venerdì 7 luglio 2017

SULLA STAMPA DI VENERDI 7 LUGLIO


La Stampa 7.7.17
“Meglio le bambole e i fumetti”
Così i giapponesi dicono addio al sesso
Aumentano i giovani che non hanno rapporti. Astinenza anche nelle coppie
di Carlo Pizzati

Un cinquantenne sorridente gironzola al terzo piano di un palazzo nel quartiere di Akihabara, capitale mondiale degli anime. Sta cercando qualcosa nel baccano di video-giochi e sigle di cartoni animati giapponesi. Infila una monetina in un distributore dove un braccio a gru agguanta un cuscino con stampata sopra una pre-adolescente in gonnellina, la diva di un manga. Se ne esce abbracciando felice il suo strumento onanistico. Questa è l’immagine che meglio condensa una serie di problemi che colpiscono il Giappone iniziando dalla crisi del sesso per finire nei rischi della decrescita del prodotto interno lordo e la possibile bancarotta del sistema pensionistico.
Secondo le ultime statistiche, infatti, le complicazioni della libido di un numero sempre crescente di giapponesi si stanno addensando in una tempesta perfetta. Ecco gli elementi. Primo, sta crescendo a dismisura la percentuale di vergini quasi quarantenni. Poi, le coppie sposate tra i 35 e i 50 anni hanno pochissimi amplessi. E intanto spopolano le waifu, mogli virtuali di quei reclusi digitali degli otaku che vivono incollati allo schermo nelle loro stanzette. Tanto che un economista ha proposto persino una «tassa sui belli» per far pagare a chi è bello un’imposta e rendere i nerd almeno più attraenti economicamente. Aumentano anche le storie di mariti che convivono (spesso in triangolo con mogli disgustate) assieme a silenziosi manichini, mentre le donne in carriera che lavorano dopo aver fatto figli sono chiamate «mogli diavole» dai tanti maschilisti, spingendo il 70 per cento delle neo-mamme a non tornare al lavoro.
La liceale
Nell’immaginario di un numero crescente di maschi solo il simulacro manga della liceale è in grado di regalare felicità. È unicamente nei ricordi adolescenziali che tanti salary men stressati da ufficio e famiglia trovano un lembo di felicità. Vediamo i dati che corroborano questo scenario da «strano Giappone» attenendoci ai fatti e non agli stereotipi culturali. La «sekkusu shinai shokogun» o «sindrome del celibato» esiste davvero. Le statistiche dell’Istituto per la ricerca su Società e Popolazione confermano che il 70% dei celibi e il 60 delle nubili tra i 18 e i 34 anni non ha relazioni. E il 42% dei maschi e il 44,2 delle femmine ammettono di essere ancora vergini.
Tra gli adulti non va molto meglio. Solo un terzo delle coppie sposate ha un rapporto sessuale una volta la settimana. Infatti, secondo uno sondaggio dell’associazione per la pianificazione familiare, la metà degli intervistati tra i 16 e i 49 anni non ha fatto l’amore nell’ultimo mese, con un aumento del 5 per cento in confronto a due anni fa.
Perché il Giappone non vuol più fare sesso? Gli intervistati rispondono: per la sfinimento dopo il lavoro, certo, ma anche per evitare le complicazioni emotive nel rapporto con un altro essere umano. Per il 23 per cento delle donne sposate il sesso «è una scocciatura» mentre per quasi il 18 per cento dei maschi l’interesse per il sesso con una donna è da «poco» a «davvero molto poco.» Meglio i manichini o i fumetti. E a breve i robot.
Gli esperti parlano di una fuga dall’intimità in un’economia molto sviluppata, ma con grande diseguaglianza di genere. Tre anni fa il Giappone ha raggiunto il punto più basso di crescita demografica. Se continua così, entro 50 anni il Paese potrebbe scendere da 120 a 87 milioni di abitanti.
Pannolini e pannolone
Questo arcipelago montagnoso è sovrappopolato. Ma il problema è che la piramide pensionistica, fino a vent’anni fa composta da una popolazione giovane che manteneva meno anziani, ora è invertita. Il Giappone è il Paese con la percentuale più alta di anziani al mondo. La vendita di pannoloni per incontinenti anziani ha battuto quella di pannolini per neonati. Gli omicidi, le rapine e i furti commessi da anziani sono aumentati del cinquemila per cento in 20 anni: i carcerati oltre i 65 anni sono il 20 per cento, altro record mondiale.
In una nazione dove metà giovani non vuole far sesso e sempre più anziani si danno al crimine, se la crescita economica continua a stagnare e il rapporto debito/Pil non migliora, i giapponesi non riusciranno più a far fronte al deficit.
Così non resta che fare di più l’amore. Che uno dei passatempi più piacevoli al mondo possa essere la soluzione? E allora, più sesso per tutti, per salvare il Giappone.

La Stampa 7.7.17
Dimenticata a un anno in auto dalla mamma

Una bambina di un anno è stata dimenticata in auto dalla madre, ieri mattina vicino alla fermata della metropolitana Bisceglie, a Milano. Ad accorgersene, l’addetto dell’Atm al parcheggio esterno della metro che ha chiamato la polizia. L’agente giunto sul posto ha rotto il vetro con un estintore, portando in salvo la piccola, che sarebbe rimasta chiusa dentro l’auto per un’ora ma ha subìto un forte trauma per l’alta temperatura che si era creata nell’abitacolo. È stata portata all’ospedale San Carlo ma non è in pericolo di vita.
La madre, 38 anni, l’avrebbe dimenticata dentro e poi sarebbe scesa per prendere la metropolitana e andare a lavoro. Si tratterebbe di un episodio dovuto alla sindrome da «Burn out», vale a dire uno stress eccessivo che provoca degli improvvisi vuoti di memoria. La donna avrebbe, infatti, raccontato di aver rimosso gli attimi precedenti alla sua discesa dall’auto per andare a prendere la metropolitana e recarsi al lavoro e di essersi completamente dimenticata che la figlia era insieme a lei nell’abitacolo. Raggiunta dalla notizia proprio sul luogo di lavoro, è rimasta scioccata. Anche lei è stata portata al San Carlo, dove era già arrivata la bimba, e ricoverata. Sotto choc anche il padre.

il manifesto 7.7.17
Stefano Rodotà, l’urgenza del conflitto
Il ricordo. Ritratto del grande giurista da poco scomparso e la storia della Rivista critica del diritto privato: "Non aveva intenzione di celare il conflitto in corso o tentare di sminuirlo. Ma rifuggiva anche dalla retorica e da toni da comizio"
Stefano Rodotà
Maria Rosaria Marella
Edizione del
07.07.2017
Pubblicato
6.7.2017, 23:59
La prima volta che vidi Stefano Rodotà di persona fu nel 1978 in un’aula universitaria, un’aula in cui si svolgeva un’assemblea di studenti in agitazione. Lui, allora non ancora deputato della Sinistra indipendente, era l’unico docente che avesse accettato di partecipare all’assemblea. E non era, la sua, una presenza di comodo. Al contrario quel giorno, come gli altri in cui fu presente in assemblea, discusse a fondo le questioni all’ordine del giorno senza aver timore di mostrare da che parte stava, e senza alcuna intenzione di celare il conflitto in corso o tentare di sminuirlo. Ma anche senza retorica e toni da comizio, da applauso facile.
Un altro ricordo indelebile risale ad un giorno di inizio estate del 1983 quando, fresca di laurea, partecipai ad una riunione redazionale della neonata “Rivista critica del diritto privato”, di cui era appena uscito il secondo numero, su cui avevo pubblicato anch’io qualcosa. Arrivai in ritardo come al solito. Rodotà era in fondo alla sala, discuteva con altri giuristi suoi coetanei, cofondatori della Rivista. Mi vide e si alzò per venirmi incontro e stringermi la mano. Un semplice gesto di educazione, apparentemente normale. E invece assolutamente sbalorditivo in un ambiente profondamente segnato da gerarchie ferree seppure non formalizzate, come l’accademia italiana di allora, in cui neolaureate e neolaureati, i c.d. assistenti volontari, erano per lo più trasparenti. Nel senso che l’ordinario che incrociavi nel corridoio dell’Istituto di norma neppure ti vedeva, sembrava guardare attraverso di te come fossi di vetro. Figurarsi salutarti poi!
Ecco, Stefano Rodotà era così. Mai accomodante davanti all’urgenza del conflitto. E mai incline alle soluzioni facili, ad effetto. Gentile, ma non per amore della forma, piuttosto perché profondamente rispettoso di tutti e di ognuna, noncurante delle gerarchie, democratico. E questa è stata la cifra del suo rapporto con gli studenti, in aula e fuori, così come con i giovani studiosi che venivano a parlargli da tutta Italia. Mi sono sempre chiesta come si vivesse a casa Rodotà, immaginando il telefono squillare di continuo. Allora, in epoca pre-telefonia mobile, lui dava il suo numero di casa a tutti: “Ma certo mi chiami!”, “Non la disturbo?”, “Ma ci mancherebbe!”. E lì sorriso inconfondibile, stretta di mano, e l’abituale dileguarsi a passi tanto veloci che ti giravi e già non c’era più. Magico!
Nel 1992 – e fino al 1997, anno in cui fu chiamato a presiedere il Garante della privacy – inaugurò l’abitudine di riunire periodicamente la redazione romana della Rivista critica nell’Istituto di diritto privato della Sapienza per discutere dei temi che ci sembravano più urgenti. È stato allora che abbiamo affrontato il tema del rapporto fra principio d’uguaglianza e differenze, la questione della differenza sessuale in primo luogo; poi i problemi che le migrazioni ponevano sul terreno del diritto privato, e le questioni legate al governo del corpo, dallo statuto giuridico delle cellule umane alla maternità surrogata. Tutti temi ancora fortemente presenti nel dibattito pubblico, che con Rodotà venivano messi al centro dell’interesse del civilista con molti anni d’anticipo. Fu, quella, un’impresa realmente collettiva di produzione di conoscenza e un’esperienza formativa irripetibile. Alcuni di quei temi furono poi affrontati compiutamente in “Tecnologie e diritti” che divenne libro di testo del corso civile dell’anno accademico 1994/95.
Naturalmente l’eterodossia insita nella scelta di argomenti simili per un corso della facoltà di giurisprudenza incontrava la diffidenza di più d’un collega ed è capitato di sentirsi chiedere con sarcasmo “Ma che fate agli esami da Rodotà, parlate di sperma?”. Se questo atteggiamento di fondo fosse stato meno diffuso, se ancora oggi i giuristi fossero meno intenti a proteggere il loro orticello e più disponibili a coniugare il diritto con la materialità della vita, come Rodotà ha indicato a partire dalla selezione dei temi ritenuti degni della propria attenzione, essi sarebbero certamente più utili alla società di quanto nel complesso non riescano ad essere.
In effetti, Rodotà ha insegnato moltissimo a tanti ma non è mai diventato mainstream. Anche perché le competizioni narcisistiche fra accademici non lo hanno mai interessato ed era certamente alieno dall’autocelebrarsi attraverso la centralità delle proprie acquisizioni scientifiche, che pure sono state davvero seminali. Una volta dissodato un terreno, aperto una prospettiva che immancabilmente avrebbe segnato una svolta, era immediatamente attratto dall’urgenza di un altro tema, desideroso di esplorare un nuovo orizzonte con la capacità profetica, che gli era propria, di intuirne le implicazioni future per la società e per il diritto.
Questa particolarissima sensibilità è ciò che più di ogni altra cosa, credo, ha reso unica l’esperienza di chi ha avuto il privilegio di fare con lui lavoro di ricerca. Una preveggenza, una lungimiranza che è difficile riconoscere in alcuno dei giuristi delle generazioni a seguire. E che in definitiva è la ragione principale di una sensazione irredimibile di spaesamento nel vuoto assurdo e incolmabile che la sua scomparsa lascia.

il manifesto 7.7.17
Pietro Ingrao: poesia atto cognitivo
di Alberto Olivetti

«Nella mia esperienza, poesia è un atto cognitivo: conoscenza. Dunque un elemento attivo. Né una pausa, né un ripiegamento». Così Pietro Ingrao su «Alfazeta» nel dicembre del 1992. Un convincimento che aveva avuto modo di argomentare pubblicando Il dubbio dei vincitori, nel 1986, chiarito da una attenzione costante a segnare il margine che distingue il comporre poetico e l’agire politico.
Nel giugno del 1991, «credo, sostiene Ingrao, a una nuova forte attualità del linguaggio poetico proprio su due aspetti della modernità:a) la crisi di visioni unidimensionali della vita e del tempo. Oggi parliamo molto di complessità e di una vita pluriversa; b) la spinta a subordinare, ad adattare la creatività emotiva del vivente a l’agire strumentale, a la razionalità calcolistica. Da qui una nuova attualità del linguaggio poetico per riscoprire la densità del vivente».
Densità che si credeva possibile affermare grazie al movimento di soppressione dei rapporti capitalistici di produzione ad opera della classe operaia. Densità del vivente finalmente liberata. Quello che il giovane Marx indicava come l’umano proprio della ‘proprietà privata soppressa’: il peculiare, il personale.
Il sigillo, diciamo, di ciascuna individualità che è dire il molteplice, il differente, il discreto, il diverso. Scriveva Marx, nei Manoscritti economico-filosofici del 1844: «ogni tuo rapporto con gli uomini – e con la natura – dev’essere una espressione determinata, corrispondente all’oggetto da te voluto, della tua reale vita individuale».
A Madrid, il 6 giugno 1991, nella lezione Un’analisi del presente tenuta presso l’Università, Ingrao svolge, tra l’altro, queste considerazioni: «lo stacco tra tempo di lavoro e tempo di vita si accentua e si complica. La nozione stessa di tempo cambia: diventa – com’è stato detto – puntiforme; e si attenua perciò la trasmissione della memoria storica e quindi del rapporto passato-futuro. La tensione stessa verso il futuro si indebolisce, a causa della difficoltà di afferrare tutte le dimensioni del presente. Insieme con la dimensione del tempo, stanno mutando momenti vitali. Basta pensare alla sfera della sessualità e del corpo. Al rilievo che ha assunto in una lettura diversa del mondo, con la cultura e pratica femminista della differenza sessuale.
Tutto ciò mette in discussione, non solo in teoria, ma nella pratica, la cultura della ‘centralità operaia’ o, se vogliamo andare fino in fondo, mette in discussione la centralità del produrre, del lavorare, che è stata così tipica del mondo operaio e contadino».
Questa analisi comporta rilevanti conseguenze che è bene assumere nella loro radicalità. Una investe direttamente le forme dell’agire collettivo. Agire politico, agire collettivo. Ingrao ricorre a questi termini per rappresentare una complessa interazione organizzata intesa alla trasformazione dei rapporti sociali dominanti. Nel processo delle sue stesse articolazioni intervengono e contano soggetti diversi e istituzioni. Le regole duttili della democrazia partecipata e l’invenzione di forme nuove corrispondenti a nuovi rapporti, alle inedite interrelazioni che attraversano il corpo della società. Ingrao avverte la «crisi radicale delle vecchie forme dell’agire collettivo.
La difficoltà vera delle vie ed esperienze democratiche esplorate in Occidente ha radici in questo nodo». Da qui una esigenza urgente che reimposti i fondamenti dell’agire politico per «dare nuova base alla libertà possibile degli esseri umani».
È in questo contesto che l’atto cognitivo della poesia assume un ruolo essenziale, si presenta e si impone come un elemento attivo. Allora, «cognizione poetica assorbente ed esclusiva?», si chiede Ingrao. Niente affatto. La poesia nomina «i campi lesi dalla riduzione del vivente a quantità», ma va perseguita una «pluralità delle angolazioni cognitive necessarie per l’ampiezza di relazioni col reale».
Nel settembre del 1991 dichiara a «Leggere»: «senza dubbio il mio comunismo è cambiato moltissimo. Il modo in cui vedevo, sia la teoria comunista che la strategia comunista di liberazione delle masse oppresse; il modo stesso in cui vedevo quel mondo che si chiamava comunista è molto, molto diverso dall’idea che è venuta in seguito».

La Stampa 7.7.17
Minoranza dem maltrattata
Ma il ribaltone non è possibile
di Marcello Sorgi

Alla direzione del Pd in cui si doveva discutere del magro risultato elettorale del centrosinistra nel primo appuntamento con le urne dopo il congresso, Renzi ha maltrattato la minoranza capeggiata dal ministro di Giustizia Orlando e ha avuto parole dure anche per quello della Cultura Franceschini, formalmente, ma solo formalmente ormai, suo principale alleato congressuale, ma di fatto collocatosi a metà tra maggioranza e minoranza.
Se esistessero ancora i partiti e se il Pd non fosse ormai una sorta di comitato elettorale renziano, si sarebbe potuto dire che dopo la sconfitta dell’11 giugno, si stanno creando le condizioni per un ribaltone della segreteria. Ma non è così. Sia nella relazione che nella replica (quest’ultima molto più dura) Renzi ha ricordato a tutti che è stato appena eletto in una tornata di primarie a cui hanno partecipato quasi due milioni di elettori: ed è a loro, non ai capicorrente, che il segretario intende rispondere, mobilitandoli personalmente per la nuova campagna elettorale, e soprattutto scegliendosi i candidati al di fuori della spartizione percentuale adoperata le volte precedenti, e a mala pena mascherata l’ultima volta con una finta tornata di “parlamentarie”.
Quanto alle alleanze, all’Ulivo e all’Unione, che in verità sono stati evocati come spettri anche da quelli che li considerano ancora una prospettiva possibile, Renzi, ormai proiettato in una logica proporzionale, ragiona solo in termini di Pd, farà la campagna per il Pd, è convinto che il Pd alle politiche possa rimontare, e i conti veri vuol farli solo alla fine. Non perché tenga nascosta la carta di un nuovo accordo di governo con Berlusconi, che ha esplicitamente smentito, ma perché punta a far arrivare primo il suo partito per poter dare le carte dopo il voto.
Pur condiviso dalla maggioranza renziana blindata della direzione (e Franceschini, benché in dissenso, ha evitato di contarsi e ha votato insieme ai suoi la relazione), un programma del genere spaventa. Anche nelle file renziane, insomma, ci si chiede cosa succederebbe se la presa elettorale di Renzi, com’è già accaduto dal referendum costituzionale in poi, dovesse rivelarsi meno forte del previsto e, dopo essersi tagliato tutti i ponti alle spalle, il Pd si ritrovasse all’indomani delle elezioni senza un piano B e soprattutto con la concreta possibilità di finire all’opposizione, in mancanza di alleanze e in presenza di un centrodestra tornato in buona salute. Per questo, la direzione di ieri, come tutte quelle da tre anni a questa parte, avrà sicuramente un secondo tempo.

il manifesto 7.7.17
Una leadership sotto attacco nel Pd, divisiva tra gli elettori
Renzismo. Per non accontentarsi di cavalcarne la crisi, alle forze della sinistra plurale serve costruire un'apertura programmatica capace di invertire la rotta
di Michele Prospero

La liquidazione della leadership di Renzi è la condizione indispensabile, ma certo non sufficiente, per una ripresa delle manovre a sinistra. Regalarlo all’oblio, e affidare il Pd assai ridimensionato a una conduzione meno provocatoria, sarebbe già un piccolo annuncio di inversione di tendenza.
È vero che i problemi di fondo della democrazia italiana non sono riconducibili alle scelleratezze di una singola persona. Anche chi ama dipingersi come un uomo solo al comando e, nel suo delirio per il partito personale, manomette la Costituzione e combatte i diritti del lavoro, in realtà non scatena effetti di sistema con la sua pura volontà di arbitrio.
Contano sempre i rapporti di forza e le potenze sociali di cui una leadership è comunque espressione. E però rinunciare al forte impatto divisivo che la figura di Renzi esercita nella società non sarebbe ragionevole. Il popolo non sta con Renzi. È caduto “in odio all’universale” direbbe Machiavelli. E, fino a quando lui sarà al centro della contesa, i molti non aspetteranno altro che una qualsiasi arma politica per percuoterlo a reiterazione negandogli il consenso.
Non ci sono effettive possibilità di invertire il ciclo negativo con le trovate di un marketing ormai ripetitivo e con slogan fastidiosi come un ronzio testardo. Il meccanismo simbolico che la sua riapparizione ha scatenato rinvia al duello tra un capo irridente e un popolo che si sente beffato nei suoi pronunciamenti. Eppure un plebiscito non lascia libertà ermeneutica alcuna. Un politico appena savio dovrebbe scongiurare questa estrema polarizzazione tra l’alto e il basso, il capo e il popolo. Renzi invece accetta una corsa al massacro che trasforma un politico che veste il linguaggio del comico in uno sconfitto ad oltranza che per cocciutaggine infantile volge al martirio.
Poiché è difficile che una tardiva congiura possa sortire effetti liberatori, allontanandolo dal Nazareno dopo la sceneggiata dell’incoronazione avuta da un simulacro di partito, non resta che attendere lo schianto delle elezioni. Per motivi del tutto obiettivi, l’antirenzismo è uno dei collanti per abbozzare una alternativa al potere che ha aggredito lavoro, costituzione, scuola. Non è sufficiente l’immagine del nemico, ma intanto l’avversione radicale verso un leader non più tollerato è una cosa che si annusa nell’aria e impolitico sarebbe rinunciarvi. Occorrerebbe anche dell’altro, ma non esiste ancora una sinistra credibile e pronta per imbastire una alternativa progettuale.
Le sue difficoltà sono la sedimentazione di 25 anni di storia repubblicana non ripensati criticamente e quindi oltrepassati per davvero, senza camuffamenti strumentali. La rivendicazione del bilancio positivo di quanto realizzato dal centro sinistra nei suoi anni di governo è di sicuro legittima. Ma la puntigliosa difesa di un ceto politico che si è mantenuto lontano dalla corruzione, ha raggiunto un certo prestigio in Europa e ha anche mostrato una capacità di gestione della macchina dell’amministrazione, non dovrebbe occultare l’impatto strategico, nel complesso negativo, che nel lungo periodo ha esercitato la contagiosa metamorfosi culturale della sinistra Dc che, già negli anni ’80, si convertì alla venerazione del liberismo, dell’efficienza.
Da una tradizionale predilezione statalista (industria pubblica, politiche industriali, partecipazioni statali), la sinistra Dc, anche in competizione con il Psi, passò alla rivendicazione delle virtù dell’efficienza degli ingranaggi del libero mercato. In questo impeto contro lo Stato imprenditore, essa si incontrò con l’innamoramento della sinistra postcomunista per il nuovo verbo blariano che cantava l’elogio della concorrenza, delle privatizzazioni, dello Stato regolatore e non gestore. Molte scelte furono obbligate per una tradizione annichilita e spaesata dopo la sconfitta dell’Ottobre. E però una valutazione complessiva andrebbe ormai abbozzata per tentare un’operazione nel segno della discontinuità come quella di Corbyn.
Se dopo 25 anni l’Italia non cresce, la sua economia conserva gli stessi elementi di fragilità strutturale, con il riemergere di pesanti differenziazioni territoriali e con livelli insostenibili di disoccupazione e di esclusione sociale, ciò chiama in causa qualcosa di permanente, cioè l’abbandono dei canoni dell’antico governo pubblico dell’economia. Il maltrattamento dell’economia mista, l’esaltazione del vincolo esterno come irripetibile occasione di un recupero di competitività contro i lacci e lacciuoli dello Stato sociale, ha estirpato, con le degenerazioni e gli elementi di improduttività, con le sacche di corruzione e di inefficienza, anche le condizioni pubbliche a garanzia della crescita, dell’innovazione, degli investimenti produttivi, dell’occupazione, della redistribuzione.
Su questi punti di sofferenza epocale o declino è opportuno insistere criticamente non per imbastire affrettati processi sulle colpe delle classi dirigenti ma per immunizzarsi definitivamente da una cultura di governo che ha fallito nella sua idea di modernizzazione e indotto alla marginalizzazione sociale, alla perifericità dell’Italia nell’economia-mondo. Non per cercare capri espiatori ma per riproporsi come reali forze di alternativa, cioè come punto di riferimento in un tempo di crisi sociale cronicizzata, la sinistra dovrebbe ripensare le sue categorie, per definire un progetto nuovo che parli alle sofferenze ed esclusioni odierne.
Se questa apertura programmatica manca, alla sinistra plurale non resta che accontentarsi dell’antirenzismo. È unilaterale e rozzo il desiderio di abbattere la statua di un capo odiato che non se ne va, ma questa picconata a un’icona ostile sprigiona pur sempre un elemento di mobilitazione. Antirenzismo, allora? Sì, solo se serve per prendere tempo e lavorare a un progetto politico che non può cavarsela con una riedizione di un antico centro-sinistra.


La Stampa 7.7.17
Renzi-Franceschini, lite sulle alleanze
Il segretario in direzione: ognuno vada dove vuole andare. Orlando non vota la relazione
di Andrea Carugati

Altro che tregua estiva. Matteo Renzi delude pontieri e mediatori e chiudendo la direzione Pd lancia una sorta di ultimatum a Franceschini e Orlando, i due big che hanno contestato la sua linea chiedendo una coalizione di centrosinistra. «Ognuno vada dove vuole andare», attacca Renzi, citando una canzone di Guccini, “Quattro stracci”, in cui il cantautore racconta la rabbia di un amore finito.
Aprendo i lavori della prima direzione senza diretta streaming da alcuni anni, Renzi aveva mantenuto ferma la linea: «Parliamo di contenuti, non di alleanze, non rispondo ai capicorrente», rilanciando l’idea di porre il veto sul fiscal compact nei trattati Ue.
Franceschini ha ricordato i magri risultati delle liste dem alle ultime comunali, citando il 13% di Padova (dove pure hanno vinto). E ha incalzato: «Chi ti ha scelto come segretario non ha rinunciato al pensiero e alla parola. Senza le alleanze non si vince». E ancora, riprendendo lo sfottò del segretario ai pochi che si ostinano a parlare di coalizioni: «Io sono tra i 350 residuati bellici che pensa si debba parlare di alleanze e legge elettorale. E che occorra partire dal centrosinistra. Un segretario ascolta chi la pensa in modo diverso senza vedervi dietro un tradimento o un complotto». Orlando è più sfumato nei toni, ma sulla stessa linea. Ricorda che il voto amministrativo ha un «valore nazionale» e che le «sconfitte più cocenti sono arrivate nelle zone di tradizionale insediamento della sinistra».
«Non sono nostalgico dell’Unione ma Pisapia non è Ferrero», ha insistito il Guardasigilli. «Dobbiamo aiutare Pisapia e tutte le forze del centrosinistra non hanno impostato la linea sull’antirenzismo. E non si può additare chiunque sollevi una questione come quello che vuole far perdere il Pd». Infine una stoccata sulla gestione del giornale l’Unità: «Non vogliamo più sapere a cose fatte che si decide di chiudere un quotidiano e di aprirne un altro».
Nella replica Renzi strapazza i suoi critici. «Orlando vuole aiutare Pisapia? Io voglio aiutare il Pd», attacca il segretario. E al ministro della Cultura dice: «Sostieni che bisogna discutere di alleanze nelle sedi di partito? C’è da chiedersi se “Repubblica” sia una sede di partito». Poi usa l’ironia: «Condivido tutto quello che ha detto Dario. Aggiungerei che non ci sono più le mezze stagioni...».
Renzi chiama ancora una volta il partito a fare quadrato intorno a sé: «Non vivo le critiche come un tradimento, ma oggi ci attaccano perché siamo la diga contro i populismi. E attenzione a non dare una mano a chi ci attacca». Il segretario ribadisce il no a una legge che permetta le coalizioni: «Un regalo al centrodestra. Non passerò i prossimi mesi a parlare di questo, voglio parlare all’Italia con un’agenda chiara». E il rapporto tra Pd e Forza Italia «non esiste».
Alla fine le minoranze di Andrea Orlando e Michele Emiliano non partecipano al voto. La relazione di Renzi viene approvata all’unanimità, con il sì anche di Franceschini.

Il Fatto 7.7.17
Franceschini-Catilina: via Renzi se salta la Sicilia
Il ministro e Orlando in Direzione contro il segretario. E preparano la congiura
di Wanda Marra

“La solitudine”. Citava Laura Pausini ieri pomeriggio un membro della direzione del Pd per sintetizzare lo stato del segretario nella prima direzione dell’era Renzi senza streaming. Una scelta motivata dal fatto che l’ex premier non ha più voglia di esibire davanti al Paese né le liti interne (che pure ieri non sono mancate), né le discussioni sulle alleanze (che “interessano a 3 o 300 persone”, come ha detto pure ieri). Di certo, non era neanche il caso di mostrare sia l’assenza di una strategia definita, sia il suo essere isolato nel partito. Tanto più con le voci che si rincorrono sempre più insistenti. Da settimane. I big del Pd, in primis Dario Franceschini e Andrea Orlando, starebbero preparando il cosiddetto “biscotto” all’ex premier, nel caso perda le elezioni in Sicilia, il 5 novembre.
Sconfitta talmente annunciata e senza una candidatura definita, dopo il rifiuto del presidente del Senato, Grasso, che era uno dei motivi per cui Renzi avrebbe voluto le politiche prima. E Se perde la Sicilia, il piano è costringere Renzi a dimettersi. Ci sarebbe già pronto persino il reggente: lo stesso Franceschini. I numeri ci sono? Sulla carta no, visto che il segretario ha portato in Assemblea abbastanza fedelissimi, da avere la maggioranza da solo. Ma quando un leader si indebolisce, le discese dal carro sono veloci e di massa. Ci sarebbe anche un manipolo di renziani insospettabili, pronti a mollarlo. È da quando sono state indette le primarie che pure gli alleati raccontavano: “Perde le Amministrative, poi perde le Politiche, ed è finito”. Le Politiche sono in là, le Amministrative le ha perse, la prossima tappa è la Sicilia. E poi? Chissà. “Intanto ci stringiamo a Gentiloni”, altro commento classico. Il quale, tra l’altro, ieri era presente. Renzi intervenendo rimane sulle sue posizioni: “In due milioni hanno votato alle primarie. Sia chiaro, io rispondo a loro, non ai capicorrente”. Ancora: “Sono interessato a portare il Pd in alto. Non mi interessa cosa farete voi nella prossima legislatura”.
Alla luce del clima, sembra quasi l’ennesima sfida a disarcionarlo. Sulle alleanze: “Parliamo di contenuti, invece”. E infatti ha ribadito l’intenzione di approvare lo ius soli. Fermi sulle loro posizioni anche gli altri. Molto duro Franceschini, che dalla settimana scorsa è passato ufficialmente all’attacco frontale: “Io sono tra i 350 residuati bellici che pensano che ci sia anche il tema delle alleanze. Il Pd da solo non vince, servono le alleanze”. E Orlando: “Dobbiamo aiutare Pisapia e tutte le forze che nel centrosinistra non hanno impostato la linea sull’antirenzismo”.
Il segretario nella replica tira diritto: “Capisco che Orlando voglia aiutare Pisapia ma io voglio aiutare il Pd. Una coalizione spuria è un regalo al centrodestra”. In disaccordo pure con Franceschini: “Non mi pare che sia una sede di partito”, ironizza, accusandolo di aver scelto un’intervista per la discussione a un quotidiano che – peraltro – sta tirando la volata a Pisapia. Alla fine, si vota la relazione. Il ministro della Cultura dice sì. Magari per l’ultima volta. Le minoranze di Orlando e Emiliano (che però è assente) non partecipano. “La relazione e le conclusioni non sono soddisfacenti”, rincara l’orlandiano Martella. Il segretario è pronto a girare l’Italia in treno per 10 mesi. Si va “Avanti”, dal titolo del suo libro in uscita. Verso un Pd senza Renzi. O forse verso una versione del Pd dove resta solo Renzi? La (sua) citazione di Guccini sembra quasi un invito a prendere la porta a nemici e oppositori: “Ognuno vada dove vuole andare, ognuno invecchi come gli pare”

La Stampa 7.7.17
La linea dura di Matteo contro i nemici
di Federico Geremicca

Tirare dritto e andare avanti, sempre avanti e soltanto avanti. In ossequio alla linea preferita - o all’unica che pare in grado di gestire - Matteo Renzi ha assestato ieri in Direzione un altro bel paio di bastonate ad Andrea Orlando ed a Dario Franceschini - oppositore di nuovo conio - allungando ulteriormente la lista di quanti si sono o si stanno rapidamente allontanando da lui.
È una lista ormai corposa, e mette assieme - con sfumature diverse - quello che si può considerare lo stato maggiore dell’ex centrosinistra (o Ulivo o Unione, giusto per capirsi). D’Alema e Prodi, Veltroni e Bindi, Pisapia e Bersani, Speranza e Letta, poi Orlando, Epifani, Franceschini, Cofferati e via elencando. Molti nemici, molto onore è un modo - discutibile, secondo chi scrive - di intendere la politica e la vita: soprattutto quando i nemici diventano troppi e cominciano a far fronte comune con chi, in origine, nemico non era.
La nuova linea di demarcazione - ieri lo erano stati il profilo di alcune riforme o il referendum costituzionale - stavolta è il tema delle alleanze: presentarsi al voto politico della prossima primavera da soli o in coalizione? E di conseguenza: su quale modello di legge elettorale puntare? In fondo, nulla di cui si debba discutere necessariamente con il coltello tra i denti o denunciando il reato di lesa maestà.
E invece, per dire, Orlando si è sentito accusare - più o meno - di tradimento («Tu vuoi aiutare Pisapia, io voglio aiutare il Pd») e Franceschini di scorrettezza e slealtà, avendo avanzato le sue critiche in un’intervista piuttosto che negli organismi di partito. Ieri il ministro della Cultura lo ha fatto anche in Direzione, ma non è che sia andata granché meglio: io rispondo ai due milioni di cittadini che hanno votato alle primarie - gli ha replicato Matteo Renzi - non certo a caminetti e capicorrente.
Il clima nel Pd, insomma, è di nuovo arroventato: e la sensazione è che nemmeno la fresca vittoria alle primarie abbia restituito al segretario la forza e la serenità per affrontare discussioni che dovrebbero essere pane quotidiano in qualsiasi partito. Può essere che Renzi sia influenzato da quel che vede accadere nelle forze dirimpettaie, dove Berlusconi, Salvini e Grillo fanno e disfanno a proprio piacimento: eppure, l’esperienza maturata a Largo del Nazareno dovrebbe avergli fatto intendere che nel Pd un tale modo di fare è assai difficile - forse impossibile - da praticare (pena abbandoni personali, scissioni di gruppo e guerriglia quotidiana).
E il clima interno non dovrebbe essere l’unico elemento a preoccupare i militanti, elettori e simpatizzanti del Pd: c’è anche la rotta verso le elezioni scelta da Renzi che sembra, al momento, rischiosa e poco convincente. L’elemento di possibile rischio non è solo nella decisione - che pare ormai presa - di «andare da soli»: è anche la filosofia di fondo (la linea, si sarebbe detto un tempo) a lasciare perplessi.
Stando ai discorsi ed agli scritti del segretario, la campagna elettorale del Pd dovrebbe infatti muoversi lungo due direttrici fondamentali: il no ai populismi (con annessi e connessi) e la puntigliosa rivendicazione delle riforme e dell’operato del suo governo. Eppure, l’abbozzo di discussione avviato dopo la sconfitta al referendum del 4 dicembre, metteva al centro - a giudizio unanime - questo elemento: molti cittadini non hanno votato contro la riforma costituzionale, ma contro Renzi, la sua personalizzazione e Il suo governo.
In sostanza: quell’occasione fu colta per protestare contro il Jobs Act, la scarsa crescita economica, l’Imu tolta anche ai ricchi, l’insostenibile immigrazione e via dicendo. E allora delle due l’una: o era sbagliata quell’analisi o è cosa simile ad un suicidio pensare di andare al voto esaltando proprio quei risultati di governo bocciati dalla maggioranza degli italiani. Le due cose assieme, insomma, non possono stare. Il tempo per correggere quel che eventualmente va corretto, c’è. Non farlo potrebbe rivelarsi, alla fine, un errore esiziale.

Repubblica 7.7.17
Pd, duello Renzi-Franceschini “Alleanze? Io parlo ai cittadini” “Ma se restiamo soli perdiamo”
Scontro in direzione. Il leader: “Andate dove volete, non rispondo ai capicorrente”. A Orlando: “Io voglio aiutare noi, non Pisapia”
di Giovanna Casadio

ROMA.«Dario ha detto cose che condivido tutte, tutti i leader del centrosinistra hanno governato con maggioranze spurie, ci aggiungerei che non ci sono più le mezze stagioni…». Matteo Renzi ironizza sui consigli di Dario Franceschini a proposito di alleanze e centrosinistra. Preceduta da un tam tam sulla tregua nel Pd, blindata persino con un “no streaming” per evitare che la vanità di apparire abbia la meglio sulla discussione di merito, la Direzione del Pd è in realtà l’appendice di un litigio iniziato con il flop alle amministrative. Duello e sfida tra il segretario e il suo “grande elettore” il ministro Franceschini, che si prende pure un bel po’ di applausi quando richiama al rispetto della comunità e alla necessità di stare insieme in un’alleanza perché da soli «non si vince».
Renzi esordisce: «Non parlo di alleanze, non mi interessa la mia carriera né la vostra, non rispondo ai capicorrente… Il tema della coalizione interessa 3, 350, 600 al massimo persone». Franceschini replica: «Io sono tra i 350 residuati bellici che pensano che ci sia anche il tema delle alleanze, sono uno che parla di contenuti per il 95% come ministro». I toni si alzano nella replica del segretario. A Franceschini e al Guardasigilli Andrea Orlando — che invita a lavorare con Giuliano Pisapia per unire il centrosinistra — Renzi risponde con una citazione di Guccini (eloquente il titolo della canzone “Quattro stracci”): «Ognuno vada dove vuole andare, ognuno invecchi come gli pare, ma non raccontare a me cos’è la libertà...». Le minoranze di Orlando e Emiliano si alzano e vanno via, non votano la relazione.
Franceschini e i suoi invece sì.
Lo scontro della Direzione dem finisce su WhatsApp persino con gli audio degli interventi. Se si voleva evitare il processo social, niente da fare. Il presidente del partito, Matteo Orfini ha invitato anche ad astenersi da tweet e da post su Facebook. Ha minacciato di ritirare i telefonini. La prima a disobbedire è Cecilia Carmassi, toscana di Lucca, anti renziana: «Orfini scherza? Certo… ma io non ci sto ai maestrini in genere».
Nei 35 minuti di discorso iniziale, Renzi affronta molti temi: da immigrazione e ius soli («É principio di civiltà, dobbiamo andare avanti») al fiscal compact («Va posto il veto sul fiscal compact nei Trattati»). Quindi l’invito a passare la palla: «Non al terzo tocco, ma al primo, se invece che di amministrative si fosse parlato di anticipo pensionistico...». E in serata in un post su Facebook aggiunge: «Capisco le esigenze di chi vuole ricandidarsi, ma parliamo agli italiani non agli addetti ai lavori ».
In prima fila c’è mezzo governo: il premier Paolo Gentiloni, i ministri Claudio De Vincenti, Giuliano Poletti, Graziano Delrio, la vice ministra Teresa Bellanova. Renzi assicura che «andrà a giro» in treno per l’Italia a parlare di cose concrete, non di coalizioni. Orlando, facendo asse con Franceschini, invita ad «aiutare Pisapia». E Renzi: «Io voglio aiutare il Pd, non Pisapia, non fare campagna elettorale per gli altri». Ancora: «Orlando dice “non chiedeteci di rinunciare alle nostre idee” ma io dico non chiedetelo a noi che abbiamo vinto».

Repubblica 7.7.17
L’ex segretario non arretra e spera di allargare i consensi anche tra i renziani. “Parlare di lavoro è giusto, ma se non vinciamo governeranno altri”
Il ministro guida il dissenso “Idee diverse, io vado avanti”
di Goffredo De Marchis

ROMA. Nessuna apertura. «Se lui dice che è sbagliato parlare del tema delle alleanze, di quale apertura possiamo parlare?». Dario Franceschini incassa l’applauso più lungo della direzione, ma non da Matteo Renzi. Che lo guarda corrucciato durante il suo intervento e scuote vigorosamente la testa quando il ministro della Cultura dice che «il Pd da solo perde» o più esattamente che «il Pd così non vince» ma insomma è lo stesso. Franceschini continua a non capire l’ostinazione del segretario. «Il sindaco si occupa del marciapiede e allo stesso tempo della tenuta della sua coalizione. Questo non significa essere politicanti. Semmai pensare alla politica e ad amministrare bene i propri cittadini».
E quindi il duello rimane. Ieri in direzione si è giocato tutto proprio sul binomio tra la politica politicante, quella che si occupa degli alleati e non dei problemi, e la politica dei contenuti, quella dei programmi, del veto sul fiscal compact come ha sintetizzato Renzi. Naturalmente, è un’accusa che non va giù al ministro della Cultura e nemmeno ad Andrea Orlando. In fondo il concetto è chiaro: se il Pd arriva secondo o terzo alle elezioni, dei vincoli europei, dell’immigrazione, del lavoro che c’è e di quello che non c’è si occuperà qualcun altro. «È chiaro anche a me che in campagna elettorale non si dovrà discutere di coalizioni — insiste Franceschini — . Ma occorre puntare a vincere per fare in modo che sia il Pd a occuparsi del marciapiede». Alla fine il ministro e i suoi fedelissimi votano la relazione del segretario. Eppure Franceschini non sfugge alla questione di fondo, ammette che il problema rimane. «In un partito si discute, va bene così. Abbiamo sostenuto idee diverse, però. Continuano a essere diverse. E io vado avanti».
Come, il titolare della Cultura lo deciderà nelle prossime ore. Ma si è capito fin dall’inizio che non poteva fare un passo indietro, che il sasso lanciato dopo i ballottaggi non lo avrebbe rimesso in tasca. Ora Franceschini attende che maturino posizioni nuove dentro il cerchio dei renziani stretti. Per esempio il sindaco di Reggio Calabria Giuseppe Falcomatà, fan del segretario, ha parlato delle alleanze che servono per vincere al Sud: «Come dice Veltroni, voglio un partito maggioritario, ma non autosufficiente ». Sono piccole crepe significative? Non è ancora detto.
Renzi ha messo in riga i dissensi, soprattutto quelli di Orlando, il leader della minoranza che ha invocato il dialogo con Pisapia. «La storia delle coalizioni secondo me fa male alla politica. Io non voglio aiutare Pisapia voglio aiutare il Pd. Non siamo mica una confraternita religiosa che dà una mano al prossimo». Sempre al Guardasigilli che rivendica il diritto al dibattito, ribatte: «Voi non dovete cambiare le vostre idee ma nemmeno noi le nostre. Tanto più se avete preso al congresso il 25 per cento e noi il 70. La vocazione minoritaria no, per favore». Parole più che sufficienti per vedere gli orlandiani alzarsi e non partecipare al voto finale quando il ministro della Giustizia era già andato via per volare a Tallin. «Il discorso di Renzi non è stato all’altezza di un progetto - dice il coordinatore dell’area Orlando, Andrea Martella - e delle alleanze nella società che servono a portarlo avanti ».
Franceschini rimane seduto invece. Da solo, in mezzo alla sala, telefonino in mano e maniche di camicia. A lui Renzi si rivolge in maniera indiretta, ma contesta quasi punto per punto la sua analisi dei ballottaggi. «È inutile fare paragoni tra le comunali di oggi e quelle del passato. L’elettore ha altre logiche e ha bisogno di messaggi chiari dalla politica ». Poi, lo avverte: «Dario ha detto cose giuste qui. Altrove meno. Per esempio, su Repubblica.
Ma le discussioni si fanno nel partito, a meno che Repubblica non sia un altro partito». Attacca il ministro per il giudizio sui ballottaggi: «Nel 2013 abbiamo preso il 26 per cento, nel 2008 il 33 e nel 2014 il 40,8. Questi sono dati paragonabili, quelli con lo stesso simbolo. Le comunali non c’entrano niente». Come dire che la partita per le politiche sarà diversa. Ironizza sulle unioni civili: «Le abbiamo fatte noi. Ma voi, con le alleanze, mi proponete alcune unioni incivili...».
Dunque, la tregua non c’è. Esiste invece un’asse Franceschini- Orlando, tutto da consolidare magari intorno a una proposta di legge elettorale, e la linea di Renzi che prepara la campagna elettorale guardando da tutt’altra parte. Anche senza streaming, il confronto viene a galla lo stesso.

Repubblica 7.7.17
Il treno metafora del nuovo plebiscito
di Stefano Folli

ALLA fine, dalla Direzione del Pd sono arrivate due notizie, a parte la nuova frattura con la minoranza. La prima è che il segretario si appresta a un viaggio di dieci mesi in treno con l’obiettivo di battere palmo a palmo il territorio e rilanciare se stesso. La seconda è che il Pd intende contrapporsi all’Europa “mettendo il veto al Fiscal Compact nei trattati”, nella convinzione che per ottenere qualcosa si deve ricorrere ai “diktat”.
Questi due punti (più la promessa di un voto di fiducia sullo “Ius soli”) definiscono il profilo con cui il partito renziano si appresta alla campagna elettorale.
LA QUALE è ancora lontana, se è vero che mancano circa dieci mesi, ma per il leader è già cominciata. O forse non è mai finita. Si capisce allora che il tema delle alleanze, caro a Franceschini che pensa ai centristi e a Orlando che si preoccupa di Pisapia, sia stato semplicemente ignorato dal segretario: non senza una punta di insofferenza (“interessa ad appena trecento persone”). Ma chi poteva essere così ingenuo da prevedere un esito diverso? Il tema esiste, anzi è il tema politico per eccellenza perché riguarda il futuro del centrosinistra e in fondo la sua natura. Ma Renzi non ha mai inteso riaprire la discussione di merito, tantomeno in piena estate.
Il segretario la vede in modo opposto rispetto ai suoi critici. I quali, per la verità, lo irritano ogni giorno di più per il solo fatto di avanzare obiezioni. Cuperlo è già escluso dalla direzione, ma anche gli altri sono invitati implicitamente a non mettersi di traverso ponendo questioni fastidiose. Renzi il tema delle alleanze lo considera superato dal giorno delle primarie. I due milioni che sono andati alle urne (in realtà circa un milione e ottocentomila, di cui un milione e duecentocinquantamila hanno votato per la sua rielezione) gli hanno conferito un mandato che egli ritiene assoluto e totalizzante. Nel senso che stabiliscono una relazione permanente fra il capo carismatico e il popolo, tagliando fuori tutti i capi-corrente. O “capi-bastone”, come il segretario preferisce dire quando non è in una sede ufficiale.
E qui entra in gioco il treno. Che è il mezzo materiale con cui il leader girerà l’Italia con in mano il suo libro Avanti, ispirandosi in parte al famoso pullman di Prodi e molto al convoglio ferroviario con cui un tempo i candidati alla presidenza degli Stati Uniti attraversavano quell’immenso paese. Ma queste evocazioni hanno soprattutto un valore simbolico: rappresentano l’idea plebiscitaria che Renzi ha del rapporto con l’elettorato. Le prossime elezioni politiche sono per lui null’altro che una rivincita rispetto al referendum del 4 dicembre, una sconfitta mai realmente digerita e superata. Quel referendum era stato impostato come un plebiscito personale e molti gli hanno rimproverato l’errore fatale. Salvo che egli non lo ha mai considerato tale, al punto che oggi reimposta una lunga, lunghissima campagna elettorale nello stesso modo esatto: sulla base del nesso fra il capo e il popolo. L’elettore sarà chiamato a votare per Renzi, non per qualcuno dei capi- corrente mal tollerati. Si potrebbe dire: per Renzi e non per il Pd, a meno che quest’ultimo non si identifichi fino in fondo nel suo leader consacrato dalle primarie.
Rimane da capire perché egli non ha fondato “ex novo” un suo movimento come ha fatto Macron in Francia. Il fatto di essere rimasto a metà strada gli ha complicato la vita, costringendolo a estenuanti confronti con “quadri” e personaggi a lui invisi. Con un suo partito personale anche nel nome, avrebbe avuto mano libera su tutti i temi e i programmi. Come si è visto ieri, l’intenzione è quella di fare concorrenza ai Cinque Stelle nella sfida retorica all’Europa. Grillo condanna il Fiscal Compact e anche Renzi dice qualcosa di molto simile, dimenticando che il testo è stato già ratificato con il voto del Pd. Se esistesse un movimento tutto “renziano” la contraddizione non esisterebbe. La differenza è che Macron ha vinto facendo campagna in nome dell’Europa (e degli interessi francesi) mentre Renzi vuole combattere i Cinque Stelle appropriandosi di alcuni dei loro temi più spinosi, come l’euro-scetticismo. Con il rischio di trasformare la campagna in una gara fra populismi.

Il Fatto 7.7.17
Cari lettori, su Renzi è solo colpa vostra
di Andrea Scanzi

Cari lettori del Fatto Quotidiano, e in quanto tali persone criminose e sommamente empie, ammettetelo: “preferite” Berlusconi a Renzi. Certo, la frase è in sé un nonsense: essendo la stessa cosa sarebbe come dire “preferite la mela alla mela”, il vino al vino o Michelle Pfeiffer a Michelle Pfeiffer. Per questo andremo oltre, asserendo che – in un parossismo di nequizia – “preferite” financo Salvini a Renzi. D’accordo, la prospettiva non è allettante. Sarebbe più o meno come scegliere tra un concerto dei Modà a Radicofani, pagando 800 euro per vederlo da una panchina di chiodi, e un film di dodici ore sulla vita di Nardella, magari con la regia di Valerio Scanu e la colonna sonora (unplugged xilofono solo) di Vecchioni. Fortuna che esiste l’astensione: probabilmente, tra Berlusconi e Berlusconi (cioè Renzi) o tra Salvini e Renzi, ve ne stareste a casa. Come non capirvi. Eppure, se vi costringessero con una pistola o una Picierno alla tempia, è tutto da dimostrare che correreste in soccorso del Pd “per scongiurare il trionfo della destra”. Già solo questo dimostra come il “Postulato di Don Zucconi”, secondo cui Renzi sia da votare in quanto “alternativa unica al populismo”, venga rispettato giusto nella redazione di Repubblica (e neanche all’unanimità).
Voi direte: “Eh, ma a Milano ha vinto Sala proprio in quanto meno peggio dei berlusconiani”. Vero, anche se andrebbe premesso che Sala è più berlusconiano di Parisi. Una Milano non fa però primavera, ed era comunque un anno fa. Pensate alle ultime amministrative: in molte roccaforti di sinistra o quasi-sinistra, ha vinto (di colpo?) il centrodestra. Come si spiega? Con candidati meno respingenti, certo. Ma pure con quello che è il “Fattore MSSC”. Alberto Ronchey aveva codificato il Fattore K. Con Renzi siamo oltre. Edoardo Novelli ha parlato su queste pagine di “Fattore A”: fattore Antipatia. Di più: ormai siamo al Fattore MSSC, acronimo di “Mi Sta Sul” (la “C” potete immaginarla). Ecco il vero capolavoro di Renzi e derivati: avere raggiunto un grado così elevato di antipatia da far sembrare chiunque – ma proprio chiunque – migliore di loro. Martedì scorso In onda ha mostrato su La7 un sondaggio: in neanche tre anni, Renzi è sceso nel gradimento italico dal 61 al 27%. È ancora “il più amato tra i politici”, a conferma di come ci sia speranza per tutti (tranne che per l’Italia), ma la sua è una slavina. In studio c’era il rutilante Rosato, con quei bei capelli pittati a caso con l’Uni Posca: ha provato a negare la piena veridicità del sondaggio, confermandone dunque la totale valenza. Renzi sta dimostrando una capacità prodigiosa di dilapidare un consenso tanto immeritato quanto labilissimo. Già con Veltroni e poi Bersani, con la contemporanea crescita del M5S, stava venendo meno la favoletta del “meno peggio”: i delusi di sinistra, lentamente, cominciavano a staccarsi dal Partito Democratico. Chi non votava più, chi si affidava ai Pizzarotti, chi si iscriveva al Fan Club del Cinghiale Babirussa. Ora, con Renzi, siamo alla leggenda: ai ballottaggi, quando non si astengono, tanti elettori non berlusconiani accorrono in massa a votare. Con l’unico intento di sfanculare Renzi. Per carità, non capita sempre: parliamo di una tendenza, non di una regola ferrea. Non asseriamo poi che tutto questo sia condivisibile: ci limitiamo a dire che sta accadendo. Sempre di più. Più i Fiano&Romano affollano il piccolo schermo, più crescono i detrattori del Pd. Vale per quasi ogni renziano mediaticamente noto, sia esso ministro, parlamentare o supporter: in confronto a loro, Mara Carfagna assurge a Nilde Iotti. Gran bella impresa. Nel 2014 Renzi ha vinto le Europee: da allora, il diluvio. Sconfitta al 2015, con candidate-Tafazzi tipo Moretti e Paita che hanno trasformato Zaia in Adenauer e Toti in Churchill. Emblematico il caso Arezzo, città (anche) della Boschi: la ministra, allora intoccabile o quasi, benedisse un ameno Playmobil dal carisma diversamente fiammeggiante che andava in tivù garantendo (minacciando) di governare dieci anni. Epico il risultato: al ballottaggio una flotta di aretini di sinistra, pur di non avere quello lì sindaco, votò in massa il candidato berlusconiano. E ne festeggia tuttora la vittoria. Sensazionale pure il 2016: prima Roma e Torino, poi la Waterloo sublime del 4 dicembre. Ancora schiaffoni nel 2017. Un calvario tragicomico e continuo. Come si spiega? Con la smisurata pochezza di Renzi. Con la natura centro-destrorsa di questo paese. Ma è anche e soprattutto colpa vostra, cari lettori sfascisti del Fatto: quello lì vi sta così sui zebedei che, pur di vederlo perdere, votereste qualsiasi cosa. Un rododendro. Un pisciacane. Persino un Gasparri. Ammettetelo.
(P.S. Su Gasparri scherzavo).

Il Fatto 7.7.17
L’Ue: “Triton non si cambia”, approdi solo in porti d’Italia
Il protocollo operativo della missione internazionale stabilito già nel 2014
di Giampiero Calapà

“A Tallinn c’è un consiglio informale di ministri dell’Interno europei, quindi non sarà deliberato alcunché in quel consesso semplicemente perché non è un organo deputato a farlo”. Emma Bonino – impegnata nella raccolta firme della campagna “Ero straniero” di Radicali italiani per cambiare la legge Bossi-Fini sull’immigrazione – dà la seconda mazzata in pochi giorni al governo e alla politica italiana che si sbraccia e agita per presentare l’appuntamento di Tallinn come decisivo sulle sorti del Mediterraneo. Non è in quella sede che poteva essere deciso se altri porti europei si affiancheranno a quelli italiani per gestire emergenza ed accoglienza, ma l’eventualità è stata proprio esclusa dai partner dell’Ue, tanto che il ministro Marco Minniti ha poi ammesso: “Non era la sede giusta”. Inoltre, tra tutte le parole spese ieri in Estonia c’è un passaggio in quelle del commissario agli affari interni dell’Ue Dimitris Avramopoulos che chiarisce tutto: “Il mandato della missione Triton non si cambia, è ben definito. Si tratta di migliorare l’attuazione di quanto già concordato. Fanno già un lavoro molto buono”. Ed è qui che sono cascati gli asini italiano ed europeo, non serviva aspettare Tallinn.
Sempre Emma Bonino, il 3 luglio scorso all’assemblea generale di Confartigianato a Brescia, ha fatto scoprire l’acqua calda al resto della politica italiana con queste parole: “Una delle cose di cui sono più orgogliosa è l’operazione Mare nostrum, perché sono convinta che sui cadaveri non si costruisce niente. Poi non l’abbiamo voluta più perché era troppo cara: nove milioni di euro al mese. Chi è che parlava dei costi della politica? Quindi interviene l’Unione europea, prima con Triton e poi con l’operazione Sophia. Nel 2014 abbiamo chiesto che il coordinamento fosse a Roma alla Guardia costiera e che gli sbarchi avvenissero tutti in Italia l’abbiamo chiesto noi”. Parole che hanno eccitato i 5Stelle, a tal punto da caricare sul blog di Grillo due giorni fa un post che chiede “la verità su questi accordi indicibili”. E il Giornale che ieri ha titolato in prima pagina: “Invasione voluta da Renzi”.
Non è una storia segreta, ma alla luce del sole nella drammaticità di queste ore con un più 18 per cento di sbarchi rispetto allo stesso periodo del 2016 che allarma il Viminale tanto da organizzare in tutta fretta l’incontro di domenica scorsa a Parigi con i ministri degli Esteri francese e tedesco, Gérard Collomb e Thomas de Maizière, presente anche Avramopoulos.
Solidarietà e buone intenzioni successivamente espresse fino all’appuntamento di Tallinn molte, porti “aperti” da altri Stati europei nessuno. E se non si mette mano a Triton, non c’è verso che questa cosa cambi e magicamente si attrezzino per le emergenze le banchine di Barcellona o Marsiglia. Come spiega, bene, la stessa Bonino: “I piani operativi che riguardano sia Triton sia Sophia prevedono esattamente che il coordinamento di tutti gli sbarchi sia deciso dal centro di Pratica di Mare e che devono avvenire in Italia. Non è un segreto di Stato. Tanto che il ministro Minniti chiederà proprio di rivedere i piani operativi, in particolare quello di Sophia, che rende l’Italia responsabile anche della zona di search and rescue (ricerca e soccorso) non solo su quella di competenza italiana, ma anche su quella decisa da Malta. Non c’è nessun accordo indicibile”, quindi, ma molte responsabilità condivise.
L’operazione Mare nostrum fu decisa dal governo Letta, Emma Bonino ministro degli Esteri e Angelino Alfano all’Interno, il 14 ottobre 2013 come risposta alla terribile tragedia del 2 ottobre, quando morirono 366 persone nel naufragio causato da un incendio su un barcone all’altezza dell’Isola dei Conigli, a Lampedusa. Coinvolti in Mare nostrum: navi e aerei della Marina militare, dell’Aeronautica, dei carabinieri, della Guardia di finanza e della Capitaneria di porto. A bordo erano presenti personale dell’immigrazione per eseguire già in mare le identificazioni e squadre di medici. Mare nostrum aveva il mandato di ricerca e salvataggio dei migranti naufraghi.
Ad agosto 2014 il governo Letta non c’è più, sostituito nel febbraio 2014 da Renzi che “rottama” Emma Bonino ma si tiene Alfano. L’Italia, quindi, nell’ottobre dello stesso anno si consegna, per spendere meno, alla “solidarietà” degli altri Paesi dell’Ue con l’operazione Triton di Frontex, l’agenzia di Bruxelles per il controllo delle frontiere. Costo: 2,9 milioni al mese contro i 9 che spendeva l’Italia per Mare nostrum e, di fatto, un mandato di vigilanza fino a 30 miglia dalle coste italiane con il primo obiettivo del controllo dei confini e non del salvataggio dei naufraghi. L’accordo, che incassa la benedizione dell’alto rappresentante per gli affari esteri dell’Ue Federica Mogherini, è magnificato da Alfano con queste parole: “L’Europa per la prima volta scende in mare e sarà a presidio delle frontiere. Questo non significa che l’Italia verrà esentata dal presidio delle frontiere, ma che per la prima volta l’Europa prende coscienza che le frontiere a 30 miglia delle coste italiane è una frontiera di tutti”. Peccato che l’accordo accettato dagli altri Paesi dell’Unione ha un protocollo operativo che non esclude i salvataggi, ma prescrive che possano avvenire “con il coordinamento del centro di Pratica di Mare”, quindi su input italiano, solo con “approdi in Italia”.

il manifesto 7.7.17
Amnesty: «Sconsiderato finanziare i guardiacoste libici»
Migranti in trappola. Il portavoce di Haftar: i gommoni partono dai porti controllati dal governo Serraj finanziato dall'Italia
di Rachele Gonnelli

«Sconsiderata», è così che Amnesty International giudica la strategia italiana ed europea di foraggiare con soldi, uomini e mezzi la Guardia costiera libica per salvare e intercettare le imbarcazioni di migranti sulla rotta del mediterraneo centrale, dove quest’anno si è registrato il record dei 2.070 morti in mare.
Secondo Amnesty l’Unione europea ha creato così una «tempesta perfetta» – è questo anche il titolo del rapporto che l’organizzazione umanitaria ha diffuso ieri – mettendo di fatto i migranti in fuga dalle coste libiche in una doppia tenaglia. Da un lato infatti i profughi rischiano la vita in mare nei tentativi di raggiungere la sponda europea, dall’altra vengono ricondotti in Libia, dove li aspetta un trattamento disumano, fatto di torture, stupri, ricattati e venduti come schiavi sessuali o per lavori abbrutenti.
Finanziare e addestrare i guardiacoste libici – come aveva già segnalato negli ultimi giorni sia l’Onu sia Human Right Watch, oltre alle ong che si occupano dei salvataggi in mare – torna a dire Amnesty è una decisione «profondamente problematica» perché – spiega – la Guardia costiera libica è rinomata per i metodi violenti con cui tratta i migranti e anche per le collusioni con i contrabbandieri di esseri umani.
«Lo stato attuale della Guardia costiera libica è assolutamente vergognoso», ha detto senza giri di parole Iverna McGowan, responsabile delle relazioni istituzionali di Amnesty con Bruxelles. Tra l’altro, ricorda, la responsabilità di ciò che succede alle persone che si rivolgono all’Europa per scampare alla tortura e alla morte è dell’esecutivo europeo, non certo delle ong che meritoriamente svolgono una attività di supplenza.
Ma ciò che servirebbe, ribadisce Amnesty, è una «operazione umanitaria multinazionale sotto il controllo dell’Italia», una sorta di missione Mare Nostrum allargata e finanziata direttamente dalla Commissione europea. O almeno, si aggiunge, condizionare i finanziamenti alla Libia al rispetto di standard umanitari e al trasferimento di tutti i migranti salvati in mare alle navi attrezzate per i soccorsi.
Come se non bastasse, dalla Libia stessa arriva una critica di fondo alla strategia del ministro Marco Minniti di potenziale il ruolo della Guardia costiera libica. Proviene dal colonnello Ahmed Al Mismari, portavoce della milizia chiamata Esercito nazionale libico (Lna) al comando del generale Khalifa Haftar, intervistato dall’Agenzia Nova. «Per noi – dice il portavoce di Haftar – l’Italia non è un nemico, ma crediamo che le considerazioni fatte da alcuni italiani siano irrealistiche e di parte. Pensiamo che l’Italia continui a trattarci come una ex colonia, e non vogliamo un simile trattamento».
Il colonnello Mismari fa notare che «Non una singola operazione di emigrazione illegale è avvenuta nelle aree sotto il controllo dell’Lna, dal valico di Musaid con l’Egitto fino a Sirte.I migranti illegali partono dai porti di Misurata, Tripoli, Sabrata e Zuara le cui autorità sono sostenute dall’Italia», cioè il governo Serraj di Tripoli.
Da lì Mismari mette in discussione l’operato dell’ambasciatore italiano Giuseppe Perrone, già dichiarato persona non grata dal parlamento di Tobruk e propone all’Italia di cambiare cavallo e rifornire di aerei, droni e satelliti le truppe di Haftar per controllare le frontiere e «combattere la rete dei trafficanti».

il manifesto 7.7.17
Il disastro dell’Europa «a due farse»
Unione europea. Dalla farsa sulla «solidarietà» a quella neocoloniale: il «Piano Merkel» vuol dire aiuti, sostegno vero, soccorso e riparazioni alle malefatte della nostra economia di rapina? No, stesso ed eguale coinvolgimento degli organismi finanziari internazionali che elargiscono fondi al Continente africano solo in cambio di ulteriori cessioni di sovranità
di Tommaso Di Francesco

Così inizia Il Diciotto Brumaio di Luigi Bonaparte di Carl Marx: «Hegel osserva da qualche parte che tutti i grandi avvenimenti e grandi personaggi della storia universale si presentano, per così dire due volte. Ha dimenticato di aggiungere: la prima volta come tragedia, la seconda come farsa», e Friedrich Engels nella lettera a Marx che aveva ispirato la sua citazione, sottolineava «una farsa pidocchiosa».
Non ci sarà la «farsa pidocchiosa» di una nuova guerra austro-ungarica, l’invio di carri armati e soldati alla frontiera annunciati dal ministro della difesa austriaco. È evaporata al sole dell’estate la manovra elettorale di Vienna intesa a cavalcare, come in ogni capitale europea, la xenofobia che si vuole dilagante.
Il traballante premier austriaco Christian Kern, ha fatto marcia indietro, visto anche il fatto che dal Brennero purtroppo di migranti ne passano ormai sempre meno.
Le truppe austro-ungariche non metteranno a repentaglio i nostri confini. Diciamo austro-ungariche perché da almeno due anni Vienna è diventata capofila neo-imperiale dei «Quattro di Visegrad», Slovacchia, Polonia, Ungheria e Repubblica ceca, il fronte dei più refrattari contro i profughi e allo stesso tempo i Paesi europei che rimettono in discussione, non solo sui migranti, i legami con l’Ue cancellando diritti e principi democratici, contro le opposizioni e ogni minoranza.
Ma la marcia indietro non riesce a nascondere il disastro di quella che ci ostiniamo a chiamare Unione europea, naufraga e profuga di se stessa rispetto alle promesse con cui si è costituita. Perché ecco che s’avanza un’altra «farsa pidocchiosa», ben più pericolosa.
Quella neo-coloniale, ma presentata come svolta salvifica dal governo italiano e dal ministro Minniti: è l’«aiutiamoli a casa loro in Africa », già parola d’ordine delle destre razziste, ora programma di Bruxelles formalizzato nel «Piano Merkel», in discussione al vertice europeo che si è aperto ieri a Tallinn in Estonia, dove la proposta di regionalizzare gli approdi dei migranti viene respinta da Francia, Spagna e ora anche dalla Germania.
Il «Piano Merkel» vuol dire aiuti, sostegno vero, soccorso e riparazioni alle malefatte della nostra economia di rapina? No, stesso ed eguale coinvolgimento degli organismi finanziari internazionali che elargiscono fondi al Continente africano solo in cambio di ulteriori cessioni di sovranità (una sovranità che non c’è quasi mai stata), di privatizzazioni, di rinnovate concessioni alle multinazionali, di commerci di nuove sofisticate armi ad inasprire altri conflitti – come scriveva ieri sul manifesto Giulia Franchi di Re:Common – e a gravare i già smunti bilanci delle nazioni africane, proprio lì da dove fuggono i cosiddetti «migranti economici». Sarebbe stato sbagliato chiamare questo programma «piano Marshall».
Quello fu davvero il primo piano – strumentale durante la Guerra fredda – d’investimenti americani in Italia e in Europa. Ma in Africa i nostri investimenti di rapina ci sono già e aiutarli a casa loro dovrebbe voler dire cambiarne natura, mezzi e scopo. Ora Minniti lamenta il fatto che alla Turchia per tenerci i profughi in campi di concentramento, abbiamo dato due miliardi, «invece alla Libia le briciole».
Ma prima della guerra della Nato del 2011, la Libia era il principale Paese investitore in infrastrutture e opere civili dell’intera Africa e con il reddito più elevato del Continente nero, inoltre poneva all’ordine del giorno il problema del cambio denaro-materie prime non più solo in dollari ma in euro, con addirittura la possibilità che nascesse una divisa africana.
Ora che cos’è diventata la Libia? E soprattutto, a quale brandello della lacerata Libia dovremmo dare miliardi come per la Turchia del Sultano Erdogan? A Sarraj che conta meno del sindaco di Tripoli o a Khalifa Haftar sul trono a Bengasi all’ombra di Al-Sisi e Francia, alle milizie di Misurata o alle guardie petrolifere, o al figlio di Gheddafi, Seif al Islam?
Intanto continuiamo a pompare-rapinare per noi petrolio e gas dai preziosi pozzi libici. Intanto la frontiera dell’Europa «deve diventare il Niger», più a sud della Libia, «lì e prima dobbiamo fermarli», in Mali (dove la guerra continua) e in Ciad. Nessuno spiega come per 5mila chilometri di frontiera che delimita il sud del Sahara. Ma questa è la «nuova» idea.
E la Francia, che con il Bonaparte-Macron rompe la solidarietà con l’Italia e dice «no ai migranti economici», con questa «solidarietà» non a caso è d’accordo. Parigi ha semplicemente in mano le economie dell’area, detiene praticamente le chiavi delle banche centrali di questi Paesi e l’intera loro economia, controlla le ricchissime fonti minerarie.
Che c’è da aggiungere? Magari un prezioso commercio di armi (finché c’è guerra!), il rafforzamento delle già corrotte leadership e in più la disponibilità dei Paesi africani diventati il «nuovo confine europeo» a farsi «campo di concentramento» per chi fugge da guerre e da miseria. Non opere riparatrici e di bonifica dello sfruttamento, occidentale e dei Paesi sviluppati, delle risorse africane.
Guardate come le multinazionali occidentali del petrolio hanno ridotto il Delta del Niger, grande quasi un quarto dell’Italia: un pantano immenso di bitume e scarti del grezzo di prima estrazione che ha compromesso le falde acquifere costringendo alla fuga centinaia di migliaia di contadini nigeriani: e la Nigeria risulta non a caso al primo posto tra i paesi di provenienza dei profughi africani. Invece offriamo un altro scambio ineguale, un «piano» per allargare l’universo concentrazionario di un intero continente, nel disprezzo di quelli che vantiamo, ma solo per noi, come i beni più preziosi: i diritti umani e la democrazia.

il manifesto 7.7.17
«Ci si oppone a Trump lottando per i diritti di migranti e rifugiati»
Intervista a Breanne Butler. «Negli Stati uniti muoiono ancora troppe persone che entrano dal Messico, morti orribili nel deserto. Il 20 giugno abbiamo denunciato anche il Muslim ban trumpiano». «Il vostro paese è molto avanti su parecchi temi, ma in Italia siete in ritardo per quanto riguarda i diritti delle coppie gay: l’adozione non può essere impedita»
Breanne Butler (a destra) ad una manifestazione della "Women's march global"
di Massimo Franchi

«Ogni giorno ne combina una differente, è così facile essere distratti. La gente non si ricorda cosa è successo due giorni prima e così Trump la fa franca. Sono certa che è una tattica e che gli consentirà di rimanere in sella a lungo».
Fino a febbraio scorso Breanne Butler faceva la cuoca a New York. La politica per lei «era una cosa lontana». Poi l’impegno nella campagna di Hilary Clinton e, soprattutto, la reazione alla vittoria di Trump e le sue prime mosse: Migrant ban in testa. Breanne ha lasciato da parte i dolci e si è messa in moto, creando quasi dal nulla una rete di donne per la più imponente marcia di protesta di sempre: 500 mila persone a Washington, quasi 3 milioni in tutta America in 700 manifestazioni.
Una rete che ora è diventata una Ong globale per i diritti delle donne: «Women’s march Global». E che il 20 giugno in occasione della Giornata mondiale del Rifugiato ha lanciato una nuova mobilitazione con fiaccolate in moltissime città americane ed europee. Il suo secondo viaggio in Italia è ancora una volta l’occasione per partecipare alle iniziative della Fiom.
Breanne, da democratica convinta lei è a favore dell’impeachment contro Trump?
Credo che sia una scelta molto complicata e rischiosa. Se ci si arrivasse, bisognerà essere sicuri di avere i voti per deporlo, diversamente si rischia di rafforzarlo nonostante tutte le cose negative che sta facendo. Detto questo, credo che l’opposizione a Trump vada fatta soprattutto lottando contro le sue politiche. Per questo noi della Women’s march Global siamo concentrati a dare visibilità alla questione dei migranti e dei rifugiati. Negli Stati Uniti muoiono ancora troppe persone che entrano dal Messico, morti orribili nel deserto. Il 20 giugno abbiamo denunciato questa situazione portando avanti anche la lotta al Muslim ban di Trump che qualche Stato ha già contestato nei tribunali ottenendo le prime vittorie, così come alcune sconfitte.
La vostra azione è ormai globale. Oltre agli Stati Uniti quali campagne avete o state portando avanti in giro per il mondo?
Ultimamente abbiamo ottenuto un ottimo successo in Inghilterra con la campagna per la registrazione delle donne per le elezioni. Tramite i social network siamo riusciti a convincere moltissime ragazze inglesi fra i 18 e i 24 anni con la campagna: «Mettiti le scarpe e vatti ad iscrivere». Il risultato è stato strepitoso: il livello di partecipazione in quella fascia di età è stato il più alto nella storia dell’Inghilterra. E personalmente sono molto contenta di aver aiutato Jeremy Corbyn e il Labour Party ad ottenere un ottimo risultato. Per il resto stiamo portando avanti campagne contro la violenza sulle donne in Asia e in Africa ottenendo ottimi riscontri di partecipazione da donne che finora rimanevano in silenzio”.
Sì, il vostro Paese è molto avanti su parecchi temi a partire dalla partecipazione femminile nel sindacato, qui alla Fiom c’è Francesca Re David, alla Cgil c’è Susanna Camusso che ho conosciuto e apprezzo. Ma la considerazione della donna nella società italiana è molto retrograda. Per questo i nostri gruppi qua in Italia lavorano proprio per dare voce alle donne vittime di violenza: solo denunciando si può ottenere giustizia e quel cambio di mentalità necessario. Un altro tema sul quale siete in ritardo sono i diritti delle coppie gay: l’adozione non può essere impedita.
Tornando agli Stati Uniti, la sconfitta di Hillary Clinton rischia di far saltare per molto tempo la possibilità che una donna diventi presidente? Secondo lei Elizabeth Warren, che molti danno fra i papabili per la prossima candidatura, ne risentirà?
Lei è una grandissima donna e una politica bravissima. Penso che la sconfitta di Hillary sia stata un duro colpo ma è troppo presto per dire se avrà delle conseguenze sulla possibilità che una donna democratica si ricandidi.
Credo che Hillary – dopo un giusto periodo di distacco – farà grandi cose con la sua associazione che come noi è impegnata per i diritti delle donne. Lei era il politico più capace che ho conosciuto e il fatto che abbia perso contro Trump rimane per me ancora incomprensibile. Chissà, forse potrà aiutare Elizabeth Warren ad evitare gli errori che lei ha fatto in campagna elettorale.

Il Fatto 7.7.17
La Rai fa di tutto e di più per bloccare la Gabanelli
L’ex conduttrice di “Report” è pronta a partire con una squadra per rilanciare il servizio pubblico sul web, ma gli ostacoli sono tanti: dalla presidente Maggioni a un pezzo di Cda
di Gianluca Roselli

In questi giorni sulla Rai a tenere banco è la vicenda del super contratto di Fabio Fazio. Mentre su un altro campione di Viale Mazzini, anzi una campionessa, è scesa una coltre di silenzio. Parliamo di Milena Gabanelli, che lo scorso gennaio dall’ex dg Campo Dall’Orto ha ricevuto l’incarico di mettere in piedi e guidare la nuova testata web della tv pubblica.
Rai24 il nome del portale che dovrebbe rilanciare Viale Mazzini in un settore dove galleggia da anni nella parte bassa della classifica. “Digital first”, del resto, era uno degli slogan preferiti dell’ex dg. Gabanelli in questi mesi si è messa al lavoro, con una squadra che a pieno regime conterà 88 giornalisti, divisi su turni. Tutto è pronto: la grafica, i tecnici, il settore del data journalism, l’embrione del team, la parte video. Doveva partire a maggio, poi a giugno, poi il rinvio a luglio. Invece il progetto è congelato, fermo, in stand by. Tanto che la stessa Gabanelli ha iniziato a manifestare segni di nervosismo. “Il progetto non piace alla presidente Maggioni. Mi diano qualche segnale perché, se lo bloccano, io me ne vado”, aveva detto in un’intervista a fine maggio, poco prima della bocciatura del piano news di Campo Dall’Orto.
A più di un mese da quei fatti, e con l’arrivo del nuovo dg Mario Orfeo, nulla sembra essere cambiato. Rai24, infatti, si trova a un bivio: se il suo cammino viaggerà su una corsia preferenziale rispetto al piano delle news, che ha tempi medio-lunghi, allora potrebbe vedere la luce in autunno; se invece resterà impantanata all’interno pacchetto informazione, entrando nel gioco dei veti incrociati, allora è evidente l’intenzione di affossarla. Dalle parole di Orfeo alla presentazione dei palinsesti a Milano, però, non si intravedono corsie preferenziali. “Il progetto web è una priorità”, si è limitato a dire il dg. Che poi ha rassicurato telefonicamente la giornalista. “Non ti preoccupare, va’ avanti”, le ha detto. Di più ne sapremo la prossima settimana, quando Orfeo e Gabanelli si vedranno a quattr’occhi. Sta di fatto, però, che il progetto web a Viale Mazzini conta diversi oppositori. Maggioni e alcuni consiglieri, per esempio, sono fortemente critici verso la nascita di una nuova testata (sarebbe la decima, anche se assorbirà Rainews.it). Oltretutto senza un vero direttore, perché, per evitare di doversi far approvare la nomina dal Cda, Campo Dall’Orto ha assunto Gabanelli come vicedirettore. Poi è in atto una sorta di boicottaggio silenzioso da parte di altre testate e tg, poco disponibili a privarsi di giornalisti per cederli al web. Infine c’è qualcuno che rema contro pure sulla persona. “La vicenda è stata gestita malissimo dall’inizio e il risultato ora è che abbiamo una giornalista di serie A, una Formula 1 della Rai, costretta a stare ai box. Mi auguro che la situazione si sblocchi presto”, osserva il dem Michele Anzaldi.
L’ex conduttrice di Report nell’incontro previsto vorrà da Orfeo rassicurazioni sul progetto e sui tempi. Ma la sensazione è che non resterà appesa per altri sei mesi. “Il progetto web sarà una delle questioni che sottoporrò al prossimo Cda. Gabanelli deve partire al più presto”, avverte Carlo Freccero, “ma chiederò lumi anche sulle cifre degli altri contratti, a partire da Vespa”. Intanto pure gli orfani di Gabanelli scalpitano perché si sentono poco tutelati dall’azienda. “Avevamo chiesto di tornare in onda la domenica sera, perché il lunedì ci penalizza in termini di ascolti”, afferma Sigfrido Ranucci, costretto anche la prossima stagione a vedersela contro le fiction migliori, a partire da Montalbano. Stessa protesta da Riccardo Iacona, che ha chiesto alla Rai di “difendere Presadiretta”.

Il Fatto 7.7.17
Il blitz del governo per aiutare Intesa e salvare il decreto
Banche venete - L’esecutivo tenta di riscrivere in parte il testo poi cede, ma ci riproverà con la fiducia. Più tutele agli obbligazionisti
di Carlo Di Foggia

La fretta fa i gattini ciechi, e i decreti “salva banche” disastrosi. E così con un blitz mattutino il governo ha tentato ieri un’impresa ardita in commissione Finanze alla Camera: modificare – riscrivendolo – il decreto che due settimane fa ha mandato in liquidazione le banche venete, e venire ancora in aiuto di Intesa Sanpaolo, che si è già presa la parte sana degli istituti con un contributo statale di 5 miliardi (e altri 12 di garanzie). Tutto con un maxi-emendamento che, insieme a quello del relatore (Giovanni Sanga, Pd), prevede decine di modifiche, dai rimborsi agli obbligazionisti subordinati fino alla nascita di un nuovo tipo di obbligazioni. Il gioco di prestigio non è riuscito, ma il tentativo è solo rimandato.
Il blitz parte al mattino, quando il governo – con la regia del navigato Sottosegretario all’Economia Pier Paolo Baretta – prova a depositare entro le dieci il testo dove, insieme alle modifiche, viene ricopiato l’intero decreto su cui pesa il diktat di Intesa (se viene modificato nella parte che le garantisce il regalo, salta tutto). Una mossa disperata. E infatti gli uffici della commissione fanno sapere che non si può fare. A quel punto il governo lo ritira per evitare la stroncatura. Buona parte però – filtra dal Tesoro – verrà ripresentata, anche se direttamente in aula, dove il testo approderà lunedì. Non è finita: martedì ritornerà in commissione – che ieri ha sospeso il voto degli emendamenti –. E lì toccherà alla maxi-modifica proposta dal relatore.
Il testo di Sanga riscrive l’intero articolo sei del decreto. Amplia i rimborsi agli obbligazionisti subordinati azzerati in ossequio alle nuove norme europee: saranno indennizzati tutti quelli che hanno comprato i bond dalle banche fino all’1 febbraio 2016, e non più a giugno 2014 come per quelli di Etruria e le altre (senza sarebbero stati esclusi 491 milioni in bond emessi da Pop Vicenza e Veneto Banca nel 2015). Viene chiarito che non si pagheranno le imposte sulle somme ricevute dai soci che hanno aderito alla transazione proposta dalle banche nei mesi scorsi (sia azionisti che obbligazionisti potranno portare le minusvalenze in compensazione). L’emendamento poi esclude dal Bail-in i contributi versati alle casse previdenziali depositati nelle banche (la nuova regola Ue impone anche ai depositanti più ricchi, oltre che a soci e obbligazionisti, di contribuire al salvataggio degli istituti).
Ma la novità più clamorosa è una modifica al Testo unico bancario che permette alle banche di emettere un nuovo tipo di obbligazione. Sarà assoggettabile al bail-in ma non a quella forma intermedia (il burden sharing) che ha portato all’azzeramento delle subordinate con Mps, le venete ed Etruria & C. (dal 2014 a oggi – dati Consob – la circolazione di questo tipo di bond è infatti crollata del 56%). Creerà un cuscinetto per evitare che vengano azzerate le obbligazioni ordinarie.
E veniamo all’emendamento del governo, che modifica tre articoli del decreto. Viene aumentato di un anno (da 3 a 4) il tempo concesso a Intesa per ridare ai commissari liquidatori i crediti delle venete che non vuole più, esentandola dal dover “nei confronti di creditori e terzi”. La banca guidata da Carlo Messina ottiene poi nuove garanzie, tra cui quella che blinda le commissioni di gestione dei crediti deteriorati della liquidazione che gli verrà affidata per contratto. Il maxi-emendamento firmato da Baretta tenta poi di sanare un “buco” della legge che – come rivelato dal Fatto – rischiava di dar vita a un disastro economico in Veneto: non avendo la licenza bancaria, i liquidatori e la Sga, la società dell’ex banco di Napoli a cui verranno trasferiti i crediti deteriorati, non possono erogare nuova finanza e quindi permettere ai debitori anche di rientrare in bonis. In pratica possono solo chiedergli di rientrare dell’esposizione, mettendoli in ginocchio. L’emendamento consente l’erogazione di nuovi prestiti.
La norma, insieme ad altre modifiche, verrà ripresentata. Sul testo il governo metterà la fiducia

Repubblica 7.7.17
I bambini umiliati
di Michela Marzano

COM’È possibile opporsi alla tutela delle bambine e dei bambini rimasti orfani in seguito a crimini domestici? Cosa può mai scattare nella mente di chi continua a discriminare i minori e a dimenticare che i bambini sono (e devono essere) tutti uguali indipendentemente dal fatto che i loro genitori siano o meno sposati? Sembra incredibile che, nonostante gli orfani di femminicidio siano in Italia più di 1.600, ci sia ancora chi osi ostacolare una legge che li protegga e ne riconosca tutti i diritti. Eppure è proprio così che accade nel nostro Paese. Visto che i senatori della destra hanno deciso di opporsi all’esame in sede deliberante (cioè senza passare dall’Aula) di un progetto di legge che tuteli questi orfani, nonostante questa stessa legge, alcuni mesi fa, fosse stata approvata all’unanimità alla Camera.
Le motivazioni date sono quanto meno confuse. C’è chi parla di «errori tecnici» presenti nel testo arrivato dall’altro ramo del Parlamento. C’è chi sostiene che non si tratterebbe altro che di una «strumentalizzazione demagogica». C’è infine chi dice che, dietro questa proposta di legge, si nasconderebbe la volontà di «ufficializzare normativamente ciò che è già stato bocciato al Senato», ossia «i figli delle unioni civili». Molta confusione nelle giustificazioni, quindi.
Anche se forse sarebbe meglio parlare di accanimento nei confronti dei più piccoli, come se i bambini dovessero portare sulle proprie spalle il peso delle scelte dei propri genitori o, ancora peggio, dovessero sopportare lo stigma infamante dell’orientamento sessuale delle madri o dei padri. Perché poi è sempre così che succede in Italia: sono i più piccoli a pagare il prezzo dei pregiudizi e delle ipocrisie degli adulti, anche se nessun bambino sceglie ovviamente la famiglia in cui nasce o quella cui viene affidato, di essere accudito oppure di subire violenze e perdere uno dei due genitori.
Lo si è visto nel caso dell’approvazione della legge sulla continuità affettiva — quando i bambini dati in affidamento a coppie di fatto o a persone single non hanno visto riconosciuta l’importanza dei propri legami affettivi e, una volta dichiarati adottabili, non si sono visti accordare il diritto di essere adottati da chi per anni si era occupato di loro, a differenza di quelli affidati a coppie sposate da almeno tre anni. Lo si è visto in occasione dei dibattiti sulle unioni civili, quando la legge uscita dal Parlamento ha lasciato privi di protezione e di diritti tutti quei bambini e quelle bambine che già vivono in famiglie omogenitoriali come se l’orientamento sessuale dei loro genitori fosse un ostacolo al riconoscimento della propria uguaglianza. Lo si sta vedendo, ancora una volta, con queste misure a sostegno degli orfani di crimini domestici con il rifiuto da parte della destra di una norma di civiltà solo perché, tra gli orfani da tutelare, esisterebbero anche figli di persone omosessuali.
Ma da cosa vanno (o andrebbero) protetti i più piccoli? Dalla violenza omicida che non rispetta niente e nessuno e che li priva della mamma — uomini che non sopportano che una donna possa lasciarli, uomini immaturi e privi di scrupoli che preferiscono annientare la persona con cui vivono o hanno vissuto una relazione piuttosto che accettare la frustrazione dell’assenza o dell’abbandono — oppure dallo spettro di unioni “non-naturali” che continua ad animare i fantasmi e le paure ancestrali di chi, della fragilità della condizione umana, capisce e accetta molto poco?

Il Fatto 7.7.17
Lo strano caso dell’archeologa promossa per esser pensionata
Il colmo del vicedisastro - Irene Berlingò, 65 anni, finita a dirigere la Soprintendenza di Reggio e mandata a casa pochi giorni dopo
di Giampiero Calapà

Succede in Italia che un’archeologa iper-titolata, esperta di Magna Grecia, vinca una selezione per il posto di soprintendente di Reggio Calabria nel novembre 2016. Succede che il ministero dei Beni culturali guidato dal “vicedisastro” (copyright Matteo Renzi) Dario Franceschini neppure due mesi dopo averla fatta insediare la cacci con un decreto di pensionamento immediato. Succede solo pochi giorni dopo che lo stesso ministero – quello del pasticcio del bando sui direttori di museo stranieri, per capirci – convochi la stessa persona a sostenere, fra l’altro, un colloquio per la carica di direttore del Museo etrusco di Villa Giulia a Roma. Succede che Irene Berlingò si ritrovi dal 1° febbraio 2017 senza stipendio, né pensione perché non è stato rispettato il preavviso di sei mesi, necessario per l’iter burocratico di attivazione dell’Inps. Succede, soprattutto, che la Soprintendenza di Reggio Calabria, cuore della Magna Grecia ricca di siti archeologici di importanza inestimabile, dal 1° febbraio sia rimasta senza guida.
Non sono cronache marziane. La storia di Irene Berlingò, 65 anni, socio corrispondente dell’Istituto archeologico germanico dal 2005, già direttrice di musei, funzionaria con un curriculum lungo tredici pagine, è la sintesi perfetta dell’inefficienza combinata con sciatteria e rigore burocratico tipica del grigiore italico.
“La Magna Grecia è il mio più grande amore, ho lavorato molto al Sud per questo motivo”, spiega Berlingò. Così è felicissima quando la spunta nella selezione per guidare la Soprintendenza di Reggio Calabria. “Un’immensa soddisfazione, una vita di studi premiata”, racconta oggi. È fine novembre 2016 quando s’insedia nella sede di piazza Castello sulla sponda calabra dello Stretto di Messina. “Ho 65 anni, credevo addirittura di finire nel buco della legge Fornero: chi è del 1952 non riesce ad andare in pensione prima di aver compiuto 66 anni e dieci mesi”. Invece, colpo di scena, il Mibact (orribile acronimo che indica il ministero dei Beni culturali e del turismo) invia alla Berlingò, in data 25 gennaio 2017, con cinque giorni di preavviso, il decreto di pensionamento “senza nessuna norma – non si dà pace l’archeologa – che li obblighi a farlo, in modo del tutto incomprensibile, decide di attuare questa strategia anche se produce di fatto di finire sotto organico, anche a livello di dirigenti”.
A rendere questa storia ancora più assurda c’è un altro particolare, che mostra quanto nello stesso palazzo di via del Collegio Romano nella Capitale, sede del Mibact, evidentemente non si parlino tra un ufficio e l’altro. Altrimenti non si spiegherebbe in che modo Irene Berlingò possa esser stata convocata dal Mibact per un colloquio previsto in data 20 gennaio, cinque giorni prima della ricezione del decreto di pensionamento datato 10 gennaio (sic.), per il posto di direttore del Museo etrusco nazionale di Villa Giulia a Roma. E non si spiega, senz’altro, il fatto che la decisione di mandare a casa – per utilizzare un’espressione molto in voga – l’archeologa il 1° febbraio significhi avere ancora oggi scoperto il posto di soprintendente di Reggio Calabria: “In corso di assegnazione”, si legge sulla pagina web ufficiale dedicata. Il ricorso della “pensionata” doveva essere discusso qualche giorno fa a Roma, ma il giudice ha rinviato l’udienza a novembre: il Mibact ha sostenuto la competenza del foro di Reggio. Peccato che nel contratto firmato dalla Berlingò c’è scritto il contrario. Ma il danno è fatto. “Figuratevi – racconta ancora l’archeologa pensionata forzatamente – che, al massimo della carriera da funzionario, prendevo 1700 euro al mese. Peraltro, mi avevano versato già lo stipendio di febbraio, ma se lo sono ripresi dal conto, tanto che pensai a una clonazione della mia carta bancomat”.
Massì, che importa del sito di Kaulon a Monasterace Marina e del più grande mosaico della Magna Grecia? Che importa della città antica di Locri Epizefiri e delle sue meraviglie da secoli sepolte? Che importa di Medma nella disperazione di Rosarno? Si aggiustino questi calabresi.

La Stampa 7.7.17
La “Particella Xi”
Ecco che cosa unisce la materia
Inseguita da anni, l’ha trovata il Cern grazie al Large Hadron Collider Servirà per capire una delle forze fondamentali della natura
di Piero Bianucci

L’anagrafe del mondo subnucleare registra una nuova particella, annunciata ieri a Venezia in apertura del convegno della Società Europea di Fisica. Si chiama Xi ed è esotica rispetto alla materia di cui siamo fatti. Mentre tutto il mondo che conosciamo è costruito con due tipi di quark leggeri, Up e Down, la particella Xi è costituita da due quark più pesanti, chiamati Charm, e da uno «normale», un quark Up. La cosa eccitante per i fisici è che mai finora due quark Charm erano stati osservati insieme. Singolare è anche l’assetto delle tre particelle che formano la Xi: i due quark Charm stanno al centro come un minuscolo sole e il quark Up gira loro intorno come un pianeta.
Nell’insieme, Xi è una particella alquanto massiccia. Pesa 3,6 GeV, cioè quasi 4 volte un protone. Ora i fisici cercheranno di produrre un grande numero di Xi per osservarne il comportamento e comprendere meglio i meccanismi dell’interazione forte, cioè la forza che regola i rapporti tra adroni, nome collettivo che si dà alle particelle pesanti. E poiché l’estremamente piccolo e l’estremamente grande dipendono strettamente l’uno dall’altro, alla fine potrà uscirne una migliore conoscenza dell’evoluzione stessa dell’universo.
La scoperta di Xi è interessante ma non rivoluzionaria. Anzi, l’esistenza di questa particella era prevista dalla teoria del Modello Standard e c’erano già indizi della sua esistenza. Non siamo dunque di fronte a una nuova fisica ma piuttosto a una conferma. L’importanza di Xi sta nelle possibilità di indagine che apre ad una sempre più robusta definizione del Modello.
L’osservazione di Xi è frutto di uno dei grandi esperimenti distribuiti lungo il gigantesco collider LHC del Cern di Ginevra, un anello di magneti superconduttori lungo 27 chilometri nel quale vengono fatti scontrare protoni che corrono in direzioni opposte a una velocità vicina a quella della luce. L’energia delle collisioni è la massima mai raggiunta in un laboratorio: LHC lavora a 14 TeV, cioè 14mila miliardi di elettronvolt. Per farsi un’idea di che cosa significa, l’energia in gioco nella vita quotidiana, per esempio quella dei fotoni della luce solare, è dell’ordine di un elettronvolt. A 14 TeV si ricreano le condizioni di energia che esistevano nell’universo miliardesimi di secondo dopo il big bang, un miscuglio di quark, elettroni, neutrini.
I quark previsti dal Modello Standard sono sei: l’ultimo, il quark Top, è stato trovato al Fermilab di Chicago nel 1995. I sei quark possono combinarsi in vari modi, alcuni consentiti e altri proibiti dalle leggi della fisica. Nel mondo ordinario, i nuclei atomici sono costituiti da protoni e neutroni, i quali a loro volta sono combinazioni di quark Up e Down. Solo in un mondo super-energetico compaiono gli altri quattro tipi di quark, le cui combinazioni sono in parte da esplorare. Xi è un passo in questa direzione. Non cambia niente nella nostra vita, non ci sono applicazioni immaginabili. Quello che è si è ottenuto è tassello di conoscenza pura. Il piacere della scoperta per la scoperta.
L’esperimento che ha rivelato Xi è noto tra i fisici come LHCb ed è pensato per indagare su violazioni della simmetria nelle particelle elementari, in particolare la simmetria di carica elettrica e destra/sinistra. Una terza simmetria è quella rispetto al tempo. Nella maggioranza dei casi le simmetrie sono rispettate. Ma sono le rare violazioni ad essere interessanti: si ritiene che una di queste violazioni abbia prodotto la scomparsa dell’antimateria e quindi l’universo che ora ci ospita.

La Stampa 7.7.17
“Così capiamo la forza che lega insieme l’Universo”
di Nicla Pancera

«Non era mai stata osservata sperimentalmente, ma sapevamo che prima o poi l’avremmo trovata, perché la sua esistenza era prevista dalle teorie attuali». È orgoglioso Alessandro Cardini,responsabile dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare dell’esperimento LHCb, uno dei quattro montati sul l Large Hadron Collider del CERN (gli altri sono ATLAS, ALICE e CMS) che ha osservato la nuova particella, chiamata X_cc^(++) (Xicc++) la cui peculiarità è quella di essere composta da due quark charm, pesanti, e da un quark leggero, e di essere quindi molto pesante, quattro volte più del protone. «Protoni e neutroni sono composti da tre quark, di cui solo uno pesante, ma le teorie fisiche prevedevano da tempo la possibilità di ottenere particelle formate da più quark pesanti».
Come è nata la vostra scoperta?
«Dal 2015 a oggi, nel corso del secondo periodo di funzionamento di LHC, il Run2, abbiamo osservato 300 particelle Xicc++ e un altro centinaio sono state riconosciute a posteriori negli esperimenti del Run1».
Finora ci avevano già provato, senza successo, altri esperimenti, come «BaBar» in California e «Belle» in Giappone.
«Anche al CERN, quindici anni fa, sembrò di avere visto qualcosa, ma le conferme non erano mai arrivate».
Come mai era così difficile?
«Capita spesso che fluttuazioni statistiche vengano interpretate come prova dell’esistenza di quanto si sta cercando. Solo dettagliate misurazioni spettroscopiche possono dire con certezza cosa abbiamo davanti».
Quindi, pur non essendo una vera e propria new entry nello zoo delle particelle, Xicc++ è motivo di grande orgoglio per i ricercatori. Vederla è stato possibile solo adesso. Perché?
«Grazie a una grande capacità degli strumenti di identificazione delle particelle e alla potenza dell’acceleratore, di 13 TeV, che ci ha consentito di acquisire dati di una purezza particolare».
«Trovare un barione con due quark pesanti è di grande interesse - aggiunge Giovanni Passaleva, il nuovo coordinatore della collaborazione LHCb - Perché può fornire uno strumento unico per approfondire la cromodinamica quantistica, la teoria che descrive l’interazione forte, una delle quattro forze fondamentali», cioè quella, ancora misteriosa, che tiene unite le particelle al nucleo atomico.
I ricercatori sono già al lavoro per misurare i meccanismi di produzione e di decadimento e la durata di vita della nuova particella. La speranza è che poterla vedere «nascere» e «morire» porti verso una maggior comprensione delle regole che creano la materia dell’Universo.

Repubblica 7.7.17
Quel dono stupefacente degli dei agli uomini
di Marco Belpoliti

Le prime droghe risalgono al Paleolitico. Ne parlano testi arcaici indiani. In Europa arrivano con Colombo. Inizia così un viaggio nella storia delle sostanze psicotrope
Che cosa è una droga? «Una sostanza che invece di essere vinta dal corpo (o assimilata come semplice alimento) è capace di vincerlo, provocando, seppur in dosi insignificanti se paragonate
a quelle di altri alimenti, grandi cambiamenti organici, psichici o di entrambi i tipi». Così scrive Antonio Escohotado autore di una monumentale Historia general de las drogas (1999). Non la vedevano certamente così gli sciamani dell’antichità, o gli estensori di trattati farmacologici, greci romani e arabi. Per loro era ancora qualcosa d’altro. Cosa? Per capirlo bisogna partire dalle erbe.
Quando Colombo e i suoi successori sbarcano nel Nuovo Mondo sono colpiti dal fatto che gli indigeni usino vegetali a loro sconosciuti per ottenere energia, oltre che celebrare i loro riti. I nomi sono: cohaba, coca, peyote, stramonio, ololiuqui, caapi, tabacco, e altri ancora. In Europa la maggior parte di queste piante sono ancora sconosciute. L’unica che fornisce risorse simili, ed effetti quasi analoghi, è la vite, oppure i cerali fermentati, da cui si ottiene la birra. I navigatori probabilmente non sanno che in Europa da migliaia di anni si fa uso di piante ed erbe per ottenere risultati simili a quelli che Pizarro e i suoi compagni vanno osservando.
C’è una cesura che separa il mondo moderno che sta per nascere, con la scoperta di Colombo, e il passato. Si chiama Medioevo. Questo periodo storico ha comportato una rottura con la tradizione medica dell’antichità, prima greca e poi romana. Le sostanze che chiamiamo “droghe”, tratte da erbe, arbusti, fiori e piante – cosiddette “naturali”– erano parte essenziale della farmacopea in uso. Ma c’è anche un’altra frattura, che precede questa, senza la quale non si capisce che ruolo avessero nel passato le sostanze che chiamiamo “droghe”. Tra il VI e V secolo a. C. nelle civiltà antiche tramontano le religioni estatiche sorte nel corso della preistoria, fondate sull’uso di sostanze “psicoattive”. Nonostante il perdurare di eventi misterici, religione e medicina si stanno separando a vantaggio della seconda. La medicina tende a diventare una realtà a sé. Le “droghe” prima di tutto curano.
Con il Medioevo cade però un interdetto sulla farmacopea fondata sul mondo vegetale. La caccia alle streghe mette al bando i farmaci antichi; il cristianesimo stabilisce un rapporto stretto tra droga, lussuria e stregoneria, decretandone la loro assoluta pericolosità. Le erbe curative sono ritenute uno degli elementi certi nelle pratiche sataniche. Nel Paleolitico l’Homo sapiens raccoglieva già radici, funghi ed erbe, e tra gli effetti che cercava con le sostanze usate c’era quello euforizzante. Lo sciamanesimo è il fenomeno che accompagna la conoscenza del mondo vegetale, e comporta capacità terapeutiche e insieme il dialogo con il mondo del divino. La farmacopea vegetale serviva a far “apparire” gli spiriti usando erbe dotate di proprietà psicoattive con reazioni stimolanti, effetti narcotici e sedativi, o stati inebrianti. Le sostanze provenienti dal mondo vegetale erano viste come una sorta di dono dato agli uomini dalle divinità per consentire di comunicare con loro. La prima droga-farmaco indicata in un testo arcaico, i Rg-Veda, è il soma, pianta magica e misteriosa, liquore estratto da piante sconosciute mescolato con miele e latte e altri elementi. La più antica delle fusioni di medicina, religione e magia, lo sciamanesimo, perseguiva lo scopo di gestire le tecniche dell’estasi cancellando le barriere tra veglia e sonno, cielo e terra, vita e morte. Il numero delle piante utilizzate era vasto: alloro, aloe, cannabis, cassia, olio di ricino, mirra, melograno, senape, oltre all’onnipresente papavero.
In Asia, e nella sua propaggine detta Europa, sono diffusi i funghi psicoattivi che producono visioni ed effetti inebrianti, il cui uso risale a tempi remotissimi. Viste con l’occhio del naturalista, due sono le tipologie chimiche e farmacologiche dei funghi: il gruppo dell’Amanita muscaria e quello dei funghi psilocibinici (Psilocybe e Panaeolus). L’Amanita è il più conosciuto, perché il più rappresentato in disegni e incisioni. Come fa notare Giorgio Samorini, etnobotanico, si tratta del fungo delle fiabe europee: grossa taglia e cappello rosso cosparso di macchie bianche. La sua indigestione provoca uno stato di ebbrezza che dall’euforia trascina alle visioni.
Prima che i funghi della visione tornassero di moda nel corso del XX secolo, grazie al lavoro etnografico di un banchiere americano, Robert Gordon Wasson, e della moglie, Valentina Pavlovna, erano perfettamente noti, tanto da essere presenti nelle rappresentazioni dell’antica arte rupestre del Sahara e in altri siti archeologici. Nel 1953, quasi cinque secoli dopo l’arrivo dei Conquistadores, i coniugi Wasson si recano in Messico, e due anni dopo, nel corso della loro terza missione, partecipano a una cerimonia in cui Maria Sabina pratica esperienze curative a base di funghi psilocibinici seguendo uno schema molto antico. Il 1953 è anche l’anno in cui William S. Burroughs va in Perù, Colombia, Panama ed Ecuador alla ricerca dello yagé, la liana amazzonica da cui si ricavano decotti, con lo scopo di raggiungere lo “sballo supremo”. Lo racconterà dieci anni dopo in Lettere dello yage, scambio epistolare con Allen Ginsberg, destinato a diventare un libro cult. Nello stesso periodo, un aspirante antropologo peruviano con studi californiani, Carlos Castaneda, sta completando la sua istruzione in Messico presso don Juan, come racconta in A scuola dello stregone (1968). Gli sciamani con le loro droghe sono tornati.
PER SAPERNE DI PIô
Sulle droghe in generale: Antonio Escohotado, Piccola storia delle droghe, Donzelli; Ugo Leonzio, Il volo magico, Einaudi; Henri Margaron, Le stagioni degli dei, Cortina; l’antologia curata da Elémire Zolla, Il dio dell’ebbrezza, Einaudi e Terence McKenna, Il nutrimentod egli dei, Apogeo. Sulle piante si vedano i libri di Giorgio Samorini, Mitologia delle piante inebrianti, Studio Tesi; Funghi allucinogeni, Telesterion; Allucinogeni nel mito, Nautilus; di W. S. Burroughs e A. Ginsberg: Le lettere yage, Adelphi; sulla ayahuasia si legga il romanzo di César Calvo, Le tre metà di Ino Moxo e altri maghi verdi, Feltrinelli; una guaritrice è raccontata in Vita di Maria Sabina. La sciamana dei funghi allucinogeni, Savelli. ( 1. Continua)

il manifesto 7.7.17
La memoria riesumata del presente
Diario. 1939-1945, gli anni che hanno segnato l’Italia repubblicana. «L’eredità» di Corrado Stajano
di Marco Revelli

Si può camminare sull’orlo di un precipizio senza neppure accorgersene. Ci si può avviare verso una catastrofe a occhi chiusi, senza neppur coglierne i segni. Ci sono voluti gli occhi di un bambino e i ricordi di un anziano, compresi in un’unica voce narrante, per darci la misura di questa nostra maledizione (personale e nazionale).
È questa la sensazione attualissima – sconvolgente – che ho provato leggendo il più recente libro di Corrado Stajano, appena pubblicato dal Saggiatore. L’Eredità (pp. 165, euro 18) di cui parla – e che dà il titolo al libro – è appunto questa storia depositata dentro di noi, costellata di tragedie reali e di normalità virtuali. D’illusioni attese e di rovine concrete. La demagogia della politica (meglio: del Potere) e le dure repliche della Storia.
AL PRINCIPIO E AL CUORE del libro il 1939 (la madre di tutte le tragedie). Un giorno di maggio, anzi, un pomeriggio. In una città di confine, Como. Un bimbetto in divisa da «Figlio della Lupa», inquadrato alla meglio con gli altri scolari, agita la bandierina tricolore distribuita dal «maestro nero», in orbace, in attesa del grande evento, la limousine di Stato con sopra due signori in divisa, coperti di decorazioni, le aquile dorate sui cappelli, che passano veloci, sorridenti e salutanti, tra la gente in festa, e sono già oltre, in un amen.
Erano Galeazzo Ciano e Joachim von Ribbentrop, si preparavano a firmare il «Patto d’acciaio», l’alleanza mortale dell’Italia fascista con la Germania di Hitler, («su un foglio di carta la giovinezza perduta di milioni di uomini») ma lì, a quell’angolo di strada, tra la cappelleria Rossini e la Casa dei filati col suo odore di vecchia bottega, sembravano il ritratto della bonomia e dell’amicizia.
Appena il tempo di ricordare frammenti di quella «tragica estate mascherata di serena letizia», i caffé eleganti affollati, l’orchestrina che suona canzoni leggere. E subito la scena cambia: le strade del centro di Milano devastate dalle bombe dei Lancaster alleati, macerie ovunque, con le case che mostrano impudiche i propri interni.
ORA IL BAMBINO fattosi ragazzo – sono passati quattro anni appena – si aggira attonito nei luoghi consueti caduti in rovina, Palazzo Marino sventrato. corso Magenta una grattugia, piazza San Fedele irriconoscibile. Sbircia tra i muri diroccati della «bella basilica delle Grazie», dove il Chiosco dei morti distrutto rivela, dallo squarcio di un muro, lo spettacolo leonardesco de L’ultima cena, miracolosamente sopravvissuta.
È L’AGOSTO DEL ’43. Tra poco Milano si riempirà di fabbriche dell’orrore, villa Triste con i sadici della Banda Koch, l’Albergo Regina a quattro passi dalla Scala, le urla dei torturati dalle SS. Una catena di sofferenze, prima che la festa d’aprile del ’45 ponga fine al terrore.
Sullo sfondo, la sfilata di ritratti, uomini e donne del regime, carriere folgoranti in camicia nera all’insegna della fedeltà al Duce e repentine cadute in disgrazia: come quella di Giuseppe Terragni, l’architetto del razionalismo fascista, ingenuo adoratore di un «fascismo onesto», passato dagli altari della Patria alla polvere e al ghiaccio della ritirata di Russia, da cui uscirà inebetito e disilluso per morire solo, a 44 anni, di trombosi alla vigilia del 25 luglio. O come quella di Margherita Sarfatti, la «Maga Circe del Fascismo», riverita e omaggiata amante del Capo, onnipotente signora dei Salotti letterari prima di essere emarginata dalla volubilità di Lui e infine travolta dalle leggi razziali. Una successione di mondi caduti. Le icone della fatuità del successo maturato all’insegna del servilismo e della dedizione a un uomo solo al comando.
È QUESTA L’EREDITÀ – la legacy, direbbero gli inglesi, il «lascito» – che dovremmo riattivare ogniqualvolta assistiamo a una parata, un Vertice, una Conferenza internazionale o un proclama governativo. Per imparare a guardar dietro ai sorrisi di circostanza o alle fotografie di gruppo. Per tentare di vedere il sotterraneo lavoro della Storia al di là delle verità di comodo o di regime, siano le conclusioni di un G7 o le Conferenze stampa di un Premier. Quando Schauble parla di Grecia. Quando Theresa May parla di Brexit. Quando Donald Trump parla di America great again. Quando Matteo Renzi parla dell’Italia che «cambia verso». Quando tutti insieme a Taormina parlano di clima. E ancora a quell’eredità dovremmo tornare, col pensiero, quando – tra un bail-in e un bail out di banche – leggiamo sui giornali la minaccia del Governo di chiusura dei porti in faccia ai soccorritori dei migranti, dopo aver ascoltato un Ministro dell’Interno che si dice «di sinistra» vantare gli accordi feroci con le «40 tribù» libiche del confine col deserto per respingervi i flussi di profughi.
DOVREMMO DISSEPPELLIRE dalla memoria – pure questo fa parte del «lascito» descritto da Stajano – quanto, meno di un secolo fa, fecero sulla stessa costa libica da cui partono oggi i barconi baldi italiani come Graziani e Badoglio: i 40.000 ammazzati in operazioni di repressione, e gli altri 100.000 in tutta la Cirenaica, a cui aggiungere lo sterminio di Etiopia, con l’uso sistematico dei gas, iprite, fosfene, i gioielli della nostra chimica. Anche nel convivere, silenziosi o inerti, di fianco a tutto ciò sta il nostro «danzare giulivi» sotto la «cappa nera» che ci oscura il futuro, in un tempo in cui – direbbe Montale, oggi come allora – «la bussola va impazzita all’avventura/e il calcolo dei dadi più non torna» (La casa dei doganieri, 1939).