Idf (Israeli Defense Forces) ha richiamato un certo numero di riserve pur sapendo di poter contare sull’appoggio incondizionato del Pentagono.
INTANTO, L’IMPRESSIONE è che gli esponenti delle organizzazioni ebraiche negli Stati uniti siano troppo lontani dal Medio Oriente per capirne i meccanismi o forse, banalmente, non rischiano di mettersi l’elmetto e finire al fronte. Due esempi. Amministratore delegato dell’American Jewish Committee, Davis Harris si era opposto all’accordo, in tempi recenti si era limitato ad augurarsi un suo «miglioramento ma non la cancellazione», mentre ora teme «il divario che potrebbe aprirsi tra Washington e i partner europei, da cui l’Iran potrebbe trarre vantaggio». A capo della Conferenza dei presidenti delle maggiori organizzazioni ebraiche americane, Stephen M. Greenberg auspica «un accordo più ampio, che includa il divieto di un programma missilistico a corto e lungo raggio, nonché un qualsiasi tipo di armamento da parte dell’Iran». Il tutto condito da «sanzioni al sistema bancario e all’energia».
A LEGGERE LE DICHIARAZIONI di Harris e Greenberg, sembra che non si rendano conto che l’accordo con Teheran è un’intesa multilaterale raggiunta con un’intensa trattativa diplomatica e non si può rinegoziare inserendo il programma missilistico. Non è poi chiaro per quale motivo, dopo aver abdicato alla sovranità nucleare, gli iraniani dovrebbero rinunciare pure ai missili, da loro concepiti come sistema di deterrenza in un Medio Oriente armato fino ai denti, in cambio di… ulteriori sanzioni.
UNA VISIONE PIÙ CHIARA sembra averla il professore Naftali Tishby, scienziato della Hebrew University di Gerusalemme incontrato a un convegno della Sissa, la International School for Advanced Studies di Trieste: «Non credo che Trump abbia fatto la cosa giusta: mandare a monte l’accordo crea un’atmosfera negativa in un Medio Oriente già in fiamme». E aggiunge: «La storia ci ha resi paranoici, ci sentiamo minacciati dalla retorica della dirigenza iraniana che non riconosce il nostro Stato».
Pur essendo un uomo di sinistra come buona parte del corpo accademico di Israele, Tishby non esita a dirsi «favorevole a un bombardamento chirurgico dei siti nucleari iraniani, come in Siria in Iraq. Peccato siano ben protetti, sottoterra, in località difficilmente raggiungibili per i nostri aerei».

il manifesto 11.5.18
La decisione di Trump è una pietra tombale anche per l’Afghanistan
Addio processo di pace. Sfilandosi dall'accordo sul nucleare iraniano gli Usa mettono il governo afghano in una situazione molto difficile. E la guerra più lunga mai combattuta dagli Stati uniti continua, a due passi dal confine iraniano. Per i Talebani Teheran era già una sponda importante, ora lo sarà anche di più
di Giuliano Battiston


KABUL Con la violazione dell’accordo sul nucleare iraniano, Trump mette una pietra tombale sul processo di pace in Afghanistan. La guerra afghana è derubricata come secondaria, ma rimane la più lunga mai combattuta dagli Stati uniti, che qui mantengono soldati, mezzi, basi militari. A due passi dal confine iraniano. Insieme alla Siria, è qui che più concretamente si vedranno gli effetti della decisione di Trump.
A KABUL È ALLARME ROSSO. Già ieri l’Alto consiglio di pace, l’organo che ha il compito di favorire il negoziato con i Talebani, ha espresso forti preoccupazioni, augurandosi che l’uscita degli Usa dall’accordo nucleare non renda più lontana la risoluzione del conflitto. A dispetto degli auspici, andrà proprio così.
L’Afghanistan ha sei paesi confinanti, ma i due più rilevanti, sul piano politico ed economico, sono l’Iran e il Pakistan. Senza la loro collaborazione la guerra non potrà concludersi. Attaccando l’Iran, la scelta di Trump prolunga dunque il conflitto e fornisce a Teheran un motivo ulteriore per contrapporsi alla presenza di Washington nel Paese centro-asiatico. Lo può fare attraverso strumenti diversi. Il più efficace rimane la shura di Mashad (dall’omonima città nel nord-est dell’Iran, a due passi dal confine afghano), una delle cupole dei Talebani. La shura di Mashad è controllata e finanziata dalle Guardie della rivoluzione, che usano l’influenza sui militanti per condizionare la partita afghana. Fino alla fine del 2014, quando è avvenuto il ritiro della maggior parte delle truppe straniere, l’obiettivo era lavorare ai fianchi gli americani, colpirli il più duramente possibile, ricordargli che l’Asia centrale non è casa loro. Più recentemente, i pasdaran hanno visto nei Talebani un argine contro l’espansione della «Provincia del Khorasan», la branca locale dello Stato islamico, che persegue una politica settaria fortemente anti-sciita.
LA PREOCCUPAZIONE DI TEHERAN è simile a quella di Mosca, che ha deciso di attribuire una patente di legittimità politica ai Talebani in cambio del sostegno contro la Provincia del Khorasan, troppo vicina geograficamente alle ex repubbliche sovietiche e al Caucaso.
I legami cion la Russia e con l’Iran non piacciono a tutte le componenti dei Talebani. La Russia è l’erede di quell’impero sovietico che aveva occupato il Paese, provocando la resistenza dei mujahedin. L’Iran nel 2001 ha fornito assistenza all’Alleanza del nord per rovesciarne l’Emirato islamico. Poi le cose sono cambiate.
Oggi i rapporti sono buoni, almeno con alcune “shure”. Mullah Akhtar Mansour, il successore di mullah Omar alla guida dei turbanti neri, è stato polverizzato nel maggio 2016 da un drone statunitense nel Beluchistan pachistano proprio mentre tornava da un viaggio in Iran.
PER I TALEBANI quella iraniana è già una sponda importante. Con la decisione di Trump diventerà ancor più significativa. Anche per gli effetti sul quadro domestico iraniano: verrà ridimensionato il peso del ministro degli Esteri Javad Zarif a beneficio dei duri e puri delle Guardie della rivoluzione, che vedono la diplomazia attraverso un mirino. Se uno degli obiettivi di Trump era ridimensionare l’influenza regionale iraniana, il colpo basso sul nucleare ne rafforza il ruolo, sul fronte afghano come altrove. E mette seriamente nei guai il governo di Kabul, già debole e diviso tra il presidente Ashraf Ghani e il quasi primo ministro Abdullah Abdullah, costretti alla coabitazione in un governo di unità nazionale che ha istituzionalizzato la loro rivalità.
Trump li mette in una situazione difficile, da equilibristi: devono obbedire a Washington, senza il cui sostegno il loro governo non esisterebbe, ma non possono rinunciare ai legami con Teheran, importantissimo partner commerciale. Inoltre, paradossalmente Kabul potrebbe essere spinta nelle braccia di Islamabad, lo stesso attore che Trump accusa di sostenere i Talebani. Una parte di loro festeggia la scelta del presidente Usa. Ne otterranno benefici. I più oltranzisti potranno convincere i moderati che del processo di pace non c’è bisogno: degli americani non ci si può fidare.

Repubblica 11.5.18
Marvel si adegua ai tempi
Svolta nei fumetti, arrivano i supereroi cinesi
di Filippo Santelli


PECHINO,  CINA C’era una volta il Mandarino.
Esperto di arti marziali, astuto, megalomane e con un piano per conquistare il mondo, toccava a Iron Man sconfiggere questo cattivone, l’unico protagonista cinese visto finora nei fumetti della Marvel. Un antagonista. Ma i tempi (e soprattutto i mercati) cambiano. E così la Cina pazza di fumetti, proprio ora che a sfidare la potenza americana ci sta pensando per davvero, merita anche lei i suoi supereroi, quelli buoni si intende. Da ieri eccoli pubblicati: Sword Master e Aero sono i primi paladini con il passaporto e i tratti Dragone creati dal leggendario marchio statunitense Marvel, in collaborazione con il colosso dell’intrattenimento locale NetEase. «Con una visione del mondo discussa da entrambe le parti», recita il comunicato di lancio, quasi a voler esorcizzare letture geopolitiche della vicenda. Salvo poi ammiccare ai lettori della Repubblica popolare, spiegando che disegni e avventure sono farina del sacco di due artisti cinesi.
Dal punto di vista commerciale non fa una grinza. I muscoli d’acciaio e i superpoteri dei personaggi Marvel, versione cinematografica, negli ultimi mesi stanno sbancando il botteghino cinese. Black Panther in due settimane ha incassato nel Paese oltre 100 milioni di dollari, primo mercato fuori dagli Usa, l’ultimo Avengers, che debutta oggi, ha in cassaforte 50 milioni solo di prevendite. E così come nelle produzioni di Hollywood un attore cinese sta diventando d’obbligo, arriva la quota rossa anche nei fumetti. Sword Master è un ragazzo di 18 anni a cui il padre archeologo consegna una spada di 5 mila anni fa, appartenuta a un imperatore, che userà per lottare contro la reincarnazione di un diabolico demone. Tutto pieno di folklore e cultura cinesi, compreso lo zombie travestito da fattorino delle consegne contro cui il paladino se la deve vedere nel primo numero. Quanto a Aero invece, la protagonista di Cyclone, è un’architetto con il potere di manipolare gli elementi posta a guardia di una città finanziaria sul mare, con l’aspetto, e pure qualche edificio, di Shanghai.
Mondi in cui faranno delle comparsate anche i vari supereroi born in the Usa di Marvel per cui NetEase ha i diritti di pubblicazione in Cina, dall’Uomo Ragno a Doctor Strange. In una tavola di Sword Master, con una delle classiche citazioni nascoste che mandano in delirio gli appassionati di fumetti, si intravede anche il volto di Iron Man, proprio l’eroe che qualche decennio fa fermava il Mandarino. Non c’è ancora una data, ma i due supereroi cinesi dovrebbero essere pubblicati presto pure negli Stati Uniti. E chissà come la prenderà Capitan America (First), Donald Trump, impegnato nella sua battaglia di parole e di dazi contro Pechino.
Stia attento il presidente, è un attimo ritrovarsi dalla parte degli antagonisti.

Corriere 11.5.18
«Le mie canzoni sono ancora proibite»
Emel Mathlouthi, voce scomoda della primavera araba: Tunisi non ama gli inni alla libertà di Giuseppina Manin


La sua voce ha il profumo dei gelsomini, dolce e lancinante come quello della primavera araba di cui le canzoni di Emel Mathlouthi sono diventate l’inno per migliaia di giovani tunisini decisi a rivendicare i diritti base di ogni essere umano: lavoro, libertà, dignità. Primavera intirizzita, ormai lontana. «Ma non tutto è perduto. Finché quel sogno che ha fatto intravvedere la luce di una realtà diversa esiste e resiste, darà i brividi a qualsiasi nuova dittatura» garantisce Emel, le cui musiche accompagneranno domani a Udine, al Premio Terzani, la conversazione tra il vincitore Domenico Quirico e la giornalista del Corriere della Sera Marta Serafini.
«Sono onorata di questo invito. Amo l’Italia e il vostro cinema, la porta magica per capire un Paese e la sua gente. Come la musica, che mette in contatto culture lontane. Non so come vengano percepite qui le mie canzoni che attingono a sonorità del Maghreb, ma so che arrivano dritte alle orecchie e al cuore di tutti». Il canto libero di Emel risuona forte e chiaro nelle strade di Tunisi come ovunque nel mondo.
«Ho cominciato a scrivere canzoni a 10 anni ma ho capito il loro potere di scuotere dall’apatia ascoltando Björk e Joan Baez». E di Here’s To You, scritta da Baez per il film di Montaldo sugli anarchici Sacco e Vanzetti, Emel riscrive una versione araba in omaggio a Mohamed Bouazizi, l’ambulante che si dette fuoco per protesta contro le angherie della polizia. Poi è la volta di Kelmti Horra, canzone simbolo della Rivoluzione dei gelsomini. «Nata in spiaggia, al festival del cinema di Kelibia. Da tempo avevo in mente quei versi senza trovare la giusta melodia. La magia è successa quella notte».
La mia parola è libera, titolo in italiano, si canta per ogni strada di Tunisi, sottovoce o a squarciagola ma è bandita da radio e tv. «È la logica della nostra censura. Non proibisce nulla in modo ufficiale ma taglia le gambe a chi esce dal coro. Oggi le cose vanno un po’ meglio, ma chi è scomodo continua a essere emarginato e grande è la corruzione nel ministero della Cultura».
La voce di Emal non tollera costrizioni, a 25 anni lascia il suo Paese, va dove la porta il sogno: in Egitto, in Iraq, in Iran. Canta al Nobel per la Pace a Oslo ma anche all’Opera di Teheran. «Una sfida, una piccola breccia nella legge che proibisce alle donne di cantare davanti a un pubblico misto. E mai da sole, sempre con cantanti uomini per coprire la loro voce».
Così come il velo continua a coprire le loro teste. Ora più di prima. «Viviamo tempi di crisi, identitaria, economica. Le persone si ripiegano su se stesse, si rifugiano in dogmi rassicuranti come il rifiuto dell’altro, della diversità. Quando ci si sente insicuri, quando i governi non riescono a dar risposte reali, si cerca di ritrovare una certa spiritualità dentro antiche credenze». Adesso vive a New York, nell’America del «muslim ban» di Trump. «Però c’è anche il movimento #MeToo, vero terremoto delle donne contro la violenza maschile. Non so come sarà il futuro, quel che so è che, in qualsiasi parte del mondo, staremo molto meglio se sapremo vivere insieme nella tolleranza e nella ricchezza della diversità. Velo o non velo».

Corriere 11.5.18
National Geographic, Sky
«Genius», la vocazione pedagogica della serie su Picasso


Dopo Albert Einstein, la seconda stagione di Genius, la serie tv prodotta da Ron Howard, vede protagonista Pablo Picasso, interpretato da Antonio Banderas (vi prego, dimenticate la gallina del Mulino Bianco!).La carriera artistica di Pablo Diego Jose Francisco de Paula Juan Nepomuceno Maria de los Remedios Cipriano de la Santisima Trinidad Ruiz y Picasso si sviluppa, in oltre 80 anni e in circa 50mila opere, per lo più in Francia, sua seconda patria (National Geographic, Sky, 403, giovedì, ore 20,55).
Picasso (Malaga 1881 - Mougins 1973) è stato uno dei più grandi artisti del Novecento, uno dei più influenti pittori di tutta la storia dell’arte.
Ha attraversato le avanguardie e influenzato generazioni di pittori, vissuto una vita romanzesca, al centro di amori e passioni, liti e polemiche. La fiction racconta la sua storia, da «bambino prodigio» a giovane cosciente delle sue capacità, da artista bohémien nella Parigi di inizio secolo, a creatore dei sui più celebri capolavori, come Guernica (non piaceva a Buñuel che la considerava «una pitturaccia»), passando per il periodo «blu» e «rosa». E poi i suoi molti amori: Picasso è famoso anche per le sue avventure sentimentali. A parte le relazioni più o meno «stabili» con la ballerina Olga Chochlova, con la giovanissima Marie-Thérèse Walter o con la fotografa Dora Maar e la studentessa Françoise Gilot, ebbe molte amanti, tra cui nobildonne italiane.
L’aspetto più interessante di Genius è la vocazione pedagogica, a dimostrazione di come alcuni attorie e registi americani (Spielberg, Hanks, Howard…) non pensino soltanto ai film di successo, ma dedichino parte della loro attività a racconti della storia americana e universale. A ben pensarci è la lezione di Roberto Rossellini, quando con mezzi più artigianali tentava di trasformare la tv in enciclopedia: Socrate, Cartesio, L’età del ferro, La prise de pouvoir del Louis XIV…

Repubblica 11.5.18
Picasso e la passione geniale che cambiò il mondo
di Antonio Dipollina


Antonio Banderas scuote la bianca frangia laterale — o qualcosa di simile — ed è subito Pablo Picasso, malagueño come lui, mentre intorno il mondo ribolle di guerre nonché di miraggi parigini e surrealisti e voglia di cambiarlo, il mondo medesimo. Siamo alla seconda stagione della serie tv Genius (National Geographic il giovedì alle 20.55), prodotta tra gli altri da Ron Howard: questo Picasso sembra però partire molto meno sulfureo dell’Einstein della prima stagione — colto nelle passioni magari inattese per il pubblico: mentre di Picasso si sa, rivoluzionario e passionale libero, e via con doppie femmine in parallelo e giovinette compagne di vita. In certi momenti siamo in zona-santino come per certe fiction nostrane, ma il punto è che una storia così splendente si scrive da sola, bisogna solo dividere le fasi di Picasso, i periodi insomma, con attori di varia età. Finché, in frenetico alternarsi tra le epoche, arriva Banderas a ereditare la Guernica bombardata e l’opera che nasce live, sconvolge il mondo e fa impazzire di rabbia i nazisti. Dentro un discreto racconto di quella passione geniale che il mondo, in qualche modo, alla fine lo cambierà davvero.