sabato 8 luglio 2017

SULLA STAMPA DI SABATO 8 LUGLIO
https://spogli.blogspot.com/2017/07/sulla-stampa-di-sabato-8-luglio-il.html

Il Fatto 8.7.17
Ecco la nuova “Unità” liofilizzata in pdf
di Daniela Ranieri

La lotta politica italiana da oggi può contare su Democratica, il quotidiano digitale del Pd che ha di fatto sostituito L’Unità in coma farmacologico. Democratica è nuova, così stupendamente disintermediata: zero rotative, zero stamperie, niente piombo sulle dita. Solo un file Pdf, tecnologia all’avanguardia dal 1991. Una slide centellinata che esonda dalle conferenze stampa del leader, intride l’organo di partito pluri-indebitato e s’infila dritta nel popolo. Esteticamente Democratica è a metà tra Svegliatevi!, la rivista dei testimoni di Geova, e il volantino delle offerte di Mondo convenienza. L’impaginazione ricalca quella dei dépliant dei solarium dei Parioli e dei centri reiki di Fiesole, ma contiene il sangue della Nuova Alleanza. Ricordate la rubrica de L’Unità “Caro Segretario”, da cui l’allora nostro presidente del Consiglio rispondeva ai sudditi con quel suo modo malmostoso, liquidatorio, dannunziano? Scordatevela. Qui non c’è più relazione. Il Verbo si è fatto byte. Si può solo suggere e amare. Il primo numero si apre con la foto di due giovani con in braccio un cencio tricolore. Non si capisce se lo stanno portando in lavanderia o se la ragazza è una puerpera che ha appena deposto, in quelle pezze rivoltolate, il bebè partorito grazie al bonus mamme di Matteo. Sotto: “Ripartiamo dal Pd: al centro le idee, non le polemiche”, titolo che fa eco al grido degli operai nelle fonderie, dei precari senza futuro, degli incapienti bonus-esenti.
Vanno forte le periferie, se non altro perché lì il Pd perde. Un video ipertestuale (wow!) di unita.tv mostra Renzi incravattato che parla in una palestra del Corviale davanti a una folla di oltre 30 persone. L’editoriale del direttore Andrea Romano, premiato per la trionfale co-direzione de L’Unità, si scaglia contro l’antipolitica e i partiti-personali; alla buonora, finalmente un’autocritica.
Sul n.4, ecco “l’Italia che corre” dopo i 1000 giorni renzistissimi e i “60 anni della 500”. Praticamente è in un atto un nuovo boom economico. Il sapore è futurista: “Che la macchina italia sta riaccendendo i motori ce lo confermano… le associazioni imprenditoriali” tipo “Centro studi Confindustria”, quello che avvisò che se avesse vinto il No il Pil sarebbe sceso del 4% e avremmo avuto “600mila posti di lavoro in meno e 430mila poveri in più”. Segue un inchino al boss della Fiat che pare uscito dalla santa penna di Matteo: “E adesso che diciamo di Marchionne? Nonostante le critiche che molti di noi hanno rivolto a Sergio… la piena occupazione del settore auto è un dato di fatto. Voi che dite?”. Questo sì che è un giornale di sinistra, non quel fogliaccio fondato da Gramsci, ormai più volte rivoltatosi nell’urna, lui e la sua fissa di stare sempre dalla parte dei lavoratori sfruttati e ricattati.
Nel n.5, l’autorevole PDF tocca lo zenith: “Disabili/1: Maria Elena Boschi presenta il bando per le pari opportunità” (nel video, Santa Maria Elena di Calcutta guarisce gli infermi); accanto: “Disabili/2: Virginia Raggi sfratta la storica Onlus di Garbatella”.
Ultrapregio la rubrica dei “nativi dem” di Milano, che rivendicano di aver trasformato la festa di Liberazione in una parata giallo-blu dell’Ikea. Giovanissima la parte social: un copia-incolla dai Facebook e Instagram dei nostri beniamini, nel caso ce li fossimo persi: Martina, Faraone, Scalfarotto, finanche Ettore Rosato.
Cui prodest Democratica? A occhio, al renzismo, quel nucleo di energia dissipatrice che ha fatto poltiglia del Pd e dei pochi valori sociali e culturali che gli era rimasto di veicolare. Più probabile che serva a promuovere Avanti, l’opus maximum del leader di cui ieri ha pubblicato stralci agghiaccianti (“Noi non abbiamo il dovere morale di accogliere in Italia tutte le persone che stanno peggio… sarebbe un disastro etico, politico, sociale e alla fine anche economico. Noi non abbiamo il dovere morale di accoglierli (sic), ripetiamocelo… Ma vanno aiutati a casa loro”); poi probabilmente chiuderà, come gli hard discount. Intanto Egli, il Capo del Governo in contumacia, vi appare in alto, in basso, di lato, in bici (la stasi debilita, l’azione rinfranca), le braccia alzate, i capelli che gli ricadono sulla fronte a ciocche tipo Augusto di Prima Porta. Ovunque, suoi aforismi tipo esortazioni di Frate Indovino o messaggi subliminali su cartelloni luminosi di una città distopica. È convinto di essere il Macron italiano come i matti delle barzellette sono convinti di essere Napoleone. Nonostante i 20 milioni di italiani che hanno parlato a dicembre, da quest’orecchio continua a non sentirci e a propalare Co2 di storytelling digitale; un po’ come rimettersi a vendere Rolex finti a Porta Portese dopo una retata.

il manifesto 8.7.17
La nuova sinistra c’è. Manca la lista. Il forum al manifesto
Il forum si è svolto nella redazione del manifesto il 6 luglio scorso
Al forum hanno partecipato Massimo D’Alema (Mdp, presidente della Fondazione Italianieuropei), Nicola Fratoianni (segretario nazionale di Sinistra italiana), Maurizio Acerbo (segretario nazionale di Rifondazione comunista), Anna Falcone (avvocata, già vicepresidente del comitato del No al referendum costituzionale, il 18 giugno scorso ha promosso insieme a Tomaso Montanari l’assemblea del teatro Brancaccio), i professori Alberto Asor Rosa e Massimo Villone.
Identità, programma, unità. Per parlare a chi resta a casa e a chi ha cambiato partito. In questa delicata fase che precede le prossime tempeste elettorali, cerchiamo di capire se le iniziative al Brancaccio e a piazza Santi Apostoli abbiano isolato i protagonisti o al contrario abbiano mescolato le carte

ROMA Il manifesto lavora, non da oggi, per la costruzione di un processo unitario della sinistra, a volte anche spingendo il cuore oltre l’ostacolo. Lo abbiamo fatto avventurandoci in un dibattito, largo e partecipato, dal titolo «C’è vita a sinistra», per contrastare la penosa coazione del «pochi ma buoni», quella sindrome tafazziana che spinge la sinistra a riprodursi per scissioni infliggendosi una sconfitta dopo l’altra.
A volte ci sembra di combattere una battaglia donchisciottesca perché di fronte alle nostre divisioni, da un lato c’è una destra aggressiva e dall’altro un partito renziano neocentrista: liberale sui diritti civili, liberista sui diritti sociali.
In questa delicata fase che precede le prossime tempeste elettorali, cerchiamo di capire se le recenti iniziative – l’assemblea del Brancaccio e la manifestazione di piazza Santi Apostoli – abbiano avuto l’effetto di recintare e isolare i protagonisti in campo, o al contrario siano stati positivi tentativi di mescolare il panorama e allargare l’orizzonte. (norma rangeri)
IL MANIFESTO Quante chance ciascuno di voi, da uno a dieci, si sente di dare alla possibilità che alle prossime elezioni ci sia una lista di sinistra capace di raccogliere il consenso di quei milioni di ex elettori che non votano più?
falconeAnna Falcone – foto Ginevra Lucidi
ANNA FALCONE Guidata dall’ottimismo della ragione, mi sentirei di rispondere otto possibilità su dieci. Aver aperto un dibattito e averlo reso plurale ha fatto sì che le diverse anime si siano potute esprimere, magari in maniera critica ma comunque orientata alla convergenza. Certo, adesso non abbiamo posizioni comuni. L’appello che ho sottoscritto con Montanari partiva proprio dall’esigenza di dare una risposta positiva al titolo del dibattito promosso da voi: c’è vita a sinistra. Sì, ce n’è così tanta che non si può pensare di organizzarla secondo schemi vecchi. C’è un vasto popolo che vorrebbe poter votare qualcosa di serio a sinistra, non una realtà che faccia da stampella prima o dopo le elezioni a qualcosa di altro che non ha nulla più a che vedere con la sinistra. Per questo il programma deve essere ambizioso, capace di fare un vero e proprio upgrade alla democrazia.
Dobbiamo diventare un’area politica adulta, che non si limita a dire con chi vuole fare l’alleanza dopo le elezioni, ma che punta realizzare per questo paese un orizzonte nuovo. Se non c’è questa ambizione sarà difficile, non perché manca la volontà ma semplicemente perché non raccoglieremo il consenso dei nostri potenziali elettori.
    Il primo obiettivo è far partecipare tutti, con un patto su un programma innovativo. Ho l’ottimismo della volontà e darei a 8 su 10 le possibilità della lista
    Anna Falcone
NICOLA FRATOIANNI Dobbiamo intensamente lavorare perché si raggiunga l’obiettivo di una sola lista a sinistra del Pd, oggi direi che le possibilità sono insieme zero e dieci. Mi spiego. Attorno a noi c’è una domanda molto forte e generalizzata di unità. Questa volta, ci dicono, per favore dateci una cosa da votare, una cosa unica, evitate di metterci di fronte alla scelta tra due o persino tre opzioni che esprimono parzialità insoddisfacenti.
Allo stesso tempo le stesse persone ci dicono fate una cosa seria, che sia credibile per una radicale discontinuità. Non voglio fare un ragionamento su quel che è stato per distribuire patenti, al contrario penso che sia utile una sorta di condono reciproco: la politica non è un insieme di biografie fisse.
Avanzo però due punti. Il primo: la sinistra socialdemocratica ha fatto poco i conti con il riformismo. Che è diventato sempre di più il contrario di quello che era, cioè la costruzione graduale di un miglioramento nelle vite delle persone, un allargamento dei diritti. Il riformismo è diventato invece il terreno sul quale costruire mediazioni regressive. L’altro tema riguarda il governo. Si è confusa sempre più la cultura di governo, e cioè l’ambizione a misurarsi con la risposta alla complessità dei problemi, con la cultura dello stare al governo, l’idea cioè che il governo sia il fine al quale sacrificare tutto il resto nel nome del meno peggio. Nel frattempo le primarie americane o il risultato di Corbyn in Inghilterra ci parlano di una risposta diversa. Risposta diversa che bisogna avere la forza di proporre con chiarezza non solo per la campagna elettorale ma anche per anche per il dopo. Non sto proponendo di dire «mai un’alleanza di governo», sarebbe una sciocchezza. Penso per esempio al caso di Padova dove la coalizione che noi abbiamo sostenuto, che ha fatto addirittura l’apparentamento con il candidato poi vincente del Pd, è andata molto bene. Perché ha ricostruito un rapporto di forza.
    Ci chiedono di votare per una lista unica ma anche una radicale discontinuità. Come a Padova. Se non ci riusciremo sarà una sconfitta per tutti
    Nicola Fratoianni
MASSIMO D’ALEMA Noi abbiamo la fortuna di avere poco tempo. Si impongono delle scelte. Con ogni probabilità avremo una legge proporzionale, con una soglia di sbarramento che io spero sia sfidante e dunque molto utile per noi per rimuovere velleità di separazione. Sarebbe anche un modo di mettere l’elettore di fronte alle sue responsabilità: volete o no che ci sia la sinistra? Registro poi che c’è una convergenza sulle questioni programmatiche di un arco di forze abbastanza significativo. Date queste premesse, penso che sia doveroso, ma anche altamente probabile, che si vada verso una lista consistente, capace di porsi l’obiettivo di esercitare un peso reale nella vita politica italiana. Cosa che si può fare solo traguardando un risultato elettorale a due cifre.
Intorno a questo ci sono una serie di problemi, alcuni di medio-lungo periodo ma ugualmente importanti. Perché quando si parte per un viaggio bisogna avere un’idea dell’itinerario, non solo della prima tappa che nel nostro caso sono le elezioni. Se facessimo un cartello elettorale che si sfascia all’indomani del voto avremmo realizzato la catastrofe definitiva per la sinistra italiana. Che ciò non accada dipende anche dal modo in cui vengono poste determinate premesse. Fare una lista elettorale è certo un’operazione da condurre con rapidità, però siamo di fronte a una questione molto più grande, al problema della ricostruzione della sinistra molto al di là dei confini del nostro paese.
La sinistra non si è riavuta dalla crisi dell’orizzonte in cui si è costruita in occidente nel corso del secolo che abbiamo alle spalle, l’orizzonte dello stato nazionale, del compromesso sociale, del welfare. Oggi viviamo in uno scenario completamente diverso, quello della globalizzazione e della sua crisi. La destra appare spesso più convincente nel dare risposta al grande problema del nostro tempo che è il bisogno di protezione della gente. La base sociale della sinistra, tutto il mondo dei più deboli, è passato dall’altra parte e non solo in Italia.
Se noi vogliamo ragionare sul progetto ambizioso di una grande forza di sinistra non chiusa, che raccoglie anche una parte del mondo cattolico democratico, l’espressione «centrosinistra» non dobbiamo demonizzarla. Certo non deve essere riferita alla ripetizione di esperienze del passato, ma tanto più adesso che Renzi abbandona quella bandiera nel fango in favore di una prospettiva centrista, noi dobbiamo raccoglierla. Se non lo facessimo gli daremmo una mano.
FRATOIANNI Per restare alla tua metafora, temo che il fango abbia cambiato irrimediabilmente la bandiera del centrosinistra. Su questo non sono d’accordo con te.
D’ALEMA Bisogna riflettere su questa questione, ma non si tratta di essere più o meno d’accordo, è così. Dobbiamo collegare un’assai prossima operazione elettorale, fondamentale, con una riflessione di medio e lungo periodo su cosa è sinistra. Con l’obiettivo della creazione di una forza politica, non un cartello, certo con caratteri nuovi perché anche sulla forma partito c’è molto da pensare e innovare. Non basta invocare Corbyn.
    L’obiettivo è un consenso a due cifre per dimostrare di poter cambiare le cose. Ma la vera sfida per tutti è coinvolgere soprattutto i giovani e parlare con i milioni di persone che ormai non votano più
MAURIZIO ACERBO Noi lavoriamo con il massimo impegno affinché ci sia una lista unitaria a sinistra, la proponiamo da anni, non so però se sia la stessa lista a cui pensa D’Alema.
Una lista pacifista, antiliberista ed ecologista c’è in tutti i paesi europei. In Italia no perché da noi la forza dell’ideologia neoliberista è tale che molti di quelli che dovrebbero concorrere con noi a fare quello che i compagni di Podemos fanno in Spagna, Syriza fa in Grecia e Mélenchon fa in Francia continuano a ragionare in termini di centrosinistra.
I problemi vanno un po’ oltre l’anti-renzismo. Io spero che si sviluppi una grande forza politica del centrosinistra europeo ma in Italia non vedo nessun Corbyn e nessun Sanders. Persone che diventano degli eroi popolari perché per 30 anni hanno tenuto fede agli ideali della loro gioventù opponendosi al neoliberismo e alla guerra.
Bisogna rendersi conto che Renzi non è il frutto del destino cinico e baro ma è l’esito del percorso che c’è stato nel Pd, in quel centrosinistra che non ha abolito il cumulo dei vitalizi né è stato capace di accettare la sfida di Grillo su Rodotà presidente della Repubblica.
Non sono d’accordo con D’Alema, non è passata a destra la base sociale della sinistra, sono stati i dirigenti della sinistra che per quella base sono passati dall’altra parte. E allora è ovvio che i più deboli, quelli che stanno in basso quando non ha punti di riferimento vanno da tutte le parti.
Nel Regno Unito gli stessi che avevano votato per la Brexit sfogando a destra la loro rabbia sociale, hanno votato Corbyn spostando a sinistra l’asse del paese. Rifondazione comunista e Sinistra italiana dovrebbero allora lavorare alla costruzione di una grande forza politica riconoscibile di sinistra. Anche perché se non ci fosse un’altra sinistra rispetto a quella di piazza Santi Apostoli, condanneremmo la gente a scegliere tra l’astensione e il voto al Movimento 5 Stelle.
Ci viene proposto di essere una ruota di scorta invisibile al progetto di Pisapia e Bersani? No grazie. Dopo di che non escludo che, come in Spagna e in Portogallo, la sinistra possa poi sfidare le forze socialdemocratiche a governare insieme.
Ma dopo che è stata capace, com’è in Spagna e Portogallo, di costruire una prospettiva autonoma. Sto parlando di formazioni politiche che hanno il venti per cento.
D’ALEMA È chiaro il modo in cui Acerbo intende il processo unitario: anziché una lista ne vuole fare due.
    Si deve essere disponibili a mettere in discussione qualcosa, non nei principi e nei valori ma nei programmi, altrimenti ognuno resta solo
IL MANIFESTO Per costruire un processo unitario ciascuno deve essere disposto a mettere in discussione la sua verità, non nei principi e nei valori ma nei programmi. Altrimenti ciascuno pensa di fare la rivoluzione a casa sua e intanto gli equilibri del paese si spostano a destra.
La discussione che c’è stata poco fa sulla «bandiera» del centrosinistra dimostra che, al contrario di quanto invocato da Fratoianni, sono proprio la storia recente e persino le biografie a rendere faticoso il processo unitario, assai più che la discussione sui programmi. La differenza con D’Alema è nel giudizio sul centrosinistra che è stato. È vero che una difficoltà del genere si amplifica nel momento in cui il processo è tutto giocato a livello di vertici, però nelle due occasioni in cui si è tastato il polso agli elettori, Brancaccio e santi Apostoli, non si sono fatti certo passi in avanti. E allora perché non approfittate della grande occasione offerta dalla legge elettorale che, è praticamente certo, sarà proporzionale con soglia di sbarramento almeno al senato alta, e avanzate una proposta politica unitaria e di sinistra contro Renzi e il suo partito semi personale? Senza dubbi o sfumature. Il problema del centrosinistra magari verrà dopo, magari non verrà mai. E sarà diverso affrontarlo con una forza elettorale consistente che solo una lista unitaria alternativa al Pd, auguriamocelo, può conquistare.
FALCONE Non è questione personale, Pisapia, Fratoianni o chi altro, ma di coinvolgimento delle persone. La metà degli italiani ha rinunciato a partecipare alla dinamica democratica, c’è rifiuto della democrazia meramente rappresentativa. A questo punto il primo obiettivo è di farli partecipare.
E allora noi abbiamo la forza di costruire insieme un grande incontro nazionale, di convocare una convention? Servono coraggio, metodo democratico e credibilità e quest’ultima non è data soltanto dalle biografie, ma dalla capacità di stringere un patto, un vincolo forte su un programma innovativo.
    Lavoro, ambiente, università e ricerca, casa, pace, sostegno universale al reddito. Non è impossibile un programma chiaro e condiviso
FRATOIANNI Il dissenso con Massimo D’Alema sul centrosinistra forse ha anche a che fare con la storia recente ma in realtà io penso che se andassimo in giro nel paese a chiedere chi ci governa oggi la risposta sarebbe «il centrosinistra». Perché Renzi non ha affatto rinunciato a quella parola, lui dice «il centrosinistra sono io», o meglio, «senza di me non c’è il centrosinistra». Quello che oggi è assente in questo paese è una sinistra degna di questo nome.
Certamente servirebbe cominciare a discutere del programma. Sabato ho scritto una lettera aperta a Pisapia, alla quale non ho ricevuto risposta. Non è che mi sia offeso ma così l’interlocuzione è difficile. Fischiare Gotor al Brancaccio è stato certamente un grave errore e io l’ho applaudito per le cose che ha detto ma i fischi non mi spaventano perché arrivano quando ci si confronta. Dico che dobbiamo passare al merito delle questioni.
Per esempio, se riparte il dibattito sulla legge elettorale io penso che la sinistra debba battersi per una legge elettorale proporzionale. Sul lavoro, vogliamo dire che si cambia strada e si propone la reintroduzione ed estensione a tutti dell’articolo 18? Siamo d’accordo su una misura universale di sostegno al reddito? Sulla riduzione del tempo di lavoro? E poi, a proposito di protezione, cosa diciamo sulla casa, la sanità, la scuola e l’istruzione universitaria?
Da queste questioni può partire lo sforzo di ricostruire un punto di vista sul mondo. Potremmo scoprire che costruire un programma chiaro e condiviso è molto più semplice del previsto. Oppure che ci sono differenze non componibili tra noi ma almeno in questo caso sapremmo perché non è possibile una lista unitaria, cosa che io considererei una sconfitta. Un’ultima cosa per non eludere il tema della leadership che certo si pone. Non ne abbiamo una che si impone perché tutti la riconoscono e allora dobbiamo trovare un percorso democratico per sceglierla. Sono pronto da subito a tutte le tappe che vogliamo.
    Spero in una soglia di sbarramento sfidante, utile per rimuovere velleità di separazione. L’obiettivo è creare una forza politica non un cartello elettorale
    Massimo D’Alema
D’ALEMA Se noi facciamo una convention per discutere di tutte queste cose temo che sarebbe un evento assai confuso, andrebbe per lo meno preparato. Quanto a Mdp, noi abbiamo ampiamente avviato questa discussione. Abbiamo fatto un’iniziativa programmatica e abbiamo delle idee sulle quali ci siamo già confrontati. Vorrei dire una cosa sulle biografie. Giuliano Pisapia è stato deputato di Rifondazione comunista, candidato sindaco di Milano di Sel contro il candidato Pd, che ha battuto, se c’è uno che dovrebbe avere delle obiezioni su Pisapia sono io, non voi.
FRATOIANNI Io non ho posto questo problema.
D’ALEMA Vogliamo fare una discussione sul centrosinistra? La faremo. Io sto organizzando un convegno scientifico sul tema, sarà una cosa molto significativa e importante.
ALBERTO ASOR ROSA Questo in genere si dice a posteriori.
D’ALEMA Allora farò una cosa che ha l’ambizione di essere significativa e importante, va bene?
ASOR ROSA Questa è una deviazione dalla tua tonalità caratteriale dominante, ma noi l’apprezziamo molto.
D’ALEMA Pisapia ha parlato in piazza Santi Apostoli. Ha fatto un discorso nel quale ha detto che è per il ripristino dell’articolo 18. Che è contrario alla parola d’ordine «meno tasse per tutti» perché chi ha di più deve pagare di più. Ha detto che bisogna tassare i patrimoni, cosa che spesso fa paura anche a sinistra.
È stato molto netto, certo con il suo tono, nel dire che ci vuole una discontinuità rispetto all’esperienza di questi anni. A me pare una buona base di discussione. Non sono un fan di nessuno, sono un dalemiano critico.
ASOR ROSA A questo crediamo poco.
D’ALEMA Sono critico, moderatamente critico. Ma comunque quando parliamo di Pisapia non stiamo parlando di una quinta colonna della reazione in agguato. Santi Apostoli non è stata una manifestazione oceanica, vero, d’altro canto è stata organizzata in pochi giorni per un pomeriggio di luglio. Ma sicuramente ha fatto fare un salto di qualità a questo progetto, ne hanno parlato giornali e telegiornali, ha preso quota nella larga opinione pubblica.
Pisapia ha preso atto che la sua ipotesi iniziale di creare una forza che potesse condizionare il Pd attraverso un rapporto coalizionale sta perdendo consistenza. Di conseguenza si sposta, e lo ha detto chiaramente, verso la creazione di una forza politica in competizione con il Pd di Renzi sulla base di un programma più avanzato. E abbiamo molte idee convergenti su fisco, lavoro, Europa che vanno senz’altro approfondite, aggiungerei che dobbiamo avere una proposta forte sul mondo giovanile per i tre milioni che né studiano né lavorano.
Abbiamo gli elementi su cui aprire una discussione nel paese un confronto su un certo numero di punti programmatici. Immagino comitati promotori ai quali partecipano le forze politiche ma anche i cittadini e le associazioni, non vedo scogli insormontabili lungo questo cammino. È meglio che il processo parta con un manifesto programmatico di sette-otto punti, magari esposti in modo problematico, che con un’iniziativa nazionale che può invece arrivare alla fine.
Intanto nessuno si deve fermare nell’organizzazione delle proprie forze, sperando che a un certo punto decideremo di conferirle a una forza comune. Agli elettori dobbiamo dare l’idea di essere in condizione di costruire una formazione politica a due cifre, in grado di incidere. Perché la gente non chiede la luna, chiede che siamo in grado di fare qualcosa di quello che proponiamo. Ed è disamorata dalla politica. Non è che se diciamo «noi siamo la sinistra» allora tutti si accodano commossi dietro le nostre bandiere. A Genova ha votato il 35% e c’era la lista di sinistra, che è andata male.
La percezione di forza è essenziale, la capacità di attrazione è proporzionale alla massa. È un principio della fisica ma anche della politica.
    Berlusconi, Salvini e Grillo sono avversari dichiarati, è Renzi che va smascherato. Se alle elezioni lui si rafforza, la sinistra ha chiuso per molti anni
    Alberto Asor Rosa
ASOR ROSA Le priorità oggi sono più politiche che programmatiche. Il nostro fondamentale avversario è Matteo Renzi. Più di Berlusconi, Salvini e Grillo che sono avversari dichiarati, Renzi va invece smascherato. Se esce dalle prossime elezioni rafforzato, di tutti i discorsi che abbiamo ascoltato non resterà traccia per anni.
Per evitare che questo accada bisogna che ci sia una lista unitaria. Altrimenti le sinistre sono destinate a una matematica sconfitta. Il problema del programma è importante, ma vorrei dire che anche la formazione di una lista elettorale unitaria fa parte di un programma politico strategico, non è una cosa separata di cui si possa discutere separatamente o peggio posteriormente. Non funziona che siccome siamo d’accordo su tutto dunque facciamo la lista unitaria, né siamo in Inghilterra, dove Corbyn rappresentava comunque una forte componente unitaria laburista. Siamo in Italia e le condizioni dello scontro sono assai più complicate.
A proposito del famigerato centrosinistra, a Fratoianni dico che in Italia non c’è prospettiva di governo senza lavorare per un centrosinistra. È matematico. Una sinistra sola e separata non arriverà mai a governare. La scelta di non scegliere la strada di un governo possibile è assolutamente legittima, anche fortemente comprensibile, ma è un’altra cosa. E Renzi è il massimo avversario del centrosinistra, tutto quello che immagina, pensa e dice volge in direzione contraria al centrosinistra.
D’ALEMA Basta vedere l’aggressione a Prodi, nella quale non lo seguirei.
ASOR ROSA Se ci si batte contro Renzi ci si batte per un centrosinistra diverso. La domanda quindi non è se possiamo farlo con Renzi, questione che ovviamente non si pone perché è impossibile. La domanda autentica è se la sconfitta di Renzi possa restituire oppure no quel che resterebbe del Pd a una prospettiva di centrosinistra.
Sconfiggere Renzi dovrebbe significare anche recuperare una parte di quelle forze a una prospettiva di governo di centrosinistra. Se le cose stanno così, per fare la lista unitaria basterebbe il massimo dei consensi possibili.
Non la totalità. Bisogna che ci siano quelle sette o otto cose intorno alle quali le discriminanti siano chiare ma non dirimenti. Nel senso che chi ha delle riserve su questo o su quel punto può non essere estraneo alla prospettiva della lista elettorale comune. Bisogna avere il senso delle opportunità e dei limiti storici.
    Bisogna essere pronti con qualsiasi legge elettorale. Arrivare a due cifre è condizione di sopravvivenza. Per la lista unitaria vedo cinque possibilità su dieci
    Massimo Villone
MASSIMO VILLONE Se si dovesse votare oggi, ve lo dico da cittadino elettore, non voterei per nessuno di voi. Perché nessuno di voi mi ha convinto, vorrei che fosse chiaro. Naturalmente spero che la situazione cambi nel poco tempo che abbiamo. Per riprendere la domanda iniziale di Norma, direi che abbiamo cinque possibilità su dieci che si faccia questa lista unitaria, ma se non si fa per settembre-ottobre vuol dire che non si fa più. A quel punto saremo già nella battaglia elettorale.
Io credo che in questo paese ci sia una domanda di sinistra, ci siano esigenze di sinistra ma questo non significa necessariamente che ci debba essere un soggetto politico di sinistra che li rappresenta. E non basta una convention a risolvere questo problema, non c’è nulla di più ingannevole di confrontarsi con qualche centinaio o migliaio di entusiasti.
Il problema sono sempre i milioni che stanno fuori. Io ancora sto cercando di capire perché Pisapia ha dato un assist a Renzi con quella proposta di partecipare alle primarie, personalmente non sono tanto disposto a metterlo da parte. Come pure il suo sì al referendum costituzionale.
D’ALEMA Ma Renzi ha risposto di no alla proposta di primarie.
Massimo Villone - foto Ginevra Lucidi
Massimo Villone – foto Ginevra Lucidi
VILLONE Il problema è nel fatto che Pisapia glielo abbia proposto. Dici che l’ha fatto apposta per farsi rispondere di no? Allora io non sono abbastanza sofisticato. Aggiungo che la questione della legge elettorale non è detto che sia chiusa, possiamo immaginarne una perfettamente coerente con le sentenze della Consulta e omogenea tra camera e senato, ma che stermina la sinistra. Non possiamo far conto che tutto vada come noi pensiamo debba andare e bisogna essere pronti a sopravvivere con qualsiasi legge elettorale. Arrivare a due cifre è una condizione di sopravvivenza. Ma dove si trovano questi voti? Si può grattare qualcosa dal Pd ma non tanto. Nemmeno dal M5S si prenderà tanto, vorrei che non ci facessimo illusioni.
Bisogna allora andare sui giovani e sugli astenuti. Bisogna fare una campagna mirata. Per esempio Corbyn ha proposto di azzerare le spese per l’Università. Non basta dire ai giovani «farò qualcosa per te», devi avere una proposta credibile che dica cosa, come e con quali risorse. Altrimenti vanno nella protesta dei 5 Stelle. Anche il non voto è ormai consolidato e non è facile convincere uno che da tre giri elettorali non va alle urne a votare per te.
Conclusione: non possiamo fare una campagna elettorale generica dai toni blandi. Servono proposte mirate e forti e soprattutto contro il Pd. Perché il Pd farà inevitabilmente la campagna contro la sinistra.
    Non ci può essere un accordo politico strategico con chi non è alternativo al partito socialista. Difficile pensare di unirsi solo per battere Renzi
    Maurizio Acerbo
ACERBO Sul fatto che la lista unita non può essere un elemento del discorso politico strategico sono molto d’accordo con Asor Rosa.
ASOR ROSA E questo mi preoccupa un po’.
ACERBO Probabilmente fai bene a preoccuparti. Perché dal mio punto di vista non ci può essere un accordo politico strategico con chi non è alternativo al partito socialista. Mi sembra molto difficile che in Italia si possa pensare a una confluenza solo sull’obiettivo di battere Renzi. Il tentativo c’è stato, nella convocazione dell’assemblea del Brancaccio, ma Pisapia ha risposto che non c’erano le condizioni. La sua leadership non mi pare che possa raccogliere i giovani e il popolo del no, tantopiù che lui ha votato sì.
Io sono preoccupato perché Fratoianni, Falcone ed io rischiamo così di perdere altri mesi e veder sfumare la possibilità che ci sia una lista di sinistra e dei movimenti che vada oltre il 5%. E voglio dire meno male che Mélenchon non si è ritirato quando Hamon glielo chiedeva. Oggi in Francia ci sono due gruppi a sinistra del partito socialista che hanno più parlamentari di Le Pen. Hanno avuto il coraggio di portare avanti una proposta di sinistra-sinistra, cosa che dovremmo fare anche in Italia.

La Stampa 8.7.17
L’Unesco: la Tomba dei Patriarchi di Hebron è un sito palestinese
Durissima reazione di Israele: decisione delirante. Netanyahu taglia 1 milione di dollari di fondi
qui
http://www.lastampa.it/2017/07/07/esteri/lunesco-la-tomba-dei-patriarchi-di-hebron-un-sito-palestinese-IWtXXct0SCDJtgnOqf7DDP/pagina.html

il manifesto 8.7.17
Amici come prima: intesa Putin-Trump su Siria e Ucraina
G20. L’incontro di oltre due ore si chiude con l’annuncio di una tregua nel sud-ovest del paese mediorientale. Distanze sulla crisi coreana
Yurii Colombo

MOSCA Dopo mesi di gossip, scandali, spy-stories stile guerra fredda, messaggi a distanza l’atteso incontro tra Putin e Trump, nella cornice del G20, alla fine si è tenuto.
Incontro atteso non tanto per quanto avrebbe caldeggiato Putin – la politica estera russa è relativamente intelligibile – quanto per comprendere l’approccio che Trump e la sua squadra intendono avere nei confronti del Cremlino.
Non è un mistero che la politica estera della nuova amministrazione statunitense sia stata dominata sin dall’inizio dall’improvvisazione e da spinte centrifughe.
All’incontro hanno partecipato anche i rispettivi ministri degli esteri, Sergey Lavrov e Rex Tillerson. I russi in realtà avrebbe voluto allargare l’incontro ad altri specialisti degli staff ma la Casa Bianca ha rifiutato, trincerandosi dietro la sensibilità degli argomenti da trattare.
Il colloquio serviva ai due leader per annusarsi, ma soprattutto per mostrare le proprie carte su tutti i più scottanti scenari della politica internazionale, con un occhio puntato anche agli altri attori in gioco: l’Unione europea a guida Merkel e il gigante cinese.
Le attese non sono andate deluse. Non si è trattato come alcuni pensavano di un incontro di routine, anzi. Il programma prevedeva un format di 40 minuti ed è invece durato ben 2 ore e 15 minuti.
I due presidenti sembra abbiano trovato una lingua comune su Siria e Ucraina, mentre – come ha ammesso Tillerson – «le distanze sulla crisi coreana restano significative».
Quando l’incontro era ancora in corso la Associated Press ha fatto trapelare la notizia, citando membri dello staff americano, che «gli Usa e la Russia hanno raggiunto un accordo per un cessate il fuoco nella Siria sud-occidentale a partire dal mezzanotte del 9 luglio».
L’accordo prevede anche il coinvolgimento di Israele e Giordania. Un segnale forte dopo che le trattative di Astana tra Turchia, Russia e Iran per la «de-escalation» in Siria erano fallite qualche giorno fa.
Dopo il meeting il presidente americano si è recato a cena accompagnato da Melania senza fare dichiarazioni mentre Putin ne ha rilasciata una breve a margine dell’incontro con il premier giapponese.
«Ho avuto una lunghissima discussione con il presidente degli Stati uniti. Abbiamo affrontato molte questioni come la Siria, l’Ucraina… Siamo tornati sulla questione della lotta al terrorismo e della cyber-security», ha affermato il presidente russo.
Molto più ciarlieri i ministri degli esteri. Il segretario di Stato Tillerson, nel confermare il cessate il fuoco nel sud-ovest della Siria, ha dichiarato che «questo primo risultato potrebbe condurre a una più estesa collaborazione in Siria per giungere a una transizione che eventualmente porti alla emarginazione di Assad».
Un «dettaglio» clamoroso, non confermato dal Cremlino. Putin, in un’intervista a Fox News aveva fatto baluginare questa ipotesi («La Russia in Siria non difende tanto Assad quanto l’unità statale del paese»), improbabile visti gli interessi russi nella regione.
Trump, probabilmente a uso dell’opinione pubblica americana, è poi tornato sulle presunte interferenze russe nella politica interna statunitense, un’accusa che Putin ha rispedito cortesemente al mittente, negando «qualsiasi tentativo passato o presente di condizionare la vita politica del vostro paese».
Sergey Lavrov il capo della diplomazia russa, da parte sua ha dichiarato che «l’incontro è stato molto concreto» e potrà condurre a novità importanti non solo sul piano bilaterale. Infatti gli Usa sembrerebbero intenzionati a tornare protagonisti nella crisi ucraina.
Secondo quanto afferma la sempre ben informata agenzia russa Ria Novosti, gli Stati uniti sono intenzionati a fare pressione sul presidente Poroshenko perché – in cambio di sostanziosi investimenti americani nell’agricoltura ucraina – acceleri la regolazione pacifica della crisi del Donbass.
La piattaforma di un accordo secondo Lavrov resterebbe quella già definita: «Andremo a creare un canale di comunicazione con i rappresentanti americani per utilizzare ogni risorsa per risolvere la crisi ucraina sulla base degli accordi di Minsk e usare tutte le potenzialità che esistono nel gruppo di contatto e nel Formato Normandia» ha specificato il ministro degli esteri del Cremlino.

La Stampa 8.7.17
Migranti, Renzi contro tutti
Bufera sul segretario Pd Matteo Renzi dopo la pubblicazione di uno stralcio del suo libro «Avanti» in cui chiede «un numero chiuso sui migranti» e invita il governo ad aiutarli «a casa loro»
La base del partito in rivolta: «Ormai parla come Salvini». Ma da Amburgo il premier Il leader del partito democratico: “Aiutiamoli a casa loro”. Rivolta nella base
di Francesca Schianchi

«Aiutiamoli a casa loro» lasciando da parte «il buonismo» e i sensi di colpa: «Non possiamo accoglierli tutti noi», occorre «stabilire un tetto massimo di migranti». Firmato, il segretario del Pd, Matteo Renzi. Giovedì, nella direzione del partito, aveva fatto cenno al tema dell’immigrazione come quello che «ci accompagnerà per i prossimi dieci mesi di campagna elettorale»; ieri ha fatto pubblicare a «Democratica», il quotidiano on line dei dem, uno stralcio del suo libro, «Avanti», in uscita la settimana prossima, che, lui stesso ripeteva nei giorni scorsi, «farà molto discutere». Esattamente quello che è successo, dopo che alcuni brani vengono ripresi dall’ufficio stampa Pd e diffusi sui social network: attacchi da Sinistra italiana e Mdp («sei come Salvini»), rete che ribolle di polemiche e sfottò, post che viene rimosso e il segretario in persona su Facebook interviene tentando di spiegare meglio cosa intende.
«Vorrei che ci liberassimo da una sorta di senso di colpa. Noi non abbiamo il dovere morale di accogliere in Italia tutte le persone che stanno peggio. Se ciò avvenisse sarebbe un disastro etico, politico, sociale e alla fine anche economico - si legge nel volume in uscita -. Noi non abbiamo il dovere morale di accoglierli, ripetiamocelo. Ma abbiamo il dovere morale di aiutarli. E di aiutarli davvero a casa loro». In che modo, cerca di spiegarlo meglio dalla vetrina di Facebook, una volta che si rende conto che ripetere lo slogan della Lega di Salvini rischia di fare insorgere il popolo della sinistra: «Ho fatto una scommessa affascinante: parlare di cose serie sui social» senza «rincorrere i “mi piace”», invita quindi a non fermarsi ai titoli, aiutarli a casa loro «significa aumentare i denari per la cooperazione internazionale, noi lo abbiamo fatto», è «un progetto articolato, complessivo». Segue gragnuola di commenti, a cui Renzi risponde: tra cui militanti che minacciano di «strappare la tessera dem» o che lamentano una linea «che cambia dall’oggi al domani».
Ancora, «sostenere la necessità di controllare le frontiere non è un atto di razzismo, ma un dovere politico», scrive, e serve «un “numero chiuso”» perché «un eccesso di immigrazione non fa bene a nessuno»: frasi che spiazzano, eppure, dice Renzi «il controllo dell’immigrazione non è un atto di razzismo, ma di ragionevolezza», nonostante «il buonismo filosofico e l’utilitarismo universalista di certa classe dirigente e dei raffinati “ceti riflessivi” di alcune redazioni».
Una stretta nella linea del Pd sull’immigrazione, arrivata dopo le polemiche delle ultime settimane - la minaccia italiana di chiudere i porti seguita dalla sostanziale inerzia dei colleghi europei - che viene subito interpretata come uno spostamento a destra, una concessione al populismo e alle paure dell’opinione pubblica («diffidate dalle imitazioni, anche l’altro si chiama Matteo», scrive velenoso Pippo Civati alludendo a Salvini). Ma che Renzi prova a bilanciare con una posizione «di sinistra», sostenendo la riforma della cittadinanza, lo Ius soli temperato: «Un fatto di umanità, di giustizia».
Come giusto sarebbe che l’Europa si impegnasse nella gestione dei flussi: si taglino le risorse ai Paesi che non accolgono migranti, «loro bloccano i porti e noi blocchiamo i fondi», ripete nella rassegna stampa mattutina del Pd una proposta lanciata il giorno prima in Direzione. E proprio sulle scelte passate europee si apre un’altra polemica: «Aver accettato i due regolamenti di Dublino, come hanno fatto gli esecutivi del 2003 e del 2013 è stato un errore clamoroso», scrive Renzi, e cita Emma Bonino con l’intento di smentirla, visto che lei, nei giorni scorsi, aveva attribuito all’Italia governata da Renzi la richiesta di gestire gli sbarchi. Ma l’ex ministra insiste: è la missione Triton, inaugurata durante l’esecutivo del leader Pd, a prevedere «che tutti gli sbarchi debbano avvenire in Italia». E dal M5S attaccano: «Renzi, fino a che punto hai svenduto il nostro Paese?».

il manifesto 8.7.17
«Aiutiamoli a casa loro». E la Lega di Salvini finì per copiare il Pd di Renzi
di Roberto Ciccarelli, Massimo Franchi

Clamoroso autogol mediatico del Pd. Una «card» riprendeva una frase contenuta nel libro di Matteo Renzi sui migranti da aiutare «davvero a casa loro». Le inviperite reazioni social («Ma siete come la Lega!», le più educate) hanno portato a cancellare il post. Ma la frittata ormai era fatta. E lo stesso consulente social di Matteo Salvini (Luca Morisi) ne ha approfittato rilanciando con la versione firmata dalla Lega: «Scegli l’originale». Renzi poi ha cercato di metterci una pezza in un post successivo intitolato «Lotta alla superficialità». Con poco successo. Tanto che perfino Enrico Mentana in un post su facebook intitolato “Il caso Mattei” ha stigmatizzato questo comune sentire tra i due leader del Pd e Lega accomunati dallo stesso nome. Il tutto mentre su twitter il trend topic più in voga era #renzirispondi lanciato dal Movimento 5 Stelle per accusare Renzi di posizioni troppo morbide sull’immigrazione. A questo campionato di chi supera a destra la destra ha partecipato anche Forza Italia: “Diffidate dalle imitazioni” è stato scritto sull’account twitter del partito. E ora, cosa farà Renzi con il suo libro? Lo ritirerà dalle librerie, nel disperato tentativo di correggere il disastroso passaggio xenofobo, oppure lascerà le bozze al suo editore percorrendo la strada fotografata sulla copertina verso la leghizzazione completa del Partito Democratico? Con questa uscita il segretario del Pd ha voluto celebrare la fine del rapporto della “sinistra” “con la logica buonista e terzomondista per cui noi abbiamo il dovere di accogliere tutti quelli che stanno peggio di noi”.

Corriere 8.7.17
«Aiutiamoli a casa loro». Polemica sul post di Renzi
Una sintesi del libro del leader pd su Facebook (e poi cancellata): non abbiamo il dovere morale di accogliere i migranti
Critiche dai militanti: parole da leghista. E Salvini rilancia: «Lo prendiamo noi». Gentiloni: no agli ingressi illimitati
di Mariolina Iossa

ROMA Migranti? «Noi non abbiamo il dovere morale di accoglierli, ripetiamocelo. Ma abbiamo il dovere morale di aiutarli. E di aiutarli davvero a casa loro». Questo cartello, che rimandava a un link con la sintesi delle idee di Matteo Renzi sull’immigrazione nel suo libro «Avanti» in uscita mercoledì, è stato postato sulla pagina Facebook del Partito democratico. Poi è stato cancellato. Il segretario del Pd «non» dice cose di sinistra, e il suo partito si sente in imbarazzo per i tantissimi post critici degli stessi militanti che si sono sentiti improvvisamente così «vicini» alla Lega.
Salvini ne approfitta: «Se dico queste cose sono razzista se le dice lui no?». E se la ride, insieme al suo consigliere politico Luca Morisi, che sempre su Fb posta il cartello a firma Renzi e accanto un altro uguale, con la firma del leader del Carroccio. «Amici del Pd, lo prendiamo volentieri noi. Grazie per il lavoro. p.s. Scegli l’originale».
La polemica dilaga e Renzi è costretto a difendersi, ancora una volta su Fb. «Aiutiamoli a casa loro non è retorica ma un progetto articolato, complessivo». Poi risponde a Emma Bonino, che aveva sottolineato il coinvolgimento del governo Renzi in un accordo del 2015 che avallerebbe il trattato di Dublino — penalizzante per l’Italia — firmato dai precedenti governi: «Noi non c’entriamo. Nel 2015 abbiamo fatto un accordo perché anche altri Paesi se ne facessero carico ma è rimasto sulla carta». Il segretario del Pd parla anche di «numero chiuso agli arrivi», di «tetto massimo di accoglienza», altrimenti sarà «un disastro etico, politico, sociale e alla fine anche economico».
Il Guardasigilli Andrea Orlando lo appoggia: «Il numero chiuso è uno dei modi, come i porti chiusi, per dire all’Europa che non ce la facciamo da soli». Enrico Letta è convinto che il nodo siano le regole europee: «Non sono obbligatorie, così l’Italia è rimasta con il cerino in mano».
Dal G20 di Amburgo, il premier Paolo Gentiloni spiega che «l’accoglienza non può essere illimitata» e aggiunge: «Tutti vengono a dirti una parola di solidarietà ma poi si fatica a trovare delle soluzioni» facendo notare una certa «ipocrisia» da parte di alcuni membri del G20. Infine sul «numero chiuso» risponde: «Tra Merkel e Renzi scelgo l’Italia».
Il vertice di Tallinn di giovedì scorso, spiega il ministro dell’Interno Marco Minniti, non ha prodotto niente di concreto perché era «una riunione informale».
Martedì a Varsavia, nella sede di Frontex, l’Italia continuerà a mantenere la sua posizione: «Davanti a un fenomeno così epocale — dice Minniti — bisogna distinguere tra la salvezza in mare di una persona e la sua accoglienza a terra» .

La Stampa 8.7.17
La tentazione di virare verso destra
di Marcello Sorgi

Non è stato l’unico - e forse non sarà neppure l’ultimo - il caso nato ieri sui social a proposito di un’anticipazione sugli immigrati del nuovo libro di Matteo Renzi, che ha dovuto ridimensionare il senso dello slogan appena adottato - «aiutiamoli a casa loro» -, ma coniato da Salvini e risultato urticante, a giudicare dalle reazioni sulla rete, per i militanti più tradizionali del Pd.
Da tempo ormai, l’uomo che era salito al potere sull’onda di un consenso crescente, fino al 40 per cento delle europee del 2014, è in difficoltà. La sconfitta al referendum del 4 dicembre ha messo una lapide inattesa su un triennio innovativo di governo e di riforme. Renzi non ne ha colto subito la portata. Ha cercato una rivincita nel congresso e nelle primarie, e l’ha avuta. Ha dovuto incassare una nuova battuta d’arresto alle amministrative dell’11 giugno, e non l’ha digerita. Cosa pensi l’ex premier dei suoi compagni di partito che lo sollecitano a tornare sui suoi passi, e a recuperare un minimo di sintonia con l’elettorato di centrosinistra che in parte l’ha abbandonato, fino a qualche giorno fa si poteva intuire, ma da giovedì, dopo la direzione del Pd, è diventato noto a tutti. Li considera vecchi, superati, dediti solo al gioco correntizio, una parodia di quel che accadeva nella vecchia Dc, intenti a tessere trame per fregarlo e mettere al suo posto un altro segretario, ciò che è avvenuto quattro volte nei dieci anni di vita del Partito democratico, prima del suo avvento alla leadership e della conferma, malgrado lo scivolone del 4 dicembre, avuta nelle ultime primarie. Dipendesse da lui, Franceschini, Cuperlo, Orlando, per citare i suoi principali critici, neppure li ricandiderebbe alle elezioni, e se lo farà, non gli offrirà certo posti in lista che agevolino una facile rielezione. Renzi insomma è in guerra con una parte consistente del suo partito, e il modo in cui sta conducendo questa guerra spaventa anche qualcuno dei suoi.
La ragione politica di questo conflitto sta nel fatto che il leader è convinto che alle prossime elezioni la gente sceglierà tra Grillo, Salvini (di Berlusconi, che molti considerano rinato, non si preoccupa) e lui stesso; e deciderà, non tanto in base alle proposte che ciascuno di loro avanzerà (e potranno somigliarsi o sovrapporsi, secondo criteri di marketing politico e di comunicazione, non di ancoraggio ideologico), ma al tasso di fiducia personale che saranno stati in grado di guadagnarsi presso l’opinione pubblica. Inoltre Renzi è convinto che quel 40 per cento di elettori che lo portarono alla vittoria tre anni fa, e poi scelsero il «Sì» nell’infausto giorno della vittoria del «No», siano ancora con lui e possano regalargli la rivincita alle prossime politiche.
Con queste idee per la testa e incurante di quelli che nel Pd non la pensano come lui, il segretario s’è messo al lavoro e ha scritto questo libro, intitolato «Avanti», che sta per uscire, è questione di ore, neppure di giorni, ed era già pronto per andare in libreria un paio di mesi fa. Il motivo dei rinvii, più d’uno a quanto se ne sa, è che il libro contiene la summa del pensiero renziano e l’autore, benché invitato varie volte a smussare gli angoli più acuminati del testo e qualche rivelazione personale che potrebbe imbarazzare i protagonisti, se ne è guardato bene, o vi ha provveduto solo in pochissimi casi, accettando soltanto di posticipare il lancio per ragioni di opportunità.
Ora, se il buon giorno si vede dal mattino, il caso nato sull’immigrazione è solo l’antipasto di quanto succederà quando l’intero testo sarà pubblico e si scoprirà che il piano di Renzi è abbastanza diverso, se non quasi completamente, da quel che aspettano gli altri leader del centrosinistra e che gli stessi attribuiscono ai loro elettori. In altre parole: questo è il libro di Renzi con il programma del partito di Renzi. Il famoso PdR che avrebbe dovuto fondare tre anni fa, quando era vincente, e che adesso i suoi avversari vogliono impedirgli di far nascere prima dell’appuntamento decisivo con le urne per il prossimo Parlamento.

Corriere 8.7.17
Il dilemma di Matteo Renzi sulla candidatura a premier
di Michele Salvati

È stato pubblicato da poco un bel libro, soprattutto un libro utile, per chi si interessa delle vicende dei partiti e dei movimenti politici del nostro Paese: L’ultimo partito , di Luciano Fasano e Paolo Natale, editore Giappichelli. L’ultimo partito è il Partito democratico, il solo grande partito sopravvissuto attraverso continue trasformazioni e ridenominazioni alla doppia crisi che i partiti italiani hanno conosciuto nell’ultimo quarto di secolo: quella dei primi anni 90, a seguito di Tangentopoli, e quella più recente, che ha condotto alla straordinaria affermazione del Movimento 5 Stelle. E’ il partito che ha raccolto l’eredità politica del Partito comunista e della sinistra democristiana e ha mantenuto forme organizzative e modelli di democrazia interna che assomigliano a quelli dei partiti di una volta. Sconvolgimenti di questa intensità e durata — il primo soprattutto — non ci sono stati negli altri grandi Paesi dell’Europa occidentale e solo di recente il loro sistema politico e i loro modelli di democrazia stanno risentendo dell’ondata populista e antieuropea conseguente alle difficoltà economiche e all’intensità dell’immigrazione.
Nato nel 2007 dalle radici dell’Ulivo, nei suoi dieci anni di vita il Pd ha già conosciuto tre significativi mutamenti di indirizzo politico, coincidenti con le tre leadership che si sono succedute: lasciando da parte le reggenze precongressuali di Franceschini (dopo Veltroni) e Epifani (dopo Bersani), abbiamo avuto «il partito amalgama» di Veltroni (2007-09), il «partito vecchio stile» di Bersani (2009-13) e «il partito pragmatico» di Renzi (2013-17), come li definiscono Fasano e Natale. E faticosamente ci si sta avviando verso un quarto mutamento, sempre con Renzi al comando. Le cause e conseguenze di questi mutamenti sono descritte con grande dettaglio dai due autori e le lascio all’interesse e all’attenzione di chi leggerà il libro. Qui vorrei accennare all’ultimo mutamento, e in particolare al passaggio tra Renzi 1 e Renzi 2.
Trattandosi di un libro di politologi seri, basato su accurate ricostruzioni fattuali, quest’ultimo passaggio — relativo a eventi futuri e imprevedibili — è solo descritto per quanto è già avvenuto, per i risultati del congresso che si è appena svolto, quello che ha portato appunto al Renzi 2. Non essendo un politologo ma solo un appassionato di politica (sì, ci si può ancora appassionare di politica!), poche considerazioni le ho avanzate nella prefazione al libro che gli autori mi hanno chiesto, e le riassumo telegraficamente. La prima è che l’indirizzo politico che Renzi 1 ha tentato di imprimere al partito è un indirizzo di sinistra liberale, aperto e competitivo verso il centro dello schieramento politico, in questo non dissimile da quello di Veltroni. La seconda considerazione è che, per imporre questo indirizzo, come presidente del Consiglio Renzi 1 ha cercato di attuare condizioni istituzionali di democrazia decidente, mediante una legge elettorale fortemente maggioritaria (tramite il ballottaggio, essa comunque avrebbe ricondotto il sistema ad un confronto bipolare) e mediante una riforma costituzionale che escludeva il Senato dalla fiducia al governo. La terza considerazione è che questo secondo obiettivo è fallito, e ci ritroviamo oggi in un sistema elettorale proporzionale. È fallito perché Renzi 1 si è trovato solo, osteggiato nel suo stesso partito e isolato al di fuori: se con diverse scelte tattiche e con diversi atteggiamenti personali sarebbe riuscito a raggiungere entrambi i suoi obiettivi è problema al quale dedico qualche accenno nella prefazione al libro. La quarta considerazione è più positiva: Renzi 1 (confermato da Renzi 2) è comunque riuscito, a livello nazionale, a portare un partito in cui un indirizzo di sinistra liberale era del tutto minoritario ad una situazione in cui è di gran lunga prevalente.
Prevalente nei numeri della direzione e della segreteria nazionali, ma non radicato nella cultura del partito, non compreso nelle sue implicazioni e, soprattutto, non accettato a livello locale: qui spesso prevalgono — e prevalevano da lungo tempo, assai prima dell’ascesa di Renzi alla segreteria — orientamenti eterogenei e spesso assai difformi da quelli nazionali. Come segretario del Pd, Renzi 2 ha di fronte un compito di grande difficoltà cui dedicare le proprie energie, se vuole perseguire nel lungo periodo i due grandi obiettivi (sinistra liberale e democrazia decidente) che ha cercato di attuare dall’alto, come presidente del Consiglio. Occorre pazienza, dote che il segretario non ha sinora mostrato, insieme all’abilità politica e all’opportunismo di cui è ampiamente provvisto. Occorre comprensione delle logiche di un sistema proporzionale: in questo il segretario di partito, anche del partito di maggioranza relativa, non è necessariamente il candidato alla presidenza del Consiglio, come lo è invece in un sistema maggioritario.
Se però Renzi non si candidasse per il Pd come presidente del Consiglio nelle prossime elezioni politiche — a cominciare da Gentiloni ci sono altri che potrebbero svolgere bene questo compito — ciò verrebbe inteso come rinuncia a perseguire gli obiettivi sui quali ha vinto il congresso e come una vittoria di coloro — e sono molti, nel partito e fuori — che tali obiettivi avversano e considerano l’attuale segretario del Pd estraneo alla storia della sinistra. Questo sarà probabilmente un argomento decisivo nelle future scelte di Renzi 2.

Repubblica 8.7.17
Il nodo invisibile al collo del Pd
di Ezio Mauro

COME in Ubu re o in qualsiasi pièce del teatro dell’assurdo, c’è qualcosa di surreale nell’ultima discussione che incredibilmente divide e aggroviglia il Pd, davanti alla sua opinione pubblica ormai pronta a tutto, ma disorientata e sfinita. Stiamo alla cronaca dell’ultima direzione: da una parte due ministri, Franceschini e Orlando, che pongono il tema delle alleanze, giudicandole necessarie per vincere, dall’altra il segretario Renzi che respinge la questione come un latinorum per addetti ai lavori e invita invece il Pd a «parlare ai cittadini» cominciando dal lavoro, dall’immigrazione, dall’Europa e dallo ius soli.
Il risultato è che ancora una volta gli elettori vedono un Pd chiuso in una disputa astratta, metodologica, che riguarda sempre i preliminari della politica, rinviando comunque il momento di scendere in campo. Come se ci fosse tempo da perdere. Come se davanti alla sfida del populismo grillino e della destra risorgente ci fosse spazio per aspettare che il vertice del Pd si metta d’accordo sull’alfabeto da usare per dichiarare la guerra, sulla grammatica e sulla sintassi invece di concentrarsi sulla battaglia. Dimostrando così all’universo mondo che in quella comunità non c’è più una lingua comune, riconosciuta, accettata e praticata da tutti.
IN REALTÀ i dirigenti della sinistra sono specialisti nel costruire false strutture argomentative e polemiche (le «quistioni», le chiamava Pajetta) quando non vogliono svelare apertamente le ragioni del loro dissenso. È evidente a tutti, infatti, che un partito deve «parlare ai cittadini», soprattutto in una lunga campagna elettorale come quella che si aprirà dopo le ferie estive. Ma è altrettanto evidente che un grande partito che ha radici culturali in formazioni secolari e popolari non può ridursi al suo scheletro programmatico, in un risucchio di prassi che annulla i valori, la tradizione, la storia. Significherebbe disgiungere gli ideali dalla rappresentanza di interessi legittimi, due elementi che devono invece far parte insieme della moderna dotazione di un partito democratico e nazionale: altrimenti ridotto a pura lobby politico-istituzionale, che si muove sulla spinta degli interessi prevalenti e convenienti di ogni singola fase, senza un profilo culturale e civile, dunque senza una specifica identità culturale.
Nello stesso tempo, è ben chiaro a tutti i contendenti che una grande forza con ambizioni di rappresentanza, di governo e di cambiamento deve tenere insieme una presenza forte e incisiva nei progetti e nei programmi che riguardano la vita concreta dei cittadini, con una dimensione politica costante, che elabori la realtà del Paese, la storia e la tradizione della sinistra riformista per decidere le scelte strategiche necessarie, le svolte, l’aggiornamento identitario: se è il caso, anche le alleanze, quando si tratta di ragionare sui numeri, sulla possibilità di vincere o di perdere, sulle affinità e sulle preclusioni.
Perché allora sollevare una falsa disputa, quando la questione è chiara? Perché dietro il non detto del Pd, dietro le due formule della “coalizione a sinistra” e della “vocazione maggioritaria” c’è il nodo invisibile — eppure scorsoio — della candidatura di Renzi alla premiership. In poche parole, il problema è questo: Renzi si è rimangiato la promessa di lasciare la politica se sconfitto al referendum perché convinto di potersi riprendere Palazzo Chigi, gioco che per lui vale qualsiasi candela. A questo fine ha combattuto e vinto le primarie del Pd, e oggi fa un mestiere che non credo gli piaccia e per cui forse non è adatto, nell’attesa di giocarsi tutte le carte nella campagna elettorale per il governo, la sua vera partita. Gli ostacoli sono la legge elettorale proporzionale, che invita ad accordi dopo il voto senza leadership “unte” e prestabilite, e la configurazione ormai tripolare del sistema politico, che sembra vanificare ogni vocazione maggioritaria preventiva.
Una coalizione a sinistra rimetterebbe in discussione la premiership, scegliendo magari dopo il voto un candidato che rappresenti il minimo comune denominatore, come talvolta è accaduto nell’esperienza democristiana, e riporterebbe Renzi in alto mare, annacquando in quel mare il risultato delle primarie. Questo lo sanno Franceschini e Orlando, che potrebbero così riaprire surrettiziamente i giochi nel Pd, chiusi con le primarie, ma mai blindati definitivamente nonostante il prezzo di scissioni sanguinanti passate e future. Ecco perché Renzi vuole mani libere, coltivando l’idea di una campagna elettorale di vita o di morte, in cui si gioca tutto, pur di non mettersi nelle mani dei suoi compagni di partito. I quali sospettano che abbia già un accordo per finire nelle mani di Berlusconi con un governo di larghe intese, che lo porterebbe sì a Palazzo Chigi, ma sulla carrozza sbagliata, in un tamponamento ideologico per la sinistra italiana.
Naturalmente, ci sarebbe un modo per sciogliere il nodo, definitivamente, decidendo il futuro. Rispondere alla vera domanda che non viene mai fuori nelle direzioni a porte chiuse del Pd, come se il partito fosse rassegnato ad avere una scarsa cognizione di sé. La domanda che contiene tutte le risposte: cos’è il Pd oggi? Cos’è nella coscienza repubblicana dei suoi militanti, che nonostante le delusioni si presentano ogni volta davanti ai gazebo con una riserva di energia democratica che meriterebbe maggiore riconoscimento e tutela? E cosa vuole essere, nelle legittime interpretazioni del suo leader e nell’idea collettiva del gruppo dirigente?
Rispondendo a questa domanda, tutto il resto seguirebbe: gli eventuali alleati, la scelta maggioritaria, la risposta da dare al governissimo. E il leader che si facesse carico di questa risposta — fondamentale — sarebbe più forte di chi tiene tutte le carte coperte. Anche perché è questo il vero modo per il Pd di «parlare ai cittadini »: cominciando dai suoi.

La Stampa 8.7.17
Emiliano: “Una banalizzazione per rincorrere gli avversari”
Il governatore pugliese: “Lasci ad altri le frasi a effetto”
di Amedeo La Mattina

Michele Emiliano ormai inizia tutte le sue conversazioni con una premessa: «Non voglio polemizzare con Renzi, anzi io voglio collaborare con il segretario. Ma questo non mi impedisce di esprimere liberamente le mie idee. Ritengo che serva ad aiutare il Pd a vincere e a non perdere qualche altro milione di voti. Ad esempio dico che il testo del codice Antimafia va approvato esattamente come è uscito dal Senato e il decreto banche è invotabile».
Come giudica le posizioni di Renzi sui migranti da aiutare a casa loro e sul numero chiuso che ha scatenato le proteste su Facebook?
«Sono banalizzazioni. E non è inseguendo le banalizzazioni degli altri che costruisci una proposta seria. Secondo me Renzi si è messo paura degli attacchi allo Ius soli, che io ritengo sacrosanto: è giusto riconoscere la cittadinanza italia ai bambini nati nel nostro Paese. È una norma di civiltà e non dobbiamo metterci paura dopo avere avuto coraggio».
Dunque una banalizzazione. Allora Renzi dovrebbe rettificare?
«Le migrazioni dall’Africa non sono un fenomeno contingente. Ha una portata storica che durerà decine di anni e la posizione del segretario ha un senso solo se inserita in una politica migratoria ampia. Non serve avere l’applauso di una certa opinione pubblica. Le frasi a effetto le lasci agli altri. Noi siamo il Pd».
A proposito del Pd. Dopo i toni molto duri alle primarie, lei ha offerto un ramoscello d’ulivo a Renzi, gli ha chiesto di lavorare alla coalizione di centrosinistra, di fare un’alleanza con una grande lista civica nazionale, mettendosi a disposizione per formarla. Finora ha ricevuto solo porte in faccia.
«Ci vuole pazienza. Renzi non ha ancora detto no alla lista civica nazionale. Ci sta riflettendo, ma senza un premio di maggioranza alla coalizione questo tipo di alleanza e anche quella con Pisapia e Mdp non si possono fare. Lui vuole riempire le liste di personalità della società civile. Ma deve fare attenzione perché su questa strada va allo scontro con le varie componenti del partito che verrebbero penalizzate nella composizione delle liste elettorali. Il Pd si sbriciolerebbe».
Lei oggi a Roma ha riunito la sua componente, Fronte Democratico. Come atto di distensione è venuto a parlare Matteo Richetti, il portavoce del Pd. Dal suo intervento, a parte attestazioni di amicizia, non sono venute aperture sostanziali.
«Sono molto contento che sia venuto. È già una cosa positiva. Con Richetti è stato possibile un’interlocuzione anche nei momenti più difficili delle primarie. È un bene essere chiari ed espliciti. A Renzi dico che deve evitare di blindarsi in un fortino, di dire che chi vuole andarsene se ne vada. Io non me ne andrò mai dal Pd, anche se vengo maltrattato. In molti se ne sono andati e non mi riferisco solo ai compagni di Articolo 1 che spesso dicono cose respingenti uguali e contrarie a quelle che dice il segretario. Mi riferisco ai milioni di elettori che non ci votano più e alle centinaia di migliaia di persone che prima erano del Pd e ora fanno politica nei movimenti civici. A questi dobbiamo aprirci, altrimenti siamo condannati alla sconfitta elettorale».

Corriere 8.7.17
Franceschini e il duello sulle alleanze: Matteo, impara dalla Dc (e da Silvio)
Il ministro: siamo al governo con i centristi, quel campo c’è e ha guidato il Paese con noi
di Francesco Verderami

Sostiene Franceschini che Renzi dovrebbe imparare dalla Dc e persino da Berlusconi l’importanza delle alleanze, che non è argomento di Palazzo ma «una questione politica ineludibile» per governare. Dunque interessa al Paese.
Per questo motivo Franceschini sostiene che Renzi non potrà sfuggire alla questione, e che «a prescindere dal modello di legge elettorale che verrà adottato, il nodo andrà sciolto. Prima o dopo il voto». E non basta evocare la fallimentare esperienza dell’Unione per chiudere il discorso e chiudere la bocca a quanti lo sollevano, deridendoli come «residuati bellici». Semmai è sospetto il tentativo di accreditare la tesi che «un partito da solo possa vincere»: «Anche perché, se in un sistema multipolare è già difficile che una coalizione riesca a conquistare la maggioranza in Parlamento, figurarsi cosa potrebbe fare una singola forza politica».
Avere i numeri per governare il Paese è una questione della quale il Pd deve farsi carico, secondo il ministro della Cultura: «E allora serve certamente un programma, serve l’azione di un leader, serve l’organizzazione di un partito. Ma servono anche gli altri». Cioè gli alleati. C’è un motivo se Franceschini fa due esempi. Parte dal più recente, cita Berlusconi, l’acerrimo avversario di un ventennio, che «nei momenti in cui era vincente e aveva la massima presa carismatica sulla pubblica opinione, si curava di accogliere nella sua alleanza anche il Partito dei pensionati».
È vero, era la stagione del bipolarismo, l’epoca delle «scelte di campo», con il maggioritario che decretava la vittoria di una coalizione per un voto. Ma lo stesso metodo era già stato adottato ai tempi della Prima Repubblica e del proporzionale dalla Dc, che «fin dal 1948 volle avere al suo fianco i partiti laici. E in tutte le successive campagne elettorali non pensò mai di alzare la soglia di sbarramento della legge elettorale per sbarazzarsi di quelle forze. Semmai si fece carico delle loro esigenze, perché con loro puntava a governare nella legislatura successiva».
Il riferimento non è casuale, rimanda al modo in cui il segretario democratico ha gestito la recente trattativa sul modello «tedesco», e senza curarsi dell’alleato centrista ha posto la soglia di sbarramento al 5%. Quando Alfano ha avuto da ridire, Renzi gli ha risposto che «se dopo cinque anni al governo non riesci a prendere il 5% alle elezioni, non possiamo bloccare tutto». Dietro quella inusitata violenza verbale è affiorata per un istante una concezione della politica ridotta a mera logica clientelare, è stato riesumato l’andreottismo più deteriore, rivisitato in chiave moderna nell’idea di un bonus-un voto.
Sostiene Franceschini che il Pd dovrebbe avere un approccio diverso, parlare di alleanze partendo «dal campo del centrosinistra, oggi in evoluzione, e anche dal campo di quell’area che ha sostenuto» i gabinetti Letta, Renzi e Gentiloni: «Perché i governi in questa legislatura non sono stati solo del Pd, si sono retti sulle alleanze. All’inizio con le larghe intese e dopo la rottura di Berlusconi con i centristi. Quando andremo al voto non potremo raccontare agli italiani che quel campo non c’è più. Quel campo c’è e ha guidato il Paese insieme a noi».
È un modo per sottolineare che i dividendi dell’azione di governo, «un’azione positiva», non sono solo del Pd. È un modo per costruire i presupposti di una nuova collaborazione a Palazzo Chigi, come faceva appunto la Dc, che «in campagna elettorale non bastonava mai gli alleati. E infatti guidò l’Italia per cinquanta anni». Storia vecchia? Roba da «residuati bellici»? Franceschini sostiene che non è così. Le regole della politica non sono mutate. Valgono ancora, anche per i segretari di partito, anche per chi ha ottenuto due milioni di voti alle primarie: «Un segretario guida una comunità, tiene insieme tutti con pazienza, senza vedere dietro ogni pensiero diverso un tradimento o un complotto».
Peraltro le liste di proscrizione, le minacce sulle ricandidature, quel proposito fatto trapelare di portare in Parlamento solo i fedelissimi, non solo offre l’immagine di un partito sulla difensiva, ma potrebbe alla lunga non reggere. I fedelissimi infatti sono quelli che, se il capo avanza, seguono. Ma se il capo indietreggia, si dileguano. Non è questione di tradimento, altrimenti cosa dovrebbe pensare Renzi degli attuali gruppi parlamentari del Pd, giunti alle Camere con Bersani segretario? Certo che ci sono interessi personali, ma c’è anche una logica politica: è il progetto che unisce. E per quanto gli eletti possano essere a immagine e somiglianza del leader, in caso di difficoltà potrebbero cambiare verso. «La lealtà è cosa diversa dall’ubbidienza», sostiene Franceschini.

Il Fatto 8.7.17
“Altro che congiura, ormai Matteo è solo”
Marco Meloni - L’ultimo dei lettiani: “Non gli credono più neanche i suoi, non ha una linea”
di Luca De Carolis

“Questo non è uno scivolone, ma una lesione dei valori del Pd, che ci fa vergognare. ‘Aiutamoli a casa loro’ può dirlo CasaPound, non noi”. Per Marco Meloni, deputato del Pd, lettiano, la frase di Matteo Renzi sui migranti non ha scusanti. “Del resto non credo che la cancellerà dal suo libro”, scandisce dalla sua Sardegna. Tra vari incontri Meloni risponde, su tutto.
E così si riparte da una domanda: Renzi si incarta sull’immigrazione perché crede di aver perso le Comunali su questo tema? E il deputato va di sarcasmo: “Ma noi non abbiamo perso, lo ha detto il segretario nella Direzione, due giorni fa”. C’era anche il deputato sardo, ai lavori. E viene da chiedergli: si respirava il clima della congiura, per tirare giù il leader? Pausa, e risposta: “Non ho sentito aria di congiura, ma un generalizzato sconforto. Rassegnazione, anche tra tanti renziani. Non possono dirlo, ma ormai non gli credono più neanche loro. In pratica Renzi ripete un solo concetto: urlare – e “condividere” su Facebook – che si è fatto tutto bene”. Ma non è proprio così, sostiene il deputato: “Le politiche economiche a colpi di deficit e bonus, senza distinguere tra redditi, hanno fallito, visto che cresciamo meno di tutti. E proprio sull’immigrazione, lasciare l’operazione Mare Nostrum ci ha fatto risparmiare qualche soldo ma evidentemente non ha funzionato. Ora il tema andrebbe governato, ma non è inseguendo la Lega che si può farlo. Anche perché così non guadagni un voto, mentre perdi l’identità, l’anima”. Insomma, nulla da salvare? “Il problema è che la linea è erratica, su tutto. E non a caso dal 2014 ad oggi si è perso tutto il perdibile”. Ma i maggiorenti del Pd butteranno giù Renzi, magari dopo le elezioni in Sicilia di novembre, per candidare a Palazzo Chigi Gentiloni? “Non so cosa accadrà. Renzi è un segretario eletto alle primarie, legittimamente. Però Gentiloni sta lavorando bene, viste le condizioni date, ed è molto più popolare di lui”.
Quindi? “Il discorso sul candidato premier con questa legge elettorale proporzionale non ha senso. Piuttosto, il Pd si era impegnato a cambiarla, restituendo il diritto di scelta ai cittadini”. Pare difficile riuscirci, non crede? “Vedremo – ma il nodo resta quello. E comunque, Renzi ha detto di non essere interessato al suo destino personale: dunque se si rendesse conto che non è il più adatto a far vincere il Pd sarebbe il primo a farsi da parte, non crede?” sillaba Meloni. Ed è un’altra battuta al fiele. Intanto più d’uno invoca Enrico Letta come leader di un centrosinistra unito. Proprio lui, rimosso da Palazzo Chigi con un voto della direzione neorenziana. Fu congiura? “La direzione prese atto di un’indicazione del segretario, che smentendo se stesso decise di defenestrare Letta per prendersi quel posto. E fu un grave errore, più che una congiura”. Ma ora che farà Letta? “È molto impegnato nel suo lavoro di direttore della scuola di Affari internazionali di Parigi e nella scuola di Politiche qui in Italia. È una persona seria, rispetterà i suoi impegni. Poi, certo, è molto preoccupato per il Paese. Può dare ancora molto all’Italia”.

il manifesto 8.7.17
Le «rivelazioni» note a tutti di Emma Bonino
di Riccardo Magi

Ancora una volta, in queste ore, il dibattito pubblico sull’immigrazione dà il peggio di sé. Con la solita propaganda elettorale a basso costo stavolta costruita ad arte sulle dichiarazioni di Emma Bonino in merito agli accordi tra l’Italia e gli altri paesi Ue nel lancio dell’operazione Triton: nessuna rivelazione, ma fatti noti a tutti – ad esempio la deputata forzista Laura Ravetto, membro del Comitato Schengen, ricorda di averli denunciati da tempo – e noti soprattutto a quei parlamentari italiani che si sono così prodigati ad alimentare la polemica, evidentemente poco avvezzi a leggere documenti e atti ufficiali a loro disposizione. Né, come ricordava ieri Franco Bechis, tanto clamore hanno suscitato le medesime informazioni quando sono emerse due mesi fa nel corso dell’indagine conoscitiva del Senato sulle Ong: 5 Stelle, Lega, Forza Italia erano allora forse troppo concentrati ad accusare le Ong di essere in combutta con i trafficanti per ascoltare le parole delle più alte cariche militari intervenute.
Sarebbe, tuttavia, un grave errore rispondere con la stessa moneta a queste becere strumentalizzazioni, arretrare su posizioni difensive e di chiusura e contribuire ad alterare ancora la realtà sulle scelte operate all’epoca dal governo. Va piuttosto ricordata, e rivendicata con decisione, la scelta ammirevole fatta dal nostro Paese nel 2015, e prima ancora con l’operazione Mare Nostrum, di impegnarsi in tutte le sedi per evitare la morte in mare di decine di migliaia di persone in seguito alla tragedia di Lampedusa del 3 ottobre 2013 e alle successive: una posizione di cui essere orgogliosi e, da allora, sempre accompagnata dalla richiesta in sede europea di una maggiore condivisione e di meccanismi efficaci per un’equa redistribuzione dei profughi.
Oggi, di fronte alla crisi in corso e al rifiuto di alcuni paesi membri di assumersi le proprie responsabilità, non serve minacciare la chiusura dei porti, misura che sarebbe illegale oltre che disumana, o altre soluzioni propagandistiche ugualmente impraticabili. Al di là degli slogan, occorre invece uno strumento di maggiore pressione da parte dell’Italia verso gli altri Stati europei, che faccia leva anche sull’enorme credito che possiamo vantare grazie alle tante vite umane salvate e accolte. E questo strumento esiste già, come abbiamo ricordato nei giorni scorsi insieme a Luigi Manconi e alla Comunità di S. Egidio: si tratta della Direttiva europea 55 del 2001 sulla protezione temporanea, che in caso di afflusso massiccio di sfollati prevede innanzitutto meccanismi di solidarietà tra gli Stati membri attraverso uno smistamento nei diversi paesi. E per sfollati si intende chi fugge da guerre o violazioni di diritti umani come quelle che si consumano in Libia. Basterebbe, quindi che il governo italiano ne chiedesse l’attivazione al Consiglio europeo e, in attesa di una risposta, facesse quanto già fatto durante gli arrivi dalla Tunisia, nel 2011, procedendo con il rilascio alle persone, una volta identificate, di un permesso di soggiorno per motivi umanitari previsto dal testo unico sull’immigrazione: si consentirebbe così ai beneficiari di spostarsi all’interno dell’Ue. Sarebbero poi i singoli Stati membri a doversi assumere la responsabilità di respingere, alle frontiere con l’Italia, persone con un permesso di soggiorno valido in mano.
È arrivato il momento di far pesare ai nostri partner quanto fatto dell’Italia finora. E poi andare oltre, puntando a diventare per l’Europa un modello di governo dei fenomeni migratori. Come? Investendo in corridoi umanitari, creando canali legali di ingresso per lavoro, trasformando l’accoglienza in opportunità per prosciugare così il bacino di irregolarità, sfruttamento, lavoro nero a cui attingono le organizzazioni criminali e gli imprenditori della paura che lucrano consenso elettorale. Sono le proposte che in questi mesi, come Radicali Italiani con Emma Bonino e tante organizzazioni, stiamo portando nelle strade tra i cittadini raccogliendo le firme sulla legge popolare «Ero straniero – L’umanità che fa bene» per superare la Bossi-Fini.
*Segretario di Radicali Italiani

La Stampa 8.7.17
Caselli: l’ex del Sisde commise fatti gravissimi
“La Suprema Corte non ha capito: quel reato esiste da sempre”
di Giuseppe Legato

«Che il dottor Contrada sia felice per questa sentenza sul piano umano e personale è addirittura ovvio. A riguardo nulla da dire. Resta il dovere della critica argomentata. Soprattutto in un caso che per il suo lunghissimo iter processuale è più controverso di quanto sia possibile immaginare».
Gian Carlo Caselli, la Cassazione ha revocato la condanna a carico di Bruno Contrada. Come legge questa pronuncia?
«Occorre aspettare la motivazione. Se fosse basata (come sembra) sulla sentenza della Cedu (Corte europea dei diritti dell’uomo) - secondo me - come non aveva capito la Cedu allora, così oggi non capisce la Cassazione».
Cosa non avrebbero capito?
«L’una e l’altra ragionano in astratto, come in vitro, come se la mafia non esistesse».
Chiariamo subito: è una sentenza d’assoluzione?
«La Cedu e la Cassazione non prendono in esame i fatti specifici che portano alla responsabilità di Contrada. Quindi non si tratta di un’assoluzione per quanto riguarda i fatti. Che in ogni caso sono e restano gravissimi».
È corretto sostenere che anche se non fosse stato incriminato e condannato per concorso esterno in associazione mafiosa, gli sarebbe stato contestato il favoreggiamento a Cosa Nostra?
«In teoria tutto è possibile ma nel caso concreto, il concorso esterno in associazione mafiosa (416 bis) ci stava tutto. E l’hanno confermato fior di sentenze sia di merito (una di Tribunale, due di Corte d’Appello) e che di Cassazione quando ha annullato l’unica sentenza che assolveva Contrada. Se anche fosse stato possibile ipotizzare il favoreggiamento o il concorso in associazione a delinquere semplice (art. 416), la configurabilità a pieno titolo del concorso in associazione mafiosa assorbiva, escludendola, ogni altra ipotesi».
Facciamo un esempio?
«Se si contesta un omicidio risponde di concorso anche chi ha fornito la pistola».
E quindi chi è stato Bruno Contrada?
«Tutte le sentenze di condanna a suo carico concludono dicendo che l’imputato ha dato il contributo sistematico e consapevole sia alla conservazione sia al rafforzamento di Cosa Nostra».
Quali furono i fatti contestati?
«Ci sono state “soffiate” per consentire la fuga di latitanti in occasioni di imminenti operazioni di polizia. Tre volte in favore del mafioso Saro Riccobono e una volta - nel 1981 - addirittura in favore di Salvatore Riina. Risulta che l’imputato si sia mosso con la Questura per far avere la patente a Stefano Bontate e a Michele Greco detto “Il Papa”. A monte delle soffiate c’erano amichevoli contatti con Bontate, Salvatore Inzerillo, Michele Greco e Salvatore Riina: tutti mafiosi ai vertici di Cosa Nostra. In sostanza, secondo un pentito, dire che Contrada era nelle mani di Cosa Nostra era come dire pane e pasta: tutti lo sapevano».
È sostenibile dire che Contrada non poteva sapere di commettere un reato visto che lo stesso non era - al tempo - sufficientemente chiaro?
«Contrada non poteva non sapere di violare la legge».
Strasburgo si è espressa, due anni fa, a favore di Contrada. Non andava processato né condannato perché il reato di concorso esterno in associazione mafiosa non era chiaro. Sbaglia anche la Corte Europea?
«Il concorso esterno in 416 bis esiste da sempre, non l’ha inventato nessuno. La Cedu dice che ha cominciato a esistere dopo alcune oscillazioni giurisprudenziali. A me sembra assurdo. Queste oscillazioni sono sopravvenute a partire dal 1991, cioè ben dopo i fatti contestati al dottor Contrada. E poi se ci sono stati processi e condanne nei confronti di molti imputati che non erano il dottor Contrada, vuol dire che il reato esisteva già. L’elaborazione può intervenire soltanto su un reato già esistente».

Il Fatto 8.7.17
Contrada aiutò Cosa Nostra, ma non sapeva fosse reato
Per la Cedu e ora per la Cassazione, prima del ’92 il concorso esterno non era chiaro: “Ineseguibile ogni effetto penale”
di Giuseppe Lo Bianco

Bruno Contrada non doveva essere processato per concorso esterno in associazione mafiosa, nel ’92 il reato non era chiaro e nessuno poteva prevedere la sua evoluzione normativa: ribaltando la decisione della Corte d’appello di Palermo che aveva dichiarato inammissibile il ricorso, la Cassazione rende “ineseguibile e improduttiva di ogni effetto penale” la condanna all’ex numero 3 del Sisde applicando una sentenza della Corte europea. E, siccome tra carcere e arresti domiciliari, Contrada ha finito di scontare la pena, adesso può chiedere la cancellazione dell’interdizione perpetua dai pubblici uffici, dell’iscrizione nel casellario giudiziale e anche la restituzione della pensione: per lui, inoltre, adesso è escluso che in un eventuale, successivo, procedimento penale gli venga contestata la recidiva.
Saranno le motivazioni, depositate tra qualche mese, a chiarire fino a che punto può vacillare il concorso esterno, indicando i motivi del recepimento della pronuncia europea atteso con speranza, adesso, da decine di politici condannati per concorso esterno ai quali, quelli almeno che hanno avuto contestato il reato prima del ’94, la pronuncia della Suprema Corte alimenta la prospettiva di una ineseguibilità. E se Contrada canta vittoria (“contro di me solo invenzioni di efferati criminali pagati dallo Stato”) e per il suo avvocato Vittorio Manes questa decisione gli “restituisce quantomeno la dignità”, in realtà per l’ex funzionario del Viminale sospettato di avere avuto un ruolo torbido in numerose vicende oscure è una vittoria a metà: la sentenza cancella la pena ma non i fatti contestati (e processualmente accertati) e non revoca il giudizio di responsabilità sui quei fatti, visto che si limita a prendere atto di una pronuncia europea sul rispetto di un principio giuridico fondamentale, e cioè che nessuna pena è irrogabile se non in forza di una legge. E il primo a comprenderlo è stato un giovane avvocato esperto di norme europee, Stefano Giordano, figlio del presidente del maxi-processo a Cosa nostra Alfonso, che su Facebook ha incassato le “entusiastiche congratulazioni” del padre: a lui si deve infatti il cambio di rotta che ha dato fiato alle aspirazioni di riabilitazione di Contrada, dopo che tre istanze di revisione presentate dai suoi legali erano state dichiarate inammissibili.
“Giustizia è fatta, è stata eliminata ogni macchia da un grande servitore dello Stato” ha detto a caldo Giordano, il primo a suggerire l’incidente di esecuzione, dopo che nel 2015 la Corte europea aveva sancito che il 110 e 416 bis non poteva essere contestato: nel ’92 il reato ancora non era chiaro.
Alla scelta dei pm della Procura di Palermo (poi avallata dai successivi giudici di merito e di legittimità) i giudici di Strasburgo contestavano un “difetto di prevedibilità”, visto che le condotte ipotizzate a carico di Contrada risalivano a un periodo tra il 1979 e l’88, e che la configurabilità del concorso esterno era stata riconosciuta per la prima volta dalla Cassazione nel 1987. Una configurabilità “ballerina”, più volte smentita dalla giurisprudenza della Suprema corte e poi stabilizzata dalla sentenza Demitry delle Sezioni Unite nel 1994. Ottenuta la vittoria in sede europea, i legali di Contrada avevano chiesto la revoca della condanna alla Corte di appello di Palermo, che nel settembre dello scorso anno aveva risposto picche, dichiarando l’istanza inammissibile: il giudice italiano è soggetto soltanto alla legge e non è certo un “mero esecutore dei dispostivi della Corte Edu” – avevano sostenuto i giudici di appello, riconoscendo all’incidente di esecuzione un’efficacia solo nel caso di riconosciuta illegittimità costituzionale della norma incriminatrice.
Dopo avere guidato la Squadra Mobile di Palermo negli anni 70 e avere lavorato a fianco di Boris Giuliano, Bruno Contrada è passato all’Alto commissariato per la lotta alla mafia e poi al Sisde, diventandone in breve tempo il numero 3. Venne arrestato alla vigilia di Natale ’92 chiamato in causa dalle accuse di numerosi pentiti che lo indicavano come una talpa di Cosa nostra all’interno della Mobile negli anni 80, vicino al boss Rosario Riccobono. Poco prima di finire in carcere, nell’estate ’92 firmò un’informativa sulle parentele del picciotto della Guadagna Vincenzo Scarantino, protagonista del clamoroso depistaggio, avvalorandone il ruolo nella strage di via D’Amelio. Venne poi condannato a dieci anni di reclusione, interamente scontati.

Il Fatto 8.7.17
“Possono perquisire i cronisti solo in cerca di terroristi e pedofili”
L’ex giudice della Corte di Strasburgo sul caso Lillo
Vladimiro Zagrebelsky è stato giudice della Corte europea dei diritti umani dal 2001 al 2010. Già membro del Csm, dal 1998 all’aprile 2001, è stato a capo dell’Ufficio legislativo del ministero della Giustizia
di Alessandro Mantovani

Il nostro vicedirettore Marco Lillo è stato perquisito martedì: qualunque supporto informatico nella disponibilità sua o dei suoi congiunti è stato sequestrato dalla Finanza su ordine della Procura di Napoli che cerca le fonti di informazioni coperte da segreto pubblicate dal Fatto e nel libro Di padre in figlio (Paper First). Non è il primo caso e non sarà l’ultimo ma non si può fare. Ne abbiamo parlato con Vladimiro Zagrebelsky, giudice italiano alla Corte europea dei diritti umani dal 2001 al 2010.
Cosa dice la giurisprudenza di Strasburgo delle perquisizioni ai giornalisti alla ricerca delle loro fonti confidenziali, protette dal segreto professionale?
La Corte europea ritiene che la libertà della stampa di informare sui fatti di interesse per la pubblica opinione sia un pilastro delle democrazie e che quindi siano gravissimi i casi in cui quella libertà viene compressa. Condizione essenziale del lavoro dei giornalisti è la protezione delle loro fonti; se la confidenzialità del rapporto tra la fonte e il giornalista non fosse garantita le fonti si esaurirebbero e con esse la stessa possibilità della stampa di svolgere il suo ruolo. Questa è la giurisprudenza costante a partire da una fondamentale sentenza del 1996 (Goodwin c. Regno Unito), ove la Corte ha affermato che il segreto delle fonti può essere forzato dalle autorità pubbliche solo in presenza di un’esigenza preponderante di interesse pubblico. Come sempre nella giurisprudenza della Corte europea, la questione fondamentale è quella della proporzione, in concreto, nel bilanciamento tra l’esercizio di un diritto e le limitazioni possibili. Della proporzione dovrebbero occuparsi anche i magistrati italiani quando applicano la norma del codice di procedura penale (art. 200) che in certi casi consente loro di obbligare i giornalisti a comunicare le fonti. La Convenzione europea dei diritti umani, come si sa, è vincolante.
Quando questi interventi sono legittimi?
La Corte europea ha quasi sempre ritenuto sproporzionati perquisizioni e sequestri di materiali (specie informatici) dei giornalisti. Ma ha ritenuto giustificato l’agire delle autorità in un caso in cui la fonte era manifestamente un appartenente a organizzazioni terroristiche e in un altro in cui l’identificazione della fonte era indispensabile per smantellare una rete di pedofili.
Lillo, non indagato, viene perquisito per scoprire i responsabili di una violazione del segreto d’ufficio. Si può fare?
Il segreto delle fonti non è un privilegio del giornalista, ma un suo dovere professionale. Esso riguarda le fonti lecite come quelle illecite, che violano loro doveri di riserbo. Per esempio, in un caso del 2003 (Ernst c. Belgio), in cui alcuni magistrati erano sospettati di violazione del segreto istruttorio, la perquisizione e i sequestri nei confronti di giornali e giornalisti che avevano pubblicato le notizie sono stati ritenuti sproporzionati e la Corte europea ha ritenuto violata la libertà di espressione. Naturalmente il giudizio sulla necessità e sulla proporzione dell’interferenza statale nella libertà di informazione dipende dai particolari del caso concreto, ma perquisizioni e sequestri nei confronti di giornali e giornalisti non sarebbero giustificati per il solo fatto che essi hanno pubblicato notizie ancora segrete. Operazioni come quella del caso belga, simili per certi versi a quelle disposte dalla Procura di Napoli, sono estremamente pericolose sul piano generale. La Corte europea e tutti gli organismi europei che si occupano di democrazia e libertà di stampa si preoccupano del cosiddetto chilling effect, l’effetto di inibizione che si genera su tutta la professione giornalistica e sulle fonti da cui essa raccoglie le notizie. La questione non riguarda quindi questo o quel giornalista, questo o quel giornale, ma la libertà di stampa nel suo complesso.
Numerose sentenze della Cassazione hanno annullato perquisizioni e sequestri a giornalisti, dal nostro Antonio Massari a Fiorenza Sarzanini e a Sergio Rizzo. Ma è una vittoria morale. Il danno resta gravissimo. Anche per Lillo non c’è rimedio neppure a Strasburgo?
Il danno è compiuto. Le autorità ora conoscono tutta la rete di rapporti del giornalista, anche se nel procedimento penale utilizzeranno solo quello che è utile in quel procedimento. La sicurezza delle (future) fonti risulta non più garantita. Il danno è quindi generale, non riguarda solo il caso specifico. Il giornalista e il giornale possono ottenere un indennizzo, ma non l’eliminazione del danno. Se non lo ottengono in sede nazionale possono ricorrere alla Corte europea dei diritti umani.
E la Corte cosa può fare?
La Corte, se dichiara che c’è stata violazione dell’art. 10 della Convenzione (libertà di espressione) può ordinare un indennizzo economico, ma potrebbe anche indicare al governo che l’articolo 200 Cpp non è adeguato rispetto alle esigenze della Convenzione perché non specifica in quali circostanze il giudice può obbligare il giornalista e non contiene il criterio della proporzione rispetto all’esigenza che spinge a forzare il segreto delle fonti. L’Italia dovrebbe così modificare la legge e prima ancora i magistrati dovrebbero far uso della facoltà riconosciuta dall’art. 200 Cpp con grande cautela e solo quando la necessità di conoscere la fonte sia legata a gravi esigenze – come nei due esempi che ho fatto: fonte terrorista o fonte utile a smantellare rete pedofili – e non sia possibile altrimenti soddisfarla. Ma la Procura di Napoli è andata oltre, con un’operazione che mi pare molto grave.

Repubblica 8.7.17
Francesco: “Il mio grido al G20 No ad alleanze contro i migranti”
Intervista con il Papa: non fermate i poveri
L’Europa non dimentichi il suo colonialismo
di Eugenio Scalfari

GIOVEDÌ scorso, cioè l’altro ieri, ho ricevuto una telefonata da Papa Francesco. Era circa mezzogiorno e io ero al giornale, quando è squillato il mio telefono e una voce mi ha salutato: era di sua Santità. L’ho riconosciuta subito e ho risposto: Papa Francesco, mi fa felice sentirla. «Volevo notizie sulla sua salute. Sta bene? Si sente bene? Mi hanno detto che qualche settimana fa lei non ha scritto il suo articolo domenicale, ma poi vedo che ha ripreso».
Santità, ho tredici anni più di lei. «Sì, questo lo so. Deve bere due litri d’acqua al giorno e mangiare cibo salato». Sì lo faccio. Sono seguiti altri suoi consigli ma io l’ho interrotto dicendo: è un po’ che non ci parliamo, vorrei venire a salutarla, vado in vacanza tra pochi giorni ed è parecchio che non ci vediamo. «Ha ragione, lo desidero anche io. Potrebbe venire oggi? Alle quattro?». Ci sarò senz’altro.
Mi sono precipitato a casa e alle tre e tre quarti ero nel piccolo salotto di Santa Marta. Il Papa è arrivato un minuto dopo. Ci siamo abbracciati e poi, seduti uno di fronte all’altro, abbiamo cominciato a scambiare idee, sentimenti, analisi di quanto avviene nella Chiesa e poi, nel mondo.

IL PAPA viaggia incessantemente: a Roma, in Italia, nel mondo. Il tema principale della nostra conversazione è il Dio unico, il Creatore unico del nostro pianeta e dell’intero Universo. Questa è la tesi di fondo del suo pontificato, che comporta una serie infinita di conseguenze, le principali delle quali sono l’affratel-lamento di tutte le religioni e di quelle cristiane in particolare, l’amore verso i poveri, i deboli, gli esclusi, gli ammalati, la pace e la giustizia.
Il Papa naturalmente sa che io sono non credente, ma sa anche che apprezzo moltissimo la predicazione di Gesù di Nazareth che considero un uomo e non un Dio. Proprio su questo punto è nata la nostra amicizia. Il Papa del resto sa che Gesù si è incarnato realmente, è diventato un uomo fino a quando fu crocifisso. La “ Resurrectio” è infatti la prova che un Dio diventato uomo solo dopo la sua morte ridiventa Dio.
Queste cose ce le siamo dette molte volte ed è il motivo che ha reso così perfetta e insolita l’amicizia tra il Capo della Chiesa e un non credente.
Papa Francesco mi ha detto di essere molto preoccupato per il vertice del “G20”. «Temo che ci siano alleanze assai pericolose tra potenze che hanno una visione distorta del mondo: America e Russia, Cina e Corea del Nord, Putin e Assad nella guerra di Siria».
Qual è il pericolo di queste alleanze, Santità?
«Il pericolo riguarda l’immigrazione. Noi, lei lo sa bene, abbiamo come problema principale e purtroppo crescente nel mondo d’oggi, quello dei poveri, dei deboli, degli esclusi, dei quali gli emigranti fanno parte. D’altra parte ci sono Paesi dove la maggioranza dei poveri non proviene dalle correnti migratorie ma dalle calamità sociali; altri invece hanno pochi poveri locali ma temono l’invasione dei migranti. Ecco perché il G20 mi preoccupa: colpisce soprattutto gli immigrati di Paesi di mezzo mondo e li colpisce ancora di più col passare del tempo».
Lei pensa, Santità, che nella società globale come quella in cui viviamo la mobilità dei popoli sia in aumento, poveri o non poveri che siano?
«Non si faccia illusioni: i popoli poveri hanno come attrattiva i continenti e i Paesi di antica ricchezza. Soprattutto l’Europa. Il colonialismo partì dall’Europa. Ci furono aspetti positivi nel colonialismo, ma anche negativi. Comunque l’Europa diventò più ricca, la più ricca del mondo intero. Questo sarà dunque l’obiettivo principale dei popoli migratori».
Anch’io ho pensato più volte a questo problema e sono arrivato alla conclusione che, non soltanto ma anche per questa ragione, l’Europa deve assumere al più presto una struttura federale. Le leggi e i comportamenti politici che ne derivano sono decisi dal governo federale e dal Parlamento federale, non dai singoli Paesi confederati. Lei del resto questo tema l’ha più volte sollevato, perfino quando ha parlato al Parlamento europeo.
«È vero, l’ho più volte sollevato». E ha ricevuto molti applausi e addirittura ovazioni. «Sì, è così, ma purtroppo significa ben poco. I Paesi si muoveranno se si renderanno conto di una verità: o l’Europa diventa una comunità federale o non conterà più nulla nel mondo. Ma ora voglio farle una domanda: quali sono pregi e difetti dei giornalisti?».
Lei, Santità, dovrebbe saperlo meglio di me perché è un assiduo oggetto dei loro articoli.
«Sì, ma mi interessa saperlo da lei».
Ebbene, lasciamo da parte i pregi, ma ci sono anche quelli e talvolta molto rilevanti. I difetti: raccontare un fatto non sapendo fino a quale punto sia vero oppure no; calunniare; interpretare la verità facendo valere le proprie idee. E addirittura fare proprie le idee di una persona più saggia e più esperta attribuendole a se stesso. «Quest’ultima cosa non l’avevo mai notata. Che il giornalista abbia le proprie idee e le applichi alla realtà non è un difetto, ma che si attribuisca idee altrui per ottenere maggior prestigio, questo è certamente un difetto grave».
Santità, se me lo consente ora vorrei io porle due domande. Le ho già prospettate un paio di volte nei miei recenti articoli, ma non so come Lei la pensa in proposito. «Ho capito, lei parla di Spinoza e di Pascal. Vuole riproporre questi suoi due temi?».
Grazie, comincio dall’Etica di Spinoza. Lei sa che di nascita era ebreo, ma non praticava quella religione. Arrivò nei Paesi Bassi provenendo dalla sinagoga di Lisbona. Ma in pochi mesi, avendo pubblicato alcuni saggi, la sinagoga di Amsterdam emise un durissimo editto nei suoi confronti. La Chiesa cattolica per qualche mese cercò di attirarlo nella sua fede. Lui non rispondeva e aveva disposto che i suoi libri fossero pubblicati soltanto dopo la sua morte. Nel frattempo però alcuni suoi amici ricevevano copie dei libri che andava scrivendo. L’Etica in particolare, arrivò a conoscenza della Chiesa la quale immediatamente lo scomunicò. Il motivo è noto: Spinoza sosteneva che Dio è in tutte le creature viventi: vegetali, animali, umani. Una scintilla di divino è dovunque. Dunque Dio è immanente, non trascendente. Per questo fu scomunicato.
«E a lei non sembra giusto. Perché? Il nostro Dio unico è trascendente. Anche noi diciamo che una scintilla divina è dovunque, ma resta immune la trascendenza, ecco il perché della scomunica che gli fu impartita». E a me sembra, se ben ricordo anch’io, su sollecitazione

INTESE PERICOLOSE
Mi preoccupa la possibilità di intese pericolose tra alcune potenze: penso ad America e Russia, Cina e Corea del Nord, Russia e Assad nella guerra di Siria
EUROPA FEDERALE
L’Europa deve assumere al più presto una struttura federale. O l’Europa diventa una comunità federale oppure non conterà più nulla nel mondo”
BEATO PASCAL
Penso che Pascal meriti la beatificazione. Mi riservo di far istruire la pratica necessaria, accompagnata da un mio personale e positivo convincimento
dell’Ordine dei Gesuiti. «All’epoca di cui parliamo i Gesuiti erano stati espulsi dalla Chiesa, poi furono riammessi. Comunque, lei non mi ha detto perché quella scomunica dovrebbe essere revocata».
La ragione è questa: Lei mi ha detto in un nostro precedente colloquio che tra qualche millennio la nostra specie si estinguerà. In quel caso le anime che ora godono della beatitudine di contemplare Dio ma restano distinte da Lui, si fonderanno con Lui. A questo punto la distanza tra trascendente e immanente non esisterà più. E quindi, prevedendo questo evento, la scomunica si può già da ora dichiarare esaurita. Non le sembra, Santità?
«Diciamo che c’è una logica in ciò che lei propone, ma la motivazione poggia su una mia ipotesi che non ha alcuna certezza e che la nostra teologia non prevede affatto. La scomparsa della nostra specie è una pura ipotesi e quindi non può motivare una scomunica emessa per censurare l’immanenza e confermare la trascendenza».
Se Lei lo facesse, Santità, avrebbe contro di sé la maggioranza della Chiesa?
«Credo di sì, ma se solo di questo si trattasse ed io fossi certo di ciò che dico su questo tema, non avrei dubbi, invece non sono affatto certo e quindi non affronterò una battaglia dubitabile nelle motivazioni e persa in partenza. Adesso, se vuole, parliamo della seconda questione che lei desidera pormi».
Porta il nome di Pascal. Dopo una gioventù alquanto libertina, Pascal fu come improvvisamente invaso dalla fede religiosa. Era già molto colto, aveva letto ripetutamente Montaigne e anche Spinoza, Giansenio, le memorie del cardinale Carlo Borromeo. Insomma, una cultura laica e anche religiosa. La fede a un certo punto lo colpì in pieno. Aderì alla Comunità di Port-Royal des Champs, ma poi se ne distaccò. Scrisse alcune opere tra le quali i “Pensieri”, un libro a mio avviso splendido e religiosamente di grande interesse. Ma poi c’è la sua morte. Era praticamente moribondo e la sorella l’aveva fatto portare nella propria casa per poterlo assistere. Lui voleva morire nell’ospedale dei poveri, ma il suo medico negò il permesso, gli restavano pochi giorni di vita e il trasporto non era fattibile. Chiese allora che un povero tratto da un ospedale che gestiva i poveri pessimamente, anche in fin di vita, fosse trasportato nella casa dove stava e con un letto come quello che aveva lui. La sorella cercò di accontentarlo ma la morte arrivò prima. Personalmente penso che uno come Pascal andrebbe beatificato.
«Lei, caro amico, ha in questo caso perfettamente ragione: anch’io penso che meriti la beatificazione. Mi riserbo di far istruire la pratica necessaria e chiedere il parere dei componenti degli organi vaticani preposti a tali questioni, insieme ad un mio personale e positivo convincimento». Santità ha mai pensato di mettere per iscritto un’immagine della Chiesa sinodale? «No perché dovrei?». Perché ne verrebbe un risultato abbastanza sconvolgente, vuole che glielo dica? «Ma certo mi fa piacere anzi lo disegni». Il Papa fa portare carta e penna e io disegno. Faccio una riga orizzontale e dico questi sono tutti i vescovi che Lei raccoglie al Sinodo, hanno tutti un titolo eguale e una funzione eguale che è quella di curare le anime affidate alla loro Diocesi. Traccio questa linea orizzontale poi dico: ma Lei, Santità, è vescovo di Roma e come tale ha la primazia nel Sinodo perché spetta a Lei trarne le conclusioni e delineare la linea generale del vescovato. Quindi il vescovo di Roma sta sopra la linea orizzontale, c’è una linea verticale che sale fino al suo nome e alla sua carica. D’altra parte i presuli che stanno sulla linea orizzontale amministrano, educano, aiutano il popolo dei fedeli e quindi c’è una linea che dall’orizzontale scende fino a quello che rappresenta il popolo. Vede la grafica? Rappresenta una Croce.
«È bellissima questa idea, a me non era mai venuto di fare un disegno della Chiesa sinodale, lei l’ha fatto, mi piace moltissimo».
Si è fatto tardi. Francesco ha portato con sé due libri che raccontano la sua storia in Argentina fino al Conclave e contengono anche i suoi scritti che sono moltissimi, un volume di centinaia di pagine. Ci abbracciamo nuovamente. I libri pesano e li vuole portare lui. Arriviamo con l’ascensore al portone di Santa Marta, presidiato dalle guardie svizzere e dai suoi più stretti collaboratori.
La mia automobile è davanti al portico. Il mio autista scende per salutare il Papa (si stringono la mano) e cerca d’aiutarmi a entrare in automobile. Il Papa lo invita a rimettersi alla guida e ad accendere il motore. «L’aiuto io» dice Francesco. E accade una cosa che secondo me non è mai accaduta: il Papa mi sostiene e mi aiuta a entrare in macchina tenendo lo sportello aperto. Quando sono dentro mi domanda se mi sono messo comodo. Rispondo di sì, lui chiude la portiera e fa un passo indietro aspettando che la macchina parta, salutandomi fino all’ultimo agitando il braccio e la mano mentre io — lo confesso — ho il viso bagnato di lacrime di commozione.
Ho scritto spesso che Francesco è un rivoluzionario. Pensa di beatificare Pascal, pensa ai poveri e agli immigrati, auspica un’Europa federata e — ultimo ma non ultimo — mi mette in macchina con le sue braccia.
Un Papa come questo non l’abbiamo mai avuto.

Il Fatto 8.7.17
La scienza ha come bersaglio la paura
Quali timori condizionano la ricerca? Difficile dirlo. Ma la posta in gioco è enorme, perché riguarda direttamente noi: si tratta del nostro cervello, del suo funzionamento, della sua evoluzione e della sua unicità
di Andrea Moro

Cosa può far paura nella scienza? Non siamo abituati ad associare questi due termini – la paura e la scienza – eppure la storia della scienza è una storia di coraggio e il coraggio non si dà senza la paura. La paura e il coraggio non possono dunque non essere presenti nella ricerca scientifica ma non solo perché sono il contorno emotivo naturale delle imprese appassionanti e difficili ma perché spesso il coraggio nasce proprio per sconfiggere la paura; ha la paura come bersaglio. Di questo l’occidente ne è consapevole fino dagli esordi della riflessione sulla scienza come ci testimonia Lucrezio che elogia il coraggio della scienza di Epicuro come antidoto per la paura.
E poi c’è paura e paura: c’è la paura dell’ignoto, che Dante stesso ci dice è vinta dall’uomo per la sua naturale propensione alla curiosità, “l’ardore di divenir del mondo esperto”; c’è la paura delle conseguenze, come testimoniano le lettere di Einstein sull’impiego di bombe termonucleari; e c’è anche la paura della fatica, quella che prende Wiles, il grande matematico inglese quando, dopo essersi accorto di un buco nella sua dimostrazione della congettura di Fermat, entrò in una clausura metodica, una clausura che durò un anno ma che non sapeva né quando sarebbe finita, né se mai sarebbe finita.
Ma tutte queste paure sono paure dettate dal mondo; sono paure, cioè, che hanno in comune tra di loro il fatto di dipendere dalla natura delle cose, fisica e biologica, cioè, in sintesi: dalla realtà esterna all’uomo. Esiste, tuttavia, un altro tipo di paura che qui questa sera voglio evocare e considerare insieme a voi; si tratta di una paura diversa, una paura che dipende tutta dall’uomo e che implica un coraggio forse ancora più forte e che ci sfida costantemente: la paura di non riuscire a convincere gli altri quando si è capito ciò che è vero. Si tratta di una paura subdola ma che forse proprio per questo ci condiziona di più di ogni altra e non riconoscerla vorrebbe dire rimanerne vittime. Vediamone un esempio.
Ci fu un momento nella storia della scienza nel quale si giocò una partita importantissima, la partita che segnò la maturazione del metodo scientifico sbocciato come conseguenza del Rinascimento: quel metodo che al di là di ogni relativismo ha reso l’occidente il riferimento unico per la vita di tutti gli esseri umani. In questa partita il destino si giocò sulla vittoria verso questo tipo di paura della quale ho parlato. Mi riferisco alla legge di gravitazione di Newton quella che da sola spiega sia perché una mela cade per terra seguendo una linea retta sia perché la Luna si muove intorno alla Terra seguendo una linea curva. Cosa c’entra in questo la paura?
Al tempo di Newton la fisica aveva appena vissuto una rivoluzione epocale; una rivoluzione stupefacente e giusta ma che Newton si trovò addosso come limite. Cartesio aveva introdotto il principio fondamentale secondo il quale un fenomeno può condizionarne un altro a distanza solo se tra i due c’è una catena di fenomeni locali, dove qualche cosa entra a contatto con qualche cos’altro. Così, ad esempio, il suono dalla mia bocca esce e raggiunge le vostre orecchie trasportato da onde d’aria concentriche come un sasso gettato in uno stagno, e il profumo di un caffè passa dal liquido al vostro naso perché delle invisibili molecole di caffè toccano le mucose e da lì partono i segnali verso il cervello. Non esiste l’azione a distanza per i cartesiani; quella va bene solo per gli alchimisti.
Per Cartesio, dunque, la Luna, la Terra e tutti gli astri si muovono in cerchio perché catturati da un vortice di sostanza invisibile che si chiama etere. Ma la teoria dei vortici, che comunque deve ammettere l’esistenza di una sostanza che nessuno vede, non può essere applicata alla mela che cade. Newton, invece, capisce che i due fenomeni sono descrivibili con la stessa legge ma che, dovendo rinunciare alla teoria dei vortici, deve in qualche modo, sia pure temporaneamente, adottare un modello che descrive un’azione a distanza, ponendosi con ciò contro tutta la comunità scientifica.
Newton ebbe paura: buttare via tutto per non andar contro all’ortodossia scientifica o prendere un’altra strada sospendendo per il momento la validità della teoria cartesiana? Per anni Newton tenne chiusa nel cassetto la sua teoria ma alla fine, fidandosi della sua intelligenza e della sua intuizione, si decise e la pubblicò. L’annuncio di questa vittoria, che ha pochi eguali nella storia, arriva paradossalmente con una dichiarazione di resa che vale la pena ripetere: “Non sono stato in grado di scoprire le cause della forza di gravità e non fingo delle ipotesi. Per noi è sufficiente che la gravità esista veramente, che agisca in conformità con le leggi che ho spiegato e che serva per spiegare tutti i movimenti.” Quella paura fu vinta e la storia dell’umanità prese un nuovo corso.
Quali paure condizionano la ricerca scientifica oggi? Difficile dirlo: forse alcune sono così scontate che nessuno si cura di dichiararle; forse altre si pensa che siano insuperabili. Almeno in un caso, tuttavia, per quanto diverso, noi ci troviamo in una situazione simile a quella di Newton e la posta in gioco è enorme, forse anche maggiore rispetto a quella che riguardava il modello di universo fisico perché questa riguarda direttamente noi esseri umani: si tratta del nostro cervello, della comprensione del suo funzionamento, della sua natura, della sua evoluzione e della sua unicità. E, di tutti i fenomeni che riguardano il cervello, la struttura del linguaggio è il più rilevante perché costituisce lo spartiacque certo tra noi e tutti gli altri animali, l’impronta digitale della nostra mente. Questo è il problema: la grande scoperta delle regolarità matematiche universali delle lingue umane, la cosiddetta teoria delle grammatiche generative, non è al momento totalmente riconducibile alla “meccanica dei neuroni” e non sappiamo se mai lo sarà. Ci dobbiamo per questo fermare o conviene procedere nell’analisi del linguaggio rimandando l’unificazione dei due domini? Dovremo vegliare tutti insieme con coraggio perché non sia la paura a far tacere il prossimo Newton.
* Professore di linguistica generale alla Scuola Universitaria Superiore Iuss di Pavia © Andrea Moro 2017

Il Fatto 8.7.17
Pirandello, il fascino del disinganno dietro a tutto il suo Caos
150 anni fa in Sicilia nasceva uno dei più grandi letterati della cultura italiana, Nobel nel 1934: i suoi testi tradotti nel mondo
 di Pietrangelo Buttafuoco

L’involontario soggiorno sulla terra di Luigi Pirandello inizia il 28 giugno 1867, giusto 150 anni fa. L’uomo della distruzione dell’Io – Uno, nessuno e centomila – non gode della totale disillusione di attribuirsi, senza rimorso, il fallimento sul meglio delle sue stesse illusioni.
E’ l’infelicità – com’è facile a intendersi – a ghermirlo. Nel giorno dopo giorno della realtà, fino all’ultimo – all’ombra della bella pergola sull’incannucciata del Caos, a casa sua – Pirandello gusta lo sfascio del disinganno: “Proprio quell’inganno per cui ora dico a voi che n’avete un altro davanti.”
Si chiude la porta alle spalle – è ancora bambino, quindi studente a Bonn, poi promettente letterato a Roma, infine è in Svezia, insignito del premio Nobel per la letteratura – e la cupa malia di un destino doppio, il volto e la maschera, gli rende grave il peso di ogni cosa.
In una dedica – “a Marta Abba, per non morire” – Pirandello fronteggia l’estenuante mutevolezza dell’apparire.
Lei è l’amore suo mai vissuto, la musa per cui lui scrive, l’attrice che sul palcoscenico del Teatro Argentina, a Roma, durante le prove gli sta accanto al modo che conosce solo lui e nessun altro. E lei però non è adesso polvere accanto a lui, all’ombra del suo pino, ad Agrigento, segnata ai posteri con quella “rozza pietra” che per essere tale – in forma di sepolcro – è di certo chic, non convenzionale, ma è tomba di un’anima sola. E solitaria.
L’albero, erto a modo di Croce, lascia passare in silenzio la morte ma non certo l’angoscia i cui artigli invisibili – dal dicembre del 1961, quando dal cimitero del Verano le ceneri di Pirandello, vengono traslate in Sicilia – sussurrano ansia alle scolaresche in gita d’istruzione. E’ un’inquietudine che solo il sentimento del contrario, visitando la casa dello scrittore, può sciogliere nell’esito tutto umoristico di un foglio esposto, una reliquia tutta di comicità.
Ecco la storia: è il nove novembre 1934 e Luigi Pirandello – Accademico d’Italia – apre l’uscio e accoglie in casa una moltitudine di cronisti, operatori di ripresa dell’Istituto Luce, fotografi, funzionari di polizia e autorità prefettizie.
L’Agenzia Stefani comunica la notizia appena diramata dalla Casa Reale di Svezia, l’autore di Novelle per un Anno, di Maschere Nude, del Fu Mattia Pascal e di tante altre opere apprezzate nella scena internazionale, è insignito del premio Nobel per la Letteratura.
Affollati all’entrata, stanno ad attendere con facce ridenti gli accompagnatori, gli autisti, i curiosi e i vetturini che hanno lasciato le loro carrozzelle dove la traversa si veste di spuntoni e siepi. La petulanza degli entusiasti è insoffribile e Pirandello, che acconsente alla richiesta di fabbricare un’istantanea e un filmato che lo colga “dal vero”, così da raccontare al mondo la giornata operosa del sommo artista, batte sui tasti della macchina da scrivere – pesta al modo suo, proverbiale, con un solo dito – e per 27 volte, senza che né i fotografi e neppure i cameraman se ne accorgano, scrive la parola pagliacciate (con 24 punti esclamativi, un “paglia”, due tentativi di “pppp” e qualche “pagliaxxtte”).
L’unico filmato “dal vero” è quel foglio. L’esistere oltre l’apparire. La maschera, nella finzione, svela l’estraneo inseparabile che vive la condizione di ognuno. E a ciascuno, nel teatro visibile della storia, spetta esserci e sembrare contemporaneamente. E’ quel sentirsi vivere, oltre le convenzioni sociali, nella vita che non conclude.
La realtà d’oggi è l’illusione di domani. La parola ad Anselmo Paleari, la teoria della lanterninosofia, da Il Fu Mattia Pascal: “Nell’improvviso bujo, allora è indescrivibile lo scompiglio delle singole lanternine: chi va di qua, chi va di là, chi torna indietro, chi si raggira; nessuna più trova la via: si urtano, s’aggregano per un momento in dieci, in venti; ma non possono mettersi d’accordo, e tornano a sparpagliarsi in gran confusione, in furia angosciosa: come le formiche che non trovino più la bocca del formicaio, otturata per ispasso da un bambino crudele”.
L’illusione di oggi non è mai la realtà di domani. Alla rappresentazione s’affianca sempre un suo riflesso: la rappresentazione della rappresentazione. Ben tre corde – quella seria, quella civile e quella pazza, e sono quelle del Berretto a Sonagli – si fanno carico dell’intera coscienza giusto a impedire agli uomini quello che incombe sugli animali: l’immediata risoluzione del bramare. Pirandello – l’uomo che nel distruggere l’io diventa aggettivo – indica nella messa in scena pirandelliana la strada sbagliata da cui non c’è più uscita.
Chi scansa l’ora, scansa il pericolo, e Leonardo Sciascia, in Alfabeto Pirandelliano, alla voce psicoanalisi – dove Michel David lamenta nel pur cervellotico don Luigi un ritardo rispetto agli sviluppi delle scienze – può ben rallegrarsi. “Nel caso di Pirandello il proverbio è di splendente verità: l’avere scansato l’ora di Freud è stato un bel colpo di fortuna.”
Pirandello, di formazione culturale germanica, più che francese, rasenta infatti quegli stessi Holzwege (I sentieri interrotti di Martin Heidegger) che nella seconda metà del Novecento inoltrano l’estetica e la teoretica nell’aurora esistenzialista e nella fenomenologia.
Acuto scandagliatore dei segni, Pirandello non si sottrae all’incontro con Walt Disney, e tutto quel suo teatro – il suo prodigarsi perfino da capocomico, a farsi complice di Angelo Musco, ossia il supremo artista del riso a lui contemporaneo – non è un solco dove lui sta da epigono ad altri, fosse pure Carlo Goldoni o William Shakespeare, bensì dimora, luogo che dà origine.
Ancora una citazione dall’Alfabeto di Sciascia, giustappunto la voce teatro: “‘Cominciando, si era fermato su due parole ignote; nessuno, nell’ambito dell’Islam, aveva la più piccola idea di quel che volessero dire’. Le parole sono ‘tragedia’ e ‘commedia’: e Borges immagina lo smarrimento di Averroè quando, traducendo la Poetica di Aristotele, vi si imbatte. Come poteva penetrare il significato di quelle due parole, se tutto l’Islam non aveva nozione del teatro? Così – come ancora nell’Islam di cui Agrigento era parte – Pirandello il teatro lo inventa. Dirà Pitoëff: ‘Il teatro era in lui, egli era il teatro’”.
È teatro, dunque, il Pirandello che disegna il profilo elegante di Rossella Falk nell’allestimento dei Sei personaggi in cerca d’autore del 1954, con lei c’è – un monumento – Romolo Valli, ed è canone quello che si genera dall’orchestrazione di regia, parola e disinganno.
Com’è facile intendere, il fallimento sul meglio delle nostre stesse illusioni è nell’attesa, nell’assenza, nell’istante, nel compimento degli addii, nello struggimento di bellezza e grazia e nel mai più.
Il cervello nulla può, è come un mulinello, e l’amore muta in disperazione, fa bottino del cuore e lo incatena. A Marta Abba, “per non morire”, Pirandello destina quel che riserva a se stesso. Il mai più. Lo esprime in Romanza di Liolà ed è la più bella delle serenate.
Con Nicola Piovani, i versi, hanno trovato uno spartito dove poter volare (l’esecuzione più bella è quella del Maestro Antonio Vasta, la voce definitiva nel canto è quella di Mario Incudine) e fa così:
D’un regnu di biddizzi e di valuri
Avia essiri almenu na regina
Chidda ca m’avia a vinciri d’amuri
Chidda ca m’avia vinciri lu cori
Chidda ca m’avia a mettiri a catina
Ppi ciriveddu haiu un firrialoru
Lu ventu sciuscia e mi lu fa girari
E quannu sciuscia gira tuttu a coru
E non c’è versu ca si po fermari
L’amuri avi quattru arbuli ciuriti
Unu d’aranciu e l’autru di lumìa
Unu di gelsuminu spampanati
L’autru ca è a rama di la gilusia
Ca fa tutti l’amanti disperati
Ppi ciriveddu haiu un firrialoru
Lu ventu sciuscia e mi lu fa girari
E quannu sciuscia gira tuttu a coru
E non c’è versu ca si po fermari

il manifesto 8.7.17
Il Museo della Resistenza di Torino rischia la chiusura
Memoria . Finanziamenti ridotti e ritardi nell'erogazione di quelli del passato. Nel frattempo appelli e un crowdfunding per scongiurare la chiusura
di Luciano del Sette

Il rischio più grande è quello di una lenta agonia. Esordisce così Guido Vaglio, direttore del Museo Diffuso della Resistenza di Torino. Da un paio di settimane, intorno al museo, si sono diffuse voci di una possibile chiusura, cui sono subito seguiti appelli, firmati, tra gli altri, da Gustavo Zagreblesky, Marco Revelli, Aldo Agosti, Luciano Violante. Il perché, almeno in apparenza, sembra rientrare in un copione ormai classico quando ha come soggetto le istituzioni culturali e la cultura in generale. Sopra ogni altra cosa i contributi pubblici, puntualmente in ritardo e progressivamente tagliati. Ma nello specifico, altri problemi complicano il quadro.
IL MUSEO, allestito in uno dei due palazzi dei quartieri Militari progettati a inizi Settecento da Filippo Juvarra, apre i battenti nel 2003 su iniziativa del comune. Nel 2006 nasce un’associazione di cui fanno parte comune, provincia, regione, Istituto Storico della Resistenza e Archivio Cinematografico della Resistenza. Il finanziamento istituzionale annuo erogato ammonta a cento e sessantamila euro, ai quali si sommano affitto e utenze gratuiti, accanto a ottantamila euro dalla Compagnia di San Paolo. Ad aprile 2016 viene inaugurato, nel secondo palazzo dei Quartieri, il Polo del Novecento, che raduna diciannove realtà, tra di esse l’Anpi, L’Istituto Gramsci, il Centro Piero Gobetti. Restauri e lavori sono finanziati per intero dalla Compagnia. Si volatilizzano, di conseguenza, gli ottantamila euro destinati al museo. Tagli e ritardi (la Regione è debitrice delle quote 2015 e 2016) hanno portato i conti in rosso, fino a esaurire il fido bancario e a mettere a repentaglio gli stipendi dei dipendenti. Questo nonostante l’intervento della giunta Appendino, pochi giorni fa. Ma, afferma Vaglio, le difficoltà non sono solo di carattere economico: «Abbiamo posto ai soci fondatori il problema del mandato politico che il museo ha. Vorremmo che si pronunciassero sui progetti di sviluppo. L’attuale mancanza della piena operatività del Polo del Novecento ha determinato una situazione di stallo, che ricade anche su di noi. Infine, c’è un problema di sovrapposizione di ruolo e funzioni». Intanto, al museo sono stati tolti lo spazio per le mostre temporanee e la sala conferenze, poiché queste attività sono divenute prerogative del Polo.
ESISTE UNA VIA D’USCITA? «La proposta, per altro concordata con Comune e Regione, sarebbe di una nostra integrazione all’interno del progetto globale. Nonostante il pubblico via libera e le promesse del Polo di convocare un tavolo di confronto politico e tecnico, tutto è fermo».
Stanno invece facendo qualcosa di concreto i torinesi. La sottoscrizione lanciata dal museo sul web ha raccolto in brevissimo tempo dodicimila euro. Un segnale forte di solidarietà, un no deciso alla chiusura di un luogo che difende memorie sempre più fragili. Evocate ormai soltanto nella retorica delle cerimonie da calendario.