giovedì 13 luglio 2017

SULLA STAMPA DI GIOVEDI 13 LUGLIO
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il manifesto 13.7.17
Il nodo Pisapia divide la sinistra: «Non facciamo l’intendenza»
Incontro a Roma con l'associazione per il rinnovamento della sinistra (Ars). La leadership mediatica di Giuliano Pisapia sul progetto di (centro)sinistra prossimo venturo sta stretto alla sinistra del teatro Brancaccio che non nasconde le sue critiche
di Roberto Ciccarelli

ROMA La leadership mediatica di Giuliano Pisapia sul progetto di (centro)sinistra prossimo venturo sta stretto alla sinistra del teatro Brancaccio che non nasconde le sue critiche. In un incontro organizzato ieri al Senato dall’associazione per il rinnovamento della sinistra (Ars), presieduta da Aldo Tortorella e Vincenzo Vita, i nodi sono venuti al pettine a cominciare con l’intervento di Anna Falcone, autrice dell’appello del Brancaccio con Tomaso Montanari: «Si sta creando un dibattito che si occupa del proprio ombelico con una discussione sulle alleanze e sulla leadership – ha detto – Al Brancaccio non abbiamo delimitato un’area chiusa della società civile contro la politica ma abbiamo parlato di una politica al servizio dei cittadini. Il nostro invito al dialogo viene rigettato giorno dopo giorno. Inizio a pensare che chi non vuole discutere non ha nulla da proporre. In queste condizioni si rischia di fare un accordicchio, non una lista unitaria e una sinistra seria con un programma credibile». Pur senza nominarlo, il riferimento polemico di Falcone era Pisapia.
A Arturo Scotto, ex Sel ora in Mdp, è toccato il compito di ribadire la centralità di Pisapia nel progetto del (centro)sinistra: «È necessario costruire una sinistra che ricostruisca il campo largo del centro-sinistra senza veti a destra e a sinistra, oltre il sì e il no» ha detto, probabilmente riferendosi al fatto che Pisapia ha votato «Sì» al referendum del 4 dicembre, mentre tutta la sinistra ha votato «No» e su questo intende dare battaglia in chiave anti-Renzi e anti-Pd. «È probabile che la sua sia solo una dimensione mediatica, e che fuori non esistiamo – ha continuato Scotto – Ma bisogna fare i conti con Pisapia: esiste e determina fatti politici».
Per Rifondazione Comunista e Sinistra Italiana questa prospettiva ineluttabile non è accettabile. Dopo il forum al Manifesto, Maurizio Acerbo lo ha ribadito nella discussione di ieri all’Ars che invitava a riflettere sull’«unità della sinistra»: «Falcone e Montanari hanno chiesto ai partiti di fare un passo indietro per costruire una lista di sinistra. Noi e anche Sinistra Italiana ci stiamo – sostiene il segretario di Rifondazione – Mdp dice che vuole fare il centrosinistra che è un’altra cosa. Se l’appello del Brancaccio fosse stato accolto non ci troveremmo in questa impasse, la loro risposta è stata piazza SS. Apostoli. Insisteremo per creare un’unità, ma arriverà un momento in cui il tempo si fermerà e si dovranno prendere delle decisioni».
«Non vorrei che per la preoccupazione di evitare divisioni dopo le elezioni si finisca per dividersi prima» ha detto Nicola Fratoianni, segretario di Sinistra Italiana. Il messaggio a Pisapia è chiaro: «Non sono disponibile a seguire come l’intendenza un processo che non trovo convincente. Penso che chi si sente unito più al Pd che a noi, come ha detto Pisapia di recente, ponga un problema politico gigantesco. Dopo l’«aiutiamoli a casa loro» che Renzi ha detto sui migranti non può dirlo. Le leadership e soprattutto i programmi si costruiscono insieme».
«È in corso una battaglia politica sul senso di questa lista – hanno detto Massimo Torelli e Alfonso Gianni (Altra Europa) – Bisogna spingere al confronto sui territori per capire chi esiste e chi no in questa partita». «Su cosa chiederemo il voto? Sul fatto che siamo uniti? Non è sufficiente – ha concluso Bia Sarasini (Altra Europa) – Un progetto politico deve farsi carico della vita materiale delle persone e da questo trovare un accordo su una lista elettorale».

il manifesto 13.7.17
La crisi di rappresentanza del Pd e la lista unica delle sinistre (al plurale)
Sinistra. I due errori da evitare per non ripetere i fallimenti passati. Non serve una fusione a freddo e non si tratta solo di una questione di programmi
di Marco Valbruzzi

Una nuova formazione politica alla sinistra del Pd non può nascere come sommatoria di liste o per collage di leader o leaderini. Una presunta o possibile lista delle sinistre (al plurale), compreso il bilancino per calibrare le quote di candidature di ciascuna componente, è destinata al fallimento.
Un nuovo partito di sinistra, se vuole essere un’organizzazione seria destinata a durare nel tempo, deve partire dal basso, dalla società, dalle innumerevoli esperienze civiche e associative che tengono ancora in vita la politica a livello locale.
Già il Pd, al momento della sua formazione, aveva completamente dimenticato la questione delle basi sociali sulle quali fondare la propria proposta di rappresentanza politica. L’illusione veltroniana di poter tenere assieme un po’ di tutto – operai del settore manifatturiero con i grandi imprenditori integrati nel mercato internazionale, i dimenticati dalla globalizzazione con i ceti medi riflessivi e girotondini, i giovani non garantiti da un mercato del lavoro sempre più iniquo con una schiera crescente di pensionati, i rappresentanti delle piccole e medie imprese con i dipendenti del nostro settore pubblico – si è rivelata fallimentare: un’illusione maggioritaria che poteva funzionare in tempi “normali”, ma che è stata giustamente travolta appena la crisi economica ne ha portato alla luce tutte le contraddizioni. Da qui nasce la crisi del Pd; non dalla leadership di Renzi o dalle mille correnti vocianti al suo interno.
Il Pd si è lacerato perché – come tutte le socialdemocrazie europee oggi in crisi – non ha saputo compiere delle scelte chiare che permettessero di identificare con relativa precisione le rappresentanze sociali a cui rivolgere il proprio messaggio. A dispetto delle cronache giornalistiche e forse anche al di là delle intenzioni degli stessi protagonisti politici, la scissione del Pd non è stata dettata (soltanto) da personalismi di corto respiro. Dietro quella scissione c’è – la si voglia vedere o no – una riflessione ben più profonda che riguarda la questione della rappresentanza sociale all’interno di un partito che, nell’ansia di voler rappresentare un po’ tutti, non è riuscito a rappresentare nessuno.
Se questo è lo stato dei fatti, bisogna evitare di compiere gli stessi errori del passato. Il primo errore da evitare è di creare una nuova formazione politica mettendo semplicemente assieme pezzi di nomenklatura che ormai hanno esaurito tutte le loro capacità di rappresentanza. Non è da un’altra fusione fredda che potrà emergere un nuovo partito per la, o della, sinistra italiana.
Il secondo errore da scongiurare è di costruire un partito senza un’identità ben definita e con una cultura politica dai contorni imprecisati. Si badi bene: non è solo una questione di programmi, come si ripete da più parti e stancamente in questi giorni. Si tratta di scelte di fondo chiare sui valori identitari della sinistra: uguaglianza, solidarietà, etica. Ma soprattutto si tratta di capire a quali ceti o strati sociali si vuole dare voce e rappresentanza.
Qui vanno prese decisioni chiare: quali progetti si offrono alle nuove generazioni che trovano invalicabili barriere all’ingresso nel mercato del lavoro? Quali tutele si danno ai lavoratori in attività manuali e routinarie destinati ad essere travolti dalla rivoluzione informatico-tecnologica? Quali diritti sociali si devono riconoscere a tutti gli individui, in ogni momento della loro vita? Quali garanzie di welfare vanno assegnate a chi è costretto a convivere con la precarietà quotidiana? Quali standard di sicurezza bisogna assicurare a cittadini che si sentono ormai abbandonati dallo Stato?
È su questi temi che la “nuova” sinistra deve ricostruire la propria identità, presentandola in un contenitore chiaro e con un leader sufficientemente credibile. Soltanto dopo sarà possibile costruire un dialogo con le altre forze politiche che condividono una visione progressista della società e della politica. Il confronto è possibile soltanto tra soggetti che sanno chi sono e cosa vogliono. Altrimenti c’è solo confusione.

il manifesto 13.7.17
La manifestazione del 1 luglio a Santi Apostoli
Se la tattica soffoca il bisogno di nuove strategie
di Paolo Favilli

Negli interventi pronunciati alla manifestazione del 1 luglio a Santi Apostoli a proposito del confuso quadro delle possibili forme unitarie a sinistra, credo vadano colti i riferimenti di Bersani a precisi punti programmatici perché possono essere un buon inizio per un confronto concreto.
Alcuni di quei punti, se considerati nella pienezza dei contesti tanto immediatamente operativi che di valutazione analitica, possono davvero essere indicativi di una inversione della direzione.
Il fatto è, però, che le possibilità di sviluppo in tale direzione sono legate non semplicemente ad una loro enunciazione, ma alla loro collocazione in un percorso e in una dimensione critica che possa renderle davvero credibili come prospettiva non legata solo alle necessità contingenti del momento politico.
Nella manifestazione di Santi Apostoli, in particolare nel discorso conclusivo, tale prospettiva è rimasta occultata, dalla caligine spessa della chiacchiera politicista, del discorso sostanzialmente vacuo nei contenuti, ma ricco di segnali di fumo relativi ad una gamma assai mobile di possibilità di posizionamento in schieramenti pre e/o post elettorali. Una caligine che non è stata sciolta, ma appena diradata, nel Forum «C’è vita a sinistra» (il manifesto, 8 luglio).
A Santi Apostoli, lo stesso Bersani, che pure si è confrontato con elementi di concretezza passibili di positivo sviluppo, ha nel contempo rivendicato le politiche economico-sociali di alcuni lustri con la motivazione che si trattava di una diversa fase politica. Ora il partito cui Bersani apparteneva veniva da lontano, di fasi politiche assai differenti ne aveva affrontate parecchie e di conseguenza si era trasformato, ma mai in maniera tale da fare proprie le ragioni dei propri antagonisti storici.
Oggi persino Renzi emette qualche borbottio nei confronti del fiscal compact. Ma può essere derubricato ad «errore» un atto che costituzionalizza una particolare teoria, anzi meglio, narrazione, ideologia economica? Quella stessa ideologia contro la quale si è costruito tutto il complesso fecondissimo della teoria critica che, in vari modi, per un secolo e mezzo è stata carne e sangue della storia del movimento operaio e socialista? Ora bisogna pure tentare l’abbozzo di una spiegazione delle ragioni per cui possa esistere una fase politica in cui sia possibile un’operazione del genere da parte di una forza che, in qualche modo, di quella storia ha continuato a dichiararsi erede.
Qualsiasi progetto anche vagamente unitario, nella molteplicità delle forme possibili, non può non partire dalla riflessione sul fatto che la partecipazione convinta delle varie «cose» alle caratteristiche culturali ed operative, alle logiche complessive della fase di accumulazione in corso, sia stata davvero la sostanza di un lungo ed incisivo periodo storico. E non si tratta di affermazioni ispirate da «furore iconoclasta», «estremiste», secondo l’espressione che D’Alema ha usato in un’intervista a questo giornale (20 giugno), bensì dei risultati di studi seri prodotti, e non solo in Italia, da quasi tutto l’arco delle scienze storico-sociali.
Mi rendo perfettamente conto di quanto sia difficile per i protagonisti di una vicenda durata più di vent’anni fare i conti con i lineamenti profondi di quella storia, ma forse proprio la contestualizzazione storica dei punti programmatici evocati può aiutare a riprendere una visione non tattica bensì strategica della politica.
Naturalmente esistono anche le necessità, i pericoli della contingenza politica. In quale modo coniugare questo nostro immediato presente con le tappe del difficile percorso di costruzione del soggetto politico basato sulla critica operante? Ragionando in termini di analisi sistemica (non sistematica)
La qual cosa comporta che la considerazione del momento attuale si pone all’interno di un reticolo di relazioni spaziali e temporali che lo trascendono, ma che nello stesso tempo danno conoscenza reale della natura pluridimensionale del contesto. La prospettiva del soggetto politico, delle sue possibilità, delle sue forme è momento essenziale dell’analisi, così come la riflessione seria sui venticinque anni di storia che abbiamo alle spalle.
Il momento attuale è un incrocio di percorsi, è un presente come storia e nello stesso tempo è una proiezione nella costruzione del futuro.
Solo all’interno di questa dimensione analitica la «discontinuità» conclamata dai Pisapia, dai D’Alema, da tutti i sostenitori di un «nuovo» centrosinistra, può acquisire determinazione di significato. In mancanza di analisi è solo l’ennesima forma di astuzia verbale, di perseveranza della tattica in primo luogo.

La Stampa 13.7.17
Renzi nega il golpe, lite con Letta
Il segretario: “Il Pd decise di cambiare cavallo. Nessun complotto, ma lui mise il broncio” La replica: “Disgustoso, mantengo le distanze. Gli italiani sono saggi e sanno giudicare”
di Fabio Martini

La “presa” di palazzo Chigi in quel convulso febbraio del 2014 era diventata la leggenda nera più infamante per Matteo Renzi, la prova provata della sua inaffidabilità: passata, presente e futura. Per questo l’ex segretario del Pd, da mesi, aveva annunciato che avrebbe reso nota la sua versione dei fatti nel libro “Avanti”, finalmente uscito ieri. E il racconto di quei giorni, fatto dal principale protagonista, restituisce una sequenza diversa dalle ricostruzioni di tanti osservatori che, come scrive Renzi, avevano descritto l’uscita di scena di Enrico Letta «come un golpe». L’attuale leader del Pd racconta che sin dal dicembre 2013, il capofila della minoranza bersaniana Roberto Speranza gli aveva confidato: «Matteo, così non andiamo da nessuna parte. Hai vinto le primarie, rilancia tu il paese, andando a governare».
Poi si arriva al febbraio 2014: «Accade semplicemente che il Pd decide di cambiare cavallo. Nessuno di noi ha ordito complotti segreti, ma si è presa una decisione perché il governo Letta non si muoveva». E presentando il suo libro, Renzi ha rincarato: «È stata un’operazione voluta in primis dall’allora minoranza del Pd. Dalla Direzione del partito, in streaming, si capisce che la mia non è una ricostruzione ex post». E a quel punto - racconta Renzi - il presidente della Repubblica Napolitano «mi convoca informalmente al Quirinale, mi invita a cena nel suo appartamento, capisco che ha deciso di rispondere alle sollecitazioni non solo del Pd». Conclusione: «Quello che è stato definito “complotto” ha un nome più semplice: si chiama democrazia».
Come in tutte le ricostruzioni fatte da una delle parti in gioco, anche quella di Renzi può presentare significativi omissis in tornanti decisivi ma la sostanza corrisponde a quel che accadde in quei giorni: tutto il Pd, compresa la minoranza, “licenziò” in tronco Enrico Letta, “chiamò” Matteo Renzi e il capo dello Stato registrò la staffetta. Certo, Pier Luigi Bersani era momentaneamente fuori gioco per motivi di salute, ma tutti gli altri, da D’Alema ad Epifani, da Speranza a Fassina accesero il semaforo verde.
Alla ricostruzione, l’ex premier aggiunge anche alcuni apprezzamenti personali su Letta, ma in questo caso la qualità del racconto cambia. Al suo predecessore, che in questi tre anni gli ha riservato critiche politiche molto taglienti, Renzi indirizza apprezzamenti di questo tipo: «L’unica volta in cui Enrico si era candidato alle primarie, nel 2007, aveva raccolto la miseria dell’11% di voti». E ancora: «Non è un caso se nessuno ricorda un solo provvedimento degno di questo nome di quell’esecutivo, se escludiamo l’aumento dell’Iva». E ancora: una volta uscito di scena, «Letta entra in modalità broncio». E in un momento che «per definizione deve essere giocato all’insegna del fair play», la consegna della campanella «segna un investimento del premier uscente» che assumendo un atteggiamento brusco, fa la parte della vittima, che funziona sempre». Meno argomentata la spiegazione del celeberrimo «Enrico stai sereno», per tanti prova provata dell’inaffidabilità di Renzi, che scrive: «L’idea che “Stai sereno” sia una fregatura mi ferisce. La cosa che più mi fa male è l’accusa di non aver mantenuto la parola data».
A Renzi che, per una volta dà lezioni di stile, Enrico Letta risponde con una nota durissima: «Sono convinto che il silenzio esprima meglio il disgusto e mantenga meglio le distanze. Da tempo ho deciso di guardare avanti e non saranno queste ennesime scomposte provocazioni a farmi cambiare idea. Gli italiani sono saggi e sanno giudicare». Un duello con lo sguardo rivolto al passato. Ma nel tentativo di rimpicciolire la figura di Letta, in Renzi ci può essere anche il tentativo di dare un colpo ad un personaggio come Letta, che prima delle elezioni potrebbe diventare un testimonial del disagio di una parte dell’elettorato del Pd verso la leadership renziana.

Il Sole 13.7.17
Pd-governo, Renzi nega divisioni
Duro scontro con Letta: «Avvicendamento voluto da minoranza Pd» - La replica: «Provocazioni disgustose»
di Emilia Patta

Roma «Io voglio portare il Pd al 40%. La campagna elettorale? Durerà i prossimi 7-8 mesi». Alla fine di una giornata dedicata interamente alla presentazione del suo libro “Avanti”, in uscita proprio ieri nelle librerie, Matteo Renzi rilancia così il suo obiettivo – eguagliare il risultato delle europee del 2014 – durante la trasmissione televisiva Bersaglio mobile. Ed è una frase, la sua, che dice due cose: si andrà a votare con il sistema lasciato in piedi dalla Consulta e che prevede, per la Camera, il premio di maggioranza per la lista che superi appunto il 40%; la campagna elettorale per raggiungere quell’obiettivo è di fatto già iniziata in questi giorni con il lancio del libro.
Anche in questa chiave vanno lette le frizioni sotterranee tra il segretario del Pd e il governo di questi giorni a proposito di quella che Renzi considera la proposta più importante contenuta nel suo libro, anticipata domenica scorsa dal Sole 24 Ore: una sorta di “patto di legislatura” per la crescita che prevede il 2,9% del rapporto deficit\Pil per cinque anni (ora è al 2,4%) in modo da avere più di 30 miliardi di euro l’anno a disposizione per abbassare le tasse e spingere il Pil. Una proposta forte, di rottura, che naturalmente ha provocato la reazione a dir poco fredda di Bruxelles e l’imbarazzo del Mef, già impegnato a trattare con Bruxelles i margini di flessibilità possibili per la legge di bilancio autunnale. «È un progetto per la prossima legislatura», si sono affrettati a precisare lo stesso Renzi e i ministri economici Pier Carlo Padoan e Carlo Calenda. E il segretario del Pd, presentando in mattinata il suo libro, ha voluto precisare che i rapporti con il governo sono di fattiva collaborazione: «Non c’è alcuna divisione tra l’azione del Pd e quella del governo. Non c’è oggi e non ci sarà per tutti i mesi da qui a fine legislatura. Sui provvedimenti c’è totale corrispondenza di vedute e pieno sostegno del Pd all’azione del governo». Il progetto del deficit al 2.9 riguarda dunque la prossima legislatura. E sullo ius soli in discussione in Senato, provvedimento sul quale il governo chiederà la fiducia probabilmente già nel prossimo Cdm di venerdì, la «sintonia» tra Palazzo Chigi e Largo del Nazareno - si rimarca da entrambe le parti – è totale. Nessun tentativo da parte di Renzi di forzare, dunque, ma la considerazione condivisa che, trattandosi di un provvedimento a rischio impopolarità, è meglio approvarlo prima della pausa estiva che troppo a ridosso delle elezioni.
Per il resto il libro di Renzi, nelle parti che non sono state anticipate nei giorni scorsi, cattura l’attenzione per la ricostruzione del passaggio di consegne con Letta: «Accade semplicemente che il Pd decide di cambiare cavallo. Lo fa dopo il voto alle primarie di due milioni di persone e alla luce del sole. Nessuno di noi ha ordito complotti segreti, ma si è presa una decisione perché quel governo non si muoveva. Non è un caso se nessuno ricorda un solo provvedimento degno di questo nome in un anno di vita di quell’esecutivo , se escludiamo l’aumento dell’Iva il 1° ottobre 2013. Quello che per mesi commentatori compiacenti hanno definito in modo brutale “complotto” ha un nome più semplice: si chiama democrazia», scrive Renzi sottolineando come la “defenestrazione” di Letta fu decisa in primis dall’allora minoranza del Pd guidata da Roberto Speranza e Gianni Cuperlo. Nessun golpe, dunque, mentre Letta reagisce «in modo infantile, mettendo il broncio». Una ricostruzione che naturalmente non piace al diretto interessato: «Sono convinto che il silenzio esprima meglio il disgusto e mantenga meglio le distanze - dice Letta - . E non saranno queste ennesime scomposte provocazioni a farmi cambiare idea».
Né manca, nel libro di Renzi, il capitolo sulle banche e sul ruolo svolto da Bankitalia. Con un passaggio, in particolare, che ha suscitato un certo «stupore» dalle parti di Via Nazionale dal momento «he si è sempre lavorato insieme». Eccolo: «Quando arriviamo a Palazzo Chigi il dossier banche è uno di quelli più spinosi. Ci affidiamo quasi totalmente alle valutazioni e alle considerazioni della Banca d’Italia, rispettosi della solida tradizione di questa prestigiosa istituzione. E questo è il nostro errore, che pagheremo assai caro dal punto di vista della reputazione più che della sostanza».

Corriere 13.7.17
Sul Pd avanza l’ombra di una nuova scissione
di Massimo Franco

Sul Pd l’ombra di un nuova scissione. A settembre si capirà. Nella cerchia renziana più stretta, la prospettiva è vista con irritata rassegnazione.
L a metafora della «tenda» sta diventando pericolosamente virale. Da quando Romano Prodi, fondatore dell’Ulivo, ex premier ed ex presidente della Commissione europea, ha raccontato di avere piantato una tenda simbolica vicino al Pd, intorno al partito di Matteo Renzi è spuntato un vero e proprio camping. Ma non si tratta di un accampamento costruito da dirigenti in sintonia con la leadership renziana: semmai è il contrario. Sono «tende» tirate su da chi si sente in una sorta di limbo, con un piede fuori e uno dentro: spiazzato politicamente ma non ancora sicuro di dovere andare altrove. Sono minoranze che per adesso aspettano di capire se nel «giglio magico» prevarrà l’idea di una formazione tagliata su misura sul leader, senza la possibilità di spazi per i critici; o se il Pd sopravviverà. Ma si comincia a considerare seriamente la possibilità di una nuova rottura: un po’ voluta, un po’ subìta.
Le trattative
Qualcuno sta già trattando per uscire; altri sperano che alla fine prevalga un progetto più inclusivo. A settembre si dovrebbe capire se sta per consumarsi la seconda scissione in pochi mesi: alla vigilia di un voto regionale in Sicilia che si presenta come una sfida proibitiva; e a pochi mesi da elezioni politiche destinate a ridisegnare i rapporti di forza in Parlamento. «Vedo un pericolo serio. È vero che per il momento lo strappo è stato rinviato. Non è scongiurato, però», spiega uno dei dirigenti storici del Pd. «E la mia sensazione è che Matteo lo stia sottovalutando. Non ha ancora capito che, se ci fosse un’altra scissione, il partito non reggerebbe». Non essere riuscito a ottenere le elezioni anticipate ha reso il vertice più assertivo verso il governo di Paolo Gentiloni. Ha acuito la sindrome del complotto contro il segretario; e acuito la voglia di un’altra resa dei conti.
I tempi
Nella cerchia renziana più stretta, la prospettiva della scissione è vista con una punta di irritata rassegnazione; e in parte anche come una liberazione da oppositori interni vissuti come una fastidiosa zavorra. Esponenti del governo come il ministro Luca Lotti e la sottosegretaria a Palazzo Chigi, Maria Elena Boschi, tendono a vedere l’uscita dal Pd del capo della minoranza più consistente, il Guardasigilli Andrea Orlando, solo come una questione di tempo: sembrano non chiedersi più «se» andrà via ma solo «quando». E questo nonostante Orlando ripeta che cercherà fino all’ultimo di rimanere e di scongiurare la seconda scissione; e che terrà aperto da dentro il Pd un canale di dialogo con la formazione nascente dell’ex sindaco di Milano, Giuliano Pisapia, perché comunque bisognerà tornare a parlarsi.
Insomma, l’incognita è se almeno in una parte del vertice si stia lavorando per provocare la rottura o per evitarla. Nell’attesa, il «camping» democratico si allarga. Si fanno strada il timore e il sospetto che il vertice punti a sostituire i segretari non renziani nei congressi provinciali dopo l’estate: un assaggio di quello che avverrebbe nelle liste per il Parlamento. La guerra interna che si sta combattendo a livello locale, dall’Emilia Romagna alla Calabria, viene considerata una controprova della resa dei conti in incubazione. Forse si tratta di paure esagerate, sebbene le reazioni alle critiche di personaggi della maggioranza come il ministro Dario Franceschini siano state dure, perfino ruvide. La domanda è se sia frutto degli spigoli caratteriali di Renzi, di una strategia che non esclude un secondo trauma, o di entrambi.
Il progetto
In questo caso la prospettiva, a sentire gli avversari, sarebbe di un segretario tentato a fine estate di archiviare il Pd per lanciare in modo esplicito il proprio partito. Una forza agile, fedele, magari intorno al 15-20 per cento ma in grado di far valere il proprio peso nelle trattative per il governo, in un Parlamento senza maggioranze: sebbene a Bersaglio Mobile su La 7 Renzi abbia ribadito di volere il 40 per cento «per governare da soli»; e dal vertice si smentisca qualunque ipotesi di scissione e si ricordi che a ottobre si celebrerà il decennale della fondazione del Pd: un’occasione per ricucire, non per lacerare. Il problema sarebbe solo di evitare «un congresso permanente» e di rimettere in discussione una strategia e una leadership confermate appena due mesi fa. Dunque, la situazione rimane in bilico: nulla è scontato. Lo stesso Renzi forse intuisce che un partito destinato a perdere altri pezzi viene punito: i sondaggi forniscono più di un indizio.
I tre mandati
C’è chi gli ha fatto notare che, ponendo il limite dei tre mandati parlamentari, rischia di accelerare le dinamiche centrifughe. «Quando Mino Martinazzoli annunciò questa regola per il Partito popolare negli Anni Novanta, in pochi giorni si ritrovò la scissione del Ccd di Pier Ferdinando Casini», ricorda uno dei protagonisti di allora. E evoca il terrore di centinaia di deputati e senatori quasi certi di non essere ricandidati. Ma il tema è ancora più di fondo. La convinzione è che se dovesse prevalere la spinta a escludere le minoranze e dunque a facilitare un altro strappo, non esisterebbe più il Pd. L’uscita di Orlando potrebbe portare con sé quasi per inerzia quella di Franceschini e dell’altro ministro, Graziano Delrio, finora leali alleati del segretario. Prodi pianterebbe la sua «tenda» sempre più lontano dal Pd. L’incontro di ieri a Bologna con Pisapia e Orlando può essere vista come una conferma.
La somma di questi corpo a corpo non promette riconciliazioni, semmai strappi progressivi. Ma l’esito prevedibile è che alla fine non ci sarebbero più il partito, opposto agli scissionisti entrati nell’orbita della nebulosa di Pisapia: ci sarebbe la metamorfosi renziana di ciò che resta del Pd, e dall’altra parte un nuovo Ulivo. Il «camping» diventerebbe un vero agglomerato con ambizioni e consistenza almeno pari a quelli del partito d’origine. Ma Renzi, se vuole, è ancora in tempo per impedirlo. Il problema è questo: se vuole.

Il Fatto 13.7.17
È il leader dei rancori: Renzi si vendica col libro
“Avanti” guarda al passato: l’ex premier cerca i responsabili del suo fallimento
È il leader dei rancori: Renzi si vendica col libro
di Tommaso Rodano

Enrico Letta è citato (poco bonariamente) 12 volte, Ferruccio de Bortoli 10, Pier Luigi Bersani 7. Massimo D’Alema – una vera ossessione – addirittura 16. Il nuovo libro di Matteo Renzi si chiama Avanti ma guarda al passato: poche idee per il rilancio e un lungo elenco di nemici (talk show, stampa, minoranza). L’ex premier non fa autocritica, ma mette in fila i colpevoli del suo fallimento: è il racconto di una sconfitta. Ecco alcuni brani.
Complotto/1. “Ancora oggi mi domando come faccia la gente a volermi ancora bene nonostante i vergognosi talk show che da tre anni dipingono di me un’immagine che alla fine non sopporto nemmeno io”
Complotto/2. “Il 5 dicembre, giorno successivo alla sconfitta referendaria, Guido Crosetto, già sottosegretario alla Difesa e parlamentare del centrodestra, pubblica un tweet molto polemico: ‘Se conosco bene questo paese, nel giro di qualche settimana partirà l’attacco delle procure ai renziani doc’. Dopo tre mesi e dopo l’avviso di garanzia al ministro Lotti per presunta rivelazione di segreto d’ufficio e l’avviso di garanzia a mio padre per ‘concorso esterno in traffico di influenze’, mi chiama Crosetto e mi fa notare la sua singolare profezia. Io però non credo ai complotti”
Accerchiato “Intendiamoci: non posso certo dire di essermi risparmiato. Ho investito tutta la mia energia, ho tirato come un matto per l’intera campagna elettorale, con piazze e teatri pieni, con un risultato di oltre tredici milioni di voti a favore, che è una cifra di consenso impressionante. Soprattutto perché eravamo soli contro tutti. Tutti contro. Da Berlusconi a D’Alema, dalla Lega ai 5 Stelle, tutti insieme appassionatamente, non per difendere il bicameralismo e i poteri delle Regioni, ma contro il tentativo di cambiare. (…) La personalizzazione incentrata su di me non nasce dal sottoscritto, ma dagli avversari. I quali, semplicemente, non sopportavano che finalmente qualcuno facesse qualcosa”
Le toghe. “La grande maggioranza dei magistrati italiani è composta da professionisti impeccabili (…). Poi ci sono le eccezioni, è ovvio: poche persone obnubilate dal rancore personale che collezionano indagini flop e che provano a salvare la propria immagine attraverso un uso spasmodico della comunicazione e del rapporto privilegiato con alcuni giornalisti”
Pensaci tu. “E il giorno dopo il netto successo ai gazebo, sarà la minoranza interna – primo tra tutti l’allora capogruppo Roberto Speranza – a propormi di prendere in mano il timone. ‘Matteo, così non andiamo da nessuna parte. Hai vinto le primarie, rilancia tu il paese, andando a governare’”
Enrico, stai allegro. “L’idea che si sia trattato di una coltellata alle spalle è una fake news alimentata da un nutrito club di editorialisti monotoni (…) come se Letta fosse stato usurpato di chissà quale investitura democratica o popolare: (…) l’unica volta in cui Enrico si era candidato alle primarie, nel 2007, aveva raccolto la miseria dell’11% di voti. Più o meno la stessa percentuale di Civati qualche anno più tardi (…). Letta però entra in modalità broncio”
Baffino. “I fuoriusciti annunciano di andarsene l’ultima settimana di gennaio 2017, con una dichiarazione affidata al reale leader di quell’area: Massimo D’Alema. (…) Se fossero rimasti nel Pd, in parlamento non ci sarebbero più rientrati. A quel punto, frustrati nella prospettiva di tornare a occupare gli scranni da cui continuare a fare la politica di cui sono maestri – quella del logoramento, chiaramente –, decidono di andarsene”
Massone chi? “Prima di conoscerlo personalmente, consideravo De Bortoli uno straordinario giornalista british style (…). Sentirmi accusato di questo da uno che ha fatto per quasi vent’anni il direttore del Sole e del Corriere mi lascia senza parole. Mi sembra difficile negare che storicamente la massoneria abbia avuto maggiore influenza nelle sedi di quei giornali che nelle parrocchie valdarnesi (…) Nessun giornalista osa entrare in contraddittorio con il proprio collega, ‘megadirettore galattico’. A meno che questo giornalista non si chiami Giuliano Ferrara”
I provinciali. “Non sopporto nemmeno il provincialismo italiano, per cui una cosa diviene importante solo se rilanciata da un oscuro terzo portavoce del vicecommissario a Bruxelles. Su questo la nostra stampa si muove in modo provinciale. In Francia nessuno dedica così tanto spazio agli euroburocrati. Un po’ è colpa anche del centrosinistra – diciamo la verità –, che per cacciare Berlusconi ha fatto leva anche sull’Europa, permettendole di entrare in casa nostra”
Compagni. “Quando la sinistra italiana vede che qualcosa inizia a funzionare subito scatta il meccanismo dell’autodistruzione”
Caccia all’uomo. “Dopo il referendum e la decisione di dimettermi dalla guida del governo e del partito, però, ho passato mesi che non auguro nemmeno agli avversari più accaniti. Uno straordinario stress test per il carattere. Una caccia all’uomo senza esclusione di colpi sul fronte politico, giudiziario, mediatico e personale si abbatte su di me, e ancor prima di riuscire a domandarmi se davvero merito tutto quest’odio devo reagire, riprendermi, ripartire”.

Repubblica 13.7.17
Dem e scissionisti si contendono date e militanti, ma sono lontani i numeri di un tempo
Feste dell’Unità, allarme volontari Mdp organizza i contro-meeting
di Giovanna Casadio

ROMA. Il compagno Pierangelo ricorda i giorni di ferie dedicati a cucinare pesce per la Festa dell’Unità di Ravenna: «Centinaia di giorni… dal 1974 all’estate scorsa». Ha funzionato così la “fede rossa” dei volontari delle Feste dell’Unità, che ne hanno viste tante, dal Pci con le bandiere falce e martello al Pds e ai Ds fino al nuovo mondo del Pd. Ma Pierangelo e i volontari dello stand del pesce – una settantina per pulire, cucinare, servire ai tavoli - ora sono andati via loro. Migrati nella neo ditta di Pierluigi Bersani, Mdp. E quindi alla Festa di Ravenna lo stand del pesce, che ne era il fiore all’occhiello, dopo 42 anni non ci sarà. «C’era stato un abboccamento per dare la nostra disponibilità a collaborare lo stesso – racconta Pierangelo Orselli – ma non se n’è fatto nulla ».
Forse bisognerà rassegnarsi: non ci saranno più le Feste dell’Unità di una volta con tutto quello che sta succedendo a sinistra, scissioni e disamore. Dal Nazareno, la sede nazionale del Pd, minimizzano. Rimandano all’app Bob, dove sono stati già caricati i programmi delle Feste in preparazione: centinaia. Un po’ di meno rispetto al passato, è vero. Ma invitano a fare il bilancio a consuntivo e chiamano tutti a raccolta a Imola dove dal 9 al 24 settembre si tiene la Festa nazionale. Ammettono che un problema di volontari c’è. «Per via dell’invecchiamento », osserva la segretaria dem modenese, Lucia Bursi. Le fa eco Andrea Costa, il segretario di Reggio Emilia: «Festa Reggio è una cosa particolare e questo la mette al riparo dalla dinamiche politiche, raccoglie molti volontari non tesserati». E tuttavia anche nella roccaforte rossa, a Bologna, in attesa della Festa cittadina, sono le tradizionali Feste nelle case del popolo e nei quartieri ad essere in sofferenza. Tra giugno e luglio sono saltate. O ridotte a week end di dibattito più cena di autofinanziamento. Accade a Borgo Panigale e nella zona Reno-porto-Saragozza. É proprio l’unica costante, quella che non cambiava mai, i compagni volontari che montano e smontano, servono e cucinano a vacillare adesso, conseguenza degli smottamenti a sinistra.
Un caso a sé è Fiano Romano. Nel paese della famiglia Ferilli, il sindaco Ottorino, che per la cronaca è cugino dell’attrice Sabrina, ha lasciato il Pd con un centinaio di altri iscritti. Sempre verso Mdp. Morale: organizzeranno la Festa della Buona politica, una tre giorni l’8, il 9 e il 10 settembre. «Da bambino avevamo qui le grandi Feste dell’Unità, nell’ultimo periodo sempre più ridotte ma ora vediamo se possiamo restituire entusiasmo e partecipazione », spera il sindaco Ferilli.
E infatti in quest’estate 2017 c’è anche il derby delle Feste: quelle del Pd e quelle di Mdp. Da un lato le Feste che si chiamano sempre dell’Unità - anche se il giornale è di nuovo chiuso e i giornalisti hanno intimato con un comunicato di cambiare nome -, dall’altro le Feste del Lavoro dei demoprogressisti. Già fissate a Varese, Brescia, Pavia, a Sesto San Giovanni, a Padova, a Lecce, a Napoli centro, a Marina di Massa, a Pisa e pure a Firenze a settembre, incrociandosi con la Festa dell’Unità, stesso mese.
A braccio di ferro del resto si è fatto a Settimo Torinese, dove i dem e i demoprogressisti si sono contesi location e data. Fino a trovare l’intesa: 15 giorni per gli uni e altrettanti per gli altri. Esistono pochi casi di buona parentela, invitando ai dibattiti i fuoriusciti dem. A Civitella Val di Chiana Festa dell’Unità con l’Mdp Francesco Laforgia; a Padova forse Ruzzante e Zanonato. E in Lombardia il segretario Alessandro Alfieri spiega che “ci si ritrova tutti insieme, anche con Possibile di Civati».

Corriere 13.7.17
Renzi accusa Letta di «vittimismo» «Non fu un golpe, lo chiese il Pd»
Il segretario: lo voleva Speranza. Poi attacca Bankitalia e 5 Stelle. «Gli italiani decideranno il mio futuro»
di Maria Teresa Meli

ROMA U n messaggio che riguarda il futuro: «Io non vivo affatto ossessionato dall’idea di tornare a Palazzo Chigi. Torno? Non torno? È l’ultimo dei miei pensieri. Lo decideranno gli elettori, non gli editorialisti. I voti degli italiani, non i veti dei partitini». Matteo Renzi presenta il suo libro, Avanti , al museo Maxxi di Roma, e si impegna per l’intera giornata in una maratona promozionale, tra Bersaglio Mobile di Enrico Mentana su La 7 e Agorà su Rai Tre. I giornali lo dipingono come un uomo roso dalla voglia di tornare alla guida dell’Italia a tutti i costi, anche con Forza Italia, ma lui non ci sta: «Come si può immaginare che noi facciamo un governo con Berlusconi?», dice a Mentana. Offre anche un’anticipazione della campagna elettorale che farà: sarà «no Tar». E annuncia che il 3 agosto il Pd riunirà «alcuni professori per studiare le questioni relative al Fiscal compact e al deficit italiano», perché il partito vuole preparare una proposta seria e non all’insegna dell’improvvisazione.
Letta e il «golpe»
Ma è del passato — per quanto recente — che in realtà il segretario del Pd ha voglia di parlare. Intende sfatare il mito del complotto contro Enrico Letta. Ne accenna nella conferenza stampa e ne scrive abbondantemente nel libro: «Accade semplicemente che il Pd decide di cambiare cavallo, lo fa dopo il voto alle primarie di due milioni di persone alla luce del sole. Nessuno di noi ha ordito complotti segreti, ma si è presa una decisione perché quel governo non si muoveva». Dunque, racconta il segretario, «il giorno dopo il netto successo ai gazebo sarà la minoranza interna — primo fra tutti l’allora capogruppo Roberto Speranza — a propormi di prendere in mano il timone. “Matteo così non andiamo da nessuna parte. Hai vinto le primarie, rilancia tu il Paese, andando a governare”». E quel «cambio di cavallo» fu deciso anche dall’allora presidente della Repubblica: «Quando Napolitano mi invita a cena — scrive — capisco che ha deciso di rispondere alle sollecitazioni non solo del Pd ma di tutti quelli che gli chiedono un cambio in corsa». Perciò, spiega Renzi, Letta non è stato «usurpato di chissà quale investitura democratica», visto che «la sua designazione nel 2013 non era stata decisa da alcun organismo di partito o voto popolare: l’unica volta in cui Enrico si era candidato alle primarie nel 2007 aveva raccolto la miseria dell’11% di voti. Più o meno la stessa percentuale di Civati qualche anno più tardi».
Il segretario ricorda anche il passaggio della campanella a Palazzo Chigi: «Letta entra in modalità broncio», già perché, scrive il leader del Pd, «ci sono intere carriere costruite sul vittimismo anziché sul risultato». E a proposito di risultato Renzi ne concede solo uno (negativo) al suo predecessore: «Nessuno ricorda un solo provvedimento degno di questo nome in un anno di vita di quell’esecutivo, se escludiamo l’aumento dell’Iva il 1° ottobre del 2013».
Il caso banche
Ma di sassolini il segretario d el Pd ne ha molti altri. Una fake news per lui è anche quella che lo dipinge come «l’amico delle banche». Che a lui, confessa, stanno pure «antipatiche». Quindi racconta che quando lui e i suoi andarono al governo, rispetto alla situazione del sistema bancario, si affidarono «quasi totalmente alle valutazioni di Bankitalia, rispettosi della solida tradizione di questa prestigiosa istituzione». «E questo — confessa — è il nostro errore, che pagheremo assai caro dal punto di vista della reputazione, più che della sostanza». Quindi, in conferenza stampa, Renzi ammette: «Forse con il senno di poi sarebbe andata in modo diverso se avessimo creato un team ad hoc nostro».
Politica e famiglia
Di frecciate ce ne sono anche per Pisapia, che «fu uno di quelli che remarono contro l’Ulivo». O per il ministro della Giustizia Orlando («Quando persone che hanno fatto parte della meravigliosa esperienza dei mille giorni prendono le distanze da ciò che abbiamo fatto insieme, non stanno facendo del male a me, ma alla loro credibilità») e per il «pregiudicato» Grillo e i Cinque Stelle: «Da padre sono preoccupato che vada a gestire la politica estera chi ha dubbi sull’allunaggio e dice che il Venezuela deve fare la mediazione in Libia».
Non c’è solo la politica, però, nel libro del segretario del Pd. C’è anche la famiglia. I figli. E Agnese, che «c’è sempre stata». Che si è adattata a vestire i panni della first lady e a subire critiche e accuse per il solo fatto di essere la moglie di Renzi. Tanto che a un certo punto ha dovuto cancellarsi da Facebook e da Twitter.

Corriere 13.7.17
«Mi disgusta, caso psicanalitico»
di Monica Guerzoni

L’ex premier: è in un totale isolamento
Mi vuole nel fango, ci si rotolerà da solo
ROMA Aveva sperato di non doverle mai leggere, quelle pagine piene di «ricostruzioni false e affermazioni sgradevoli» su di lui. E invece alle 8 di ieri mattina, quando Enrico Letta a Parigi è riemerso da un’intervista a Radio France , ha trovato il cellulare zeppo di messaggi: «Hai letto cosa Renzi scrive di te?». L’ex premier non aveva letto, no. Impegnato a chiudere l’anno accademico e a lanciare con l’Istituto Jacques Delors la nuova Académie , succursale europea della sua Scuola di politiche, il direttore di Sciences Po si era tenuto alla larga dalle «tambureggianti notizie» che arrivavano dall’Italia.
Ma poi, suo malgrado, Letta ci è finito dentro. Gli hanno inviato Avanti via mail, lo ha sfogliato ed è rimasto «senza parole». Incredulo per la scelta «incomprensibile» del suo successore a Palazzo Chigi, scocciato per essere stato «tirato in ballo in modo così sgradevole», eppure indeciso sul da farsi: replicare o tacere? Per otto ore, in contatto continuo con i collaboratori italiani e in imbarazzo con i colleghi francesi, il già vicesegretario del Pd si è andato convincendo che un silenzio gelido e totale fosse l’unica risposta possibile. «A me sembra un caso psicanalitico — ha commentato sottovoce con qualche amico —. Si sta avvitando in una spirale degna di Freud».
Ma intanto gli attacchi di Renzi rimbalzavano da un tg all’altro, da un sito all’altro, e gli amici lo imploravano di andarci giù duro. E Letta, determinato a non cadere in trappola: «È una cosa talmente scomposta che mi sembra quasi un tentativo di buttarmi dentro la rissa, trascinandomi nel fango insieme a lui... Non ci riuscirà, lo lascerò a rotolarsi nel fango da solo».
Non che gli interessi il destino politico di Renzi, ma quello del centrosinistra deve stargli ancora a cuore se Letta ha passato la giornata, tra un impegno e l’altro, a cercare un «senso politico» al libro del segretario del Pd: «È finito in un totale isolamento, tanto che quelli più dotati di raziocinio, come Franceschini, hanno fatto un passo di lato. Il giochetto “io contro il resto del mondo” già il 4 dicembre non gli ha portato bene. Salvini, Grillo e Berlusconi staranno festeggiando». A metà pomeriggio Letta ha deciso, ha limato le parole più efficaci per segnare la «distanza incolmabile» tra lui e Renzi e ha dettato una nota alle agenzie: «Sono convinto che il silenzio esprima meglio il disgusto e mantenga meglio le distanze». Per uno che si è dimesso da parlamentare e si è tirato fuori da ogni polemica politica, il caso finisce qui: «Ho deciso di guardare avanti e non saranno queste scomposte provocazioni a farmi cambiare idea. Gli italiani sono saggi e sanno giudicare».
Resta lo stato d’animo dell’ex premier, un mix di sconcerto, fastidio, incredulità: «A parte le falsità, c’è tanta incoerenza. Come si fa a dire che è stato tirato per la giacca perché prendesse il mio posto e poi affermare, davanti ai giornalisti, “lo rifarei domani”?». Letta da tempo si tiene alla larga dalle conferenze stampa e, tra l’altro, pensa a formare i giornalisti del futuro, con un corso incentrato sulla conoscenza dell’Europa. «Faccio altro, guardo avanti... Questa rissa è il passato e a me non interessa».

La Stampa 13.7.17
Renzi nega il golpe, lite con Letta
Il segretario: “Il Pd decise di cambiare cavallo. Nessun complotto, ma lui mise il broncio”
La replica: “Disgustoso, mantengo le distanze. Gli italiani sono saggi e sanno giudicare”
di Fabio Martini

La “presa” di palazzo Chigi in quel convulso febbraio del 2014 era diventata la leggenda nera più infamante per Matteo Renzi, la prova provata della sua inaffidabilità: passata, presente e futura. Per questo l’ex segretario del Pd, da mesi, aveva annunciato che avrebbe reso nota la sua versione dei fatti nel libro “Avanti”, finalmente uscito ieri. E il racconto di quei giorni, fatto dal principale protagonista, restituisce una sequenza diversa dalle ricostruzioni di tanti osservatori che, come scrive Renzi, avevano descritto l’uscita di scena di Enrico Letta «come un golpe». L’attuale leader del Pd racconta che sin dal dicembre 2013, il capofila della minoranza bersaniana Roberto Speranza gli aveva confidato: «Matteo, così non andiamo da nessuna parte. Hai vinto le primarie, rilancia tu il paese, andando a governare».
Poi si arriva al febbraio 2014: «Accade semplicemente che il Pd decide di cambiare cavallo. Nessuno di noi ha ordito complotti segreti, ma si è presa una decisione perché il governo Letta non si muoveva». E presentando il suo libro, Renzi ha rincarato: «È stata un’operazione voluta in primis dall’allora minoranza del Pd. Dalla Direzione del partito, in streaming, si capisce che la mia non è una ricostruzione ex post». E a quel punto - racconta Renzi - il presidente della Repubblica Napolitano «mi convoca informalmente al Quirinale, mi invita a cena nel suo appartamento, capisco che ha deciso di rispondere alle sollecitazioni non solo del Pd». Conclusione: «Quello che è stato definito “complotto” ha un nome più semplice: si chiama democrazia».
Come in tutte le ricostruzioni fatte da una delle parti in gioco, anche quella di Renzi può presentare significativi omissis in tornanti decisivi ma la sostanza corrisponde a quel che accadde in quei giorni: tutto il Pd, compresa la minoranza, “licenziò” in tronco Enrico Letta, “chiamò” Matteo Renzi e il capo dello Stato registrò la staffetta. Certo, Pier Luigi Bersani era momentaneamente fuori gioco per motivi di salute, ma tutti gli altri, da D’Alema ad Epifani, da Speranza a Fassina accesero il semaforo verde.
Alla ricostruzione, l’ex premier aggiunge anche alcuni apprezzamenti personali su Letta, ma in questo caso la qualità del racconto cambia. Al suo predecessore, che in questi tre anni gli ha riservato critiche politiche molto taglienti, Renzi indirizza apprezzamenti di questo tipo: «L’unica volta in cui Enrico si era candidato alle primarie, nel 2007, aveva raccolto la miseria dell’11% di voti». E ancora: «Non è un caso se nessuno ricorda un solo provvedimento degno di questo nome di quell’esecutivo, se escludiamo l’aumento dell’Iva». E ancora: una volta uscito di scena, «Letta entra in modalità broncio». E in un momento che «per definizione deve essere giocato all’insegna del fair play», la consegna della campanella «segna un investimento del premier uscente» che assumendo un atteggiamento brusco, fa la parte della vittima, che funziona sempre». Meno argomentata la spiegazione del celeberrimo «Enrico stai sereno», per tanti prova provata dell’inaffidabilità di Renzi, che scrive: «L’idea che “Stai sereno” sia una fregatura mi ferisce. La cosa che più mi fa male è l’accusa di non aver mantenuto la parola data».
A Renzi che, per una volta dà lezioni di stile, Enrico Letta risponde con una nota durissima: «Sono convinto che il silenzio esprima meglio il disgusto e mantenga meglio le distanze. Da tempo ho deciso di guardare avanti e non saranno queste ennesime scomposte provocazioni a farmi cambiare idea. Gli italiani sono saggi e sanno giudicare». Un duello con lo sguardo rivolto al passato. Ma nel tentativo di rimpicciolire la figura di Letta, in Renzi ci può essere anche il tentativo di dare un colpo ad un personaggio come Letta, che prima delle elezioni potrebbe diventare un testimonial del disagio di una parte dell’elettorato del Pd verso la leadership renziana.

Corriere 13.7.17
il Pd esca dall’isolamento per allearsi a sinistra
di Virginio Rognoni

Caro direttore, non da oggi è giudizio comune che nessun partito, da solo, possa raggiungere la maggioranza parlamentare. Su questo scenario è piombato, pochi mesi fa, il voto dirompente del referendum costituzionale e, in questi giorni, quello in alcune importanti Amministrazioni locali. Eventi che hanno registrato, il primo, una clamorosa sconfitta di Matteo Renzi, il secondo, una pesante sconfitta del suo partito. Sul primo mi soffermo solo per rimarcare come l’improvvida personalizzazione che l’ex premier ha voluto dare alla vicenda referendaria abbia manifestato oltre ogni limite la sua sicurezza di battersi e vincere da solo. Questa sicurezza Renzi l’ha indosso; forse non ha neppure bisogno di richiamare la vittoria nelle elezioni europee del 2014, quel mitico e meritato 40%. L’ha indosso e non l’ha abbandonata neppure in vista delle elezioni generali della prossima primavera, malgrado la sconfitta recente nella consultazione Amministrativa. Renzi, infatti, trascura questa sconfitta, semplicemente va oltre, non ne ha cura, in coerenza del resto con la sua scarsa presenza in campagna elettorale. Egli sembra voler solo la rivincita e la cerca sul piano nazionale dove intende giocare la decisiva partita.
Ma questa, più che una scelta, è un azzardo; tutto dice, oggi, che il Pd, come qualsiasi forza politica, da solo, perde. Ecco perché si è aperta la fase della ricerca di «alleanze» o «coalizioni» capaci di raggiungere la maggioranza parlamentare, altrimenti impossibile. Ma Renzi va avanti da solo e spinge il suo partito a seguirlo. Certo il segretario del Pd ha un alibi nella prospettiva purtroppo di andare al voto ormai con il sistema proporzionale dove ogni partito si presenta da solo. Ma il problema delle alleanze, prima (come sarebbe auspicabile e con una legge appropriata) o dopo il voto, è ineludibile. Il Pd non nasce dal nulla; nasce come forma partitica di un centrosinistra inclusivo e plurale. È dunque lì che deve ritrovarsi; è lì che deve recuperare i voti perduti e andati verosimilmente nell’area dell’astensione; è lì, dove sono buona parte delle sue radici, che deve guardare. Ma poi c’è un’altra ragione decisiva che spinge in questa direzione: è in corso, infatti, il tentativo di rilanciare il centrodestra come coalizione di governo; un tentativo difficile ma che c’è ed è agguerrito. Di riflesso il Pd, per la sua storia, è obbligato a prepararsi e a ritrovarsi in una alleanza di centrosinistra allargata, plurale, capace di confrontarsi con l’avversario di sempre. È questo lo scenario tutt’altro che impossibile dove sull’uno e sull’altro versante ci possono essere simmetricamente gruppi che si sentono esclusi o si autoescludono per via della specificazione «di governo» che si attribuiscono entrambe le coalizioni contrapposte. Il problema delle alleanze se affrontato seriamente può, addirittura, portare a esiti costruttivi per l’intero sistema politico del Paese. Ecco perché è negativa l’indifferenza, quasi il fastidio, di Renzi per l’iniziativa di Pisapia a favore di un robusto rammendo del tessuto connettivo del centrosinistra, slabbrato dopo la scissione e uscito perdente nel recente voto amministrativo. Per ora il risultato è deludente; alla iniziativa dell’ex Sindaco di Milano si risponde che c’è stato un congresso e che la rigidità del suo risultato è incompatibile con scenari diversi dove in gioco si può rimettere tutto. Ma è facile osservare che il «voto» e il «non voto» in molte importanti amministrazioni locali, ultimo atto di una sequela di fatti non positivi, ha innescato processi civili e sociali che sono più forti di qualsiasi conclusione di congresso celebrato in precedenza. Comunque, per ora, il risultato è deludente; ma mancano ancora mesi alle elezioni per il rinnovo del parlamento. C’è dunque tempo per discutere e avvicinare posizioni divergenti; c’è tempo per evitare di trovare il Pd sempre appeso all’esito di un congresso, tra l’altro convocato con la frenesia per elezioni che si volevano subito. Dal canto suo il Governo Gentiloni, che è pur sempre un Governo sostenuto in primo luogo dal Pd, può aiutare la definizione di una linea programmatica sui vari e difficili problemi del Paese, senza la quale ogni strategia cadrebbe nel vuoto.
So bene di non avere fatto alcun accenno in queste mie riflessioni al M5S; ma ciò dipende dal fatto che i pentastellati sono un movimento che si nega ad ogni alleanza. Quando questo principio dovesse cadere tutto cambierebbe e il discorso sarebbe diverso.

Il Fatto 13.7.1
“L’antifascismo non c’entra: la cultura artistica si tutela”
Boldrini e il “disagio” per i monumenti del Duce: “Buttiamo la statua del sanguinario dittatore Nerone?”
di Ferruccio Sansa


No. Non bisogna distruggere. I monumenti e le costruzioni simbolo del fascismo non devono essere cancellati. Sarebbe come se adesso ci mettessimo a tirar giù la statua di Nerone perché è stato un dittatore sanguinario.
Tomaso Montanari, lei è storico dell’arte. E presidente di Libertà e Giustizia, che già nel nome porta la sua eredità antifascista. È contrario all’idea di chi vuole eliminare i monumenti del Ventennio? (La presidente della Camera, Laura Boldrini, ieri ha corretto il tiro, ma il dibattito intanto infuria).
L’unico vero antifascismo si nutre di conoscenza della storia, non della sua cancellazione. Così non si comprende il fascismo, lo si rimuove.
C’è chi dice che quei monumenti possono essere causa di disagio per le vittime. E forse anche testimonianza di una potenza…
Le opere d’arte fanno parte della storia. E la storia non si cancella. Non a freddo almeno: altra cosa sono le comprensibili distruzioni sull’impeto della lotta come avvenne anche da noi nel 1945.
I monumenti rimasti vanno conservati?
Vedere opere e realizzazioni positive del fascismo è utile. Insegna che ci illudiamo se pensiamo di riconoscere una dittatura dalla bruttezza delle sue realizzazioni artistiche. Le cose sono molto più complesse, e contraddittorie. Riconoscere questa complessità, ci aiuta a riconoscere le svolte autoritarie anche se si presentano circondate da mille realizzazioni positive.
Vale anche per il nostro fascismo?
Sì. L’antifascista non nega che i treni con il Duce arrivavano in orario. Non nasconde la bellezza degli edifici di Terragni, Pagano o Piacentini che troviamo nelle città italiane. Oppure dei quadri di Mario Sironi. La bellezza non è sempre legata alla libertà e alla giustizia: sarebbe troppo facile. Se vogliamo capire quando arriva una dittatura bisogna saperla individuare dietro il bello che a volte porta con sé. La storia è complessa.
Quali sono le opere d’arte migliori che ci ha lasciato il fascismo?
Il Ventennio ha dotato le città italiane di spazi pubblici, luoghi dello Stato. L’Italia ne era priva. Penso al bellissimo Palazzo delle Poste di Napoli. Ma anche alla stazione di Firenze, un assoluto capolavoro… e qui andrebbe fatta una distinzione: non tutti i monumenti realizzati in quegli anni sono per forza fascisti. E furono costruite intere città come Latina: ecco, è stato giusto cancellare il nome Littoria, ma gli edifici non vanno rasi al suolo. Prendete anche l’Eur di Roma. Il nostro compito è riempire di nuova vita quei luoghi, portarci una società con valori diversi.
I monumenti fascisti non sono per forza testimonianza della grandezza del Duce?
Anzi, sono trofei della Repubblica. Che li ha conquistati e fatti propri. Penso al Palazzo di Giustizia di Milano che è vincolato, ma non tanto per le sue origini fasciste. Piuttosto per quello che ha rappresentato per l’Italia. Cioè la stagione di Mani Pulite. Quell’edificio squadrato non è solo del Duce, ma anche di magistrati come Piercamillo Davigo e tanti altri. La storia è stratificazione della vita nei luoghi.
Come si combatte il fascismo?
Conoscendo il nostro passato. Penso alla scuola che spesso non studia in modo adeguato il fascismo. Penso all’incapacità di costruire a Milano un vero Museo della Resistenza. Penso alla tv che punta sull’intrattenimento invece di realizzare programmi di storia accessibili e interessanti per tutti.
Cosa pensa della proposta Fiano (Pd) che chiede di punire severamente le manifestazioni del fascismo?
Ho avuto polemiche dure con Fiano, ma stavolta sono d’accordo. È una legge giusta, non liberticida. L’attacco squadrista, fascista e antisemita contro l’ebreo Fiano del deputato Corsaro lo dimostra.

Corriere 13.7.17
Le divisioni nel Pd sullo ius soli I sindaci: «Un errore approvarlo adesso»
di Maria Teresa Meli

ROMA Il leader del Pd Matteo Renzi vorrebbe che il Parlamento approvasse lo ius soli prima dell’estate. Ancora ieri Matteo Orfini, che con il segretario è in grande sintonia, osservava: «Ci hanno spiegato che la legislatura doveva andare avanti perché c’erano leggi fondamentali da approvare e lo ius soli è tra queste. Perciò ricorriamo anche alla fiducia».
Orfini pronunciava queste parole nonostante la situazione che si è venuta a creare al Senato, dove il decreto sui vaccini rischia di prendere la maggior parte del tempo disponibile di qui alla pausa estiva. Il governo infatti ha deciso di non porre la questione di fiducia sul provvedimento della ministra della Salute Beatrice Lorenzin e per questa ragione a Palazzo Madama Gentiloni è stato accusato di aver scelto un metodo democristiano — e soft — per procrastinare all’infinito la legge che sta a cuore al segretario del suo partito.
Ma le cose non stanno così. Il vero braccio di ferro non è tra il governo e Renzi, ma tra Renzi e lo stesso Pd. Due terzi dei gruppi parlamentari del Partito democratico — a iniziare dal presidente dei deputati Ettore Rosato, per fare un nome — non vorrebbe che lo ius soli venisse approvato prima dell’estate. Sono dello stesso avviso i sindaci del Pd, i quali hanno chiesto a Renzi di «aspettare che finisca l’emergenza estiva dei migranti prima di andare avanti con quel provvedimento». Anche Dario Nardella, primo cittadino di Firenze, è di questo avviso: «Approvare lo ius soli adesso sarebbe una pazzia», confida ai suoi collaboratori il sindaco del capoluogo toscano.
Nessuno nel Pd intende non far passare una legge che era nel programma del partito, ma c’è il timore che farlo adesso, mentre riprendono, massicci, gli sbarchi, sia un pessimo segnale. Renzi sa del travaglio del suo partito ma comunque vuole mandare in porto il provvedimento prima della pausa estiva. Lo ha spiegato a Paolo Gentiloni, con il quale, ha precisato ai suoi, «non ho intenzione alcuna di litigare». E il presidente del consiglio, in realtà, non ha delle preclusioni rispetto all’idea di mettere la fiducia sullo ius soli. «Possiamo anche tirare la corda, basta che non si spezzi... Proviamo con la fiducia la settimana prossima», ha annunciato ai collaboratori.
Il premier non teme che il suo governo possa cadere su questo provvedimento. Anche i centristi infatti non sono contrari, come ha spiegato Maurizio Lupi a Renzi (il segretario del Pd non parla più direttamente con Alfano da tempo, ed è il capogruppo alla Camera a fare da ambasciatore). «Facciamolo pure, ma facciamolo dopo», ha detto Lupi a Renzi. E comunque gli ha lasciato intendere che se, come pare, i tempi saranno più ravvicinati, i centristi voteranno la fiducia.
Dunque Gentiloni non crede che il segretario voglia utilizzare lo ius soli per far saltare il governo. E in realtà, al di là delle dichiarazioni ufficiali, non ci credono nemmeno quelli delle opposizioni.
Semplicemente, Gentiloni era più prudente perché mosso dalle stesse preoccupazioni che agitano i sindaci del Partito democratico: meglio evitare di approvare lo ius soli in piena estate, quando i migranti arrivano in massa sulle coste italiane. Perciò, benché sia disposto a mettere la fiducia, e sia orientato a chiederla la settimana prossima, avrebbe preferito che fosse stato Renzi, a nome del Pd, a chiederla.
Ma il segretario, che pure vuole centrare l’obiettivo prima dell’estate, non intende fare una richiesta esplicita sulla fiducia. Perché? Perché Renzi — che è sempre attento ai sondaggi — sa che alla maggior parte degli italiani lo ius soli non piace.

Repubblica 13.7.17
Il paradosso di Alfano
di Stefano Folli

DOMANI, venerdì, il Consiglio dei ministri dovrebbe autorizzare il premier Gentiloni a mettere la questione di fiducia sul testo dello “ius soli” al Senato, dove i numeri sono esigui. Poi si vedrà circa i tempi e le modalità. L’autorizzazione è in sé un passaggio politico rilevante perché testimonia che non esistono, almeno in apparenza, esplicite divergenze di vedute fra il presidente del Consiglio e il segretario del Pd. Quest’ultimo scalpita e si attira i soliti sospetti: voler trascinare l’esecutivo in una trappola al fine di provocarne la caduta per interposta persona. Vale a dire per mano di Alfano, il cui piccolo partito, squassato dagli eventi, vorrebbe tenersi i suoi elettori. I quali tuttavia stanno già scivolando, almeno in parte, verso il centrodestra berlusconiano, ed è assai difficile che possano digerire l’estensione della cittadinanza italiana agli immigrati (sia pure concessa a certe condizioni).
Il paradosso è che l’attuale ministro degli Esteri era stato individuato da Renzi, all’inizio dell’anno, come l’uomo giusto per far cadere Gentiloni e spingere il paese alle elezioni anticipate in primavera forzando la mano a Mattarella. Allora l’operazione doveva svolgersi nella cornice di un patto di ferro con il leader del Pd e, come è noto, fu rifiutata dall’esponente centrista. Adesso che ha rotto i ponti con Renzi, da cui è stato pubblicamente maltrattato, Alfano si ritrova nella stessa scomoda situazione: se sbaglia una mossa sullo “ius soli”, il governo Gentiloni inciampa a Palazzo Madama. E la crisi dell’esecutivo, con tutte le sue conseguenze, sarebbe imputata a lui, mentre i vantaggi andrebbero a Renzi. Non è molto verosimile che il capo della piccola Ap reciti la parte che altri hanno scritto per lui. D’altra parte, se la legge non viene rinviata a settembre e se davvero viene posta nei prossimi giorni la questione di fiducia, Alfano rischia di trovarsi di fronte a un bivio fatale: o difende il governo scontentando i suoi elettori; ovvero accontenta questi ultimi, ma a prezzo di far cadere Gentiloni. Messo in questi termini il problema non sembra offrire vie d’uscita, visto che il Pd renziano considera lo “ius soli” un’opzione strategica. E si capisce: c’è da recuperare un’immagine di sinistra riducendo i margini di manovra di Pisapia, da un lato, e degli scissionisti, dall’altro. Al tempo stesso, con il tema del «numero chiuso» per gli immigrati e con le suggestioni stile «aiutiamoli a casa loro», Renzi ritiene di conquistare un segmento di opinione di centrodestra.
La strategia si mescola alla tattica nel momento in cui il governo finisce nella tenaglia. Deve accettare la spinta del suo socio di riferimento, ossia il segretario del Pd, e allo stesso tempo deve evitare di frantumarsi. È facile intuire che in queste ore l’attenzione del Quirinale sia massima. Mattarella è quasi riuscito a completare la legislatura, tanto è vero che nei giorni scorsi si era lasciato andare a una previsione: elezioni «verso la primavera del 2018». La legge sullo “ius soli” è forse l’ultimo scalino insidioso. In seguito, in autunno, si tratterà di approvare la legge di stabilità con tutte le tensioni che ne deriveranno. Ma sarà un’altra storia. Qui e ora, la lacerazione riguarda l’immigrazione. Sembra difficile credere che Alfano voglia assecondare il malessere del suo gruppo parlamentare fino al punto di mettere in crisi Gentiloni, ben sapendo quanto sia fragile l’equilibrio di questo governo di cui Mattarella è una sorta di “lord protettore”. In un certo senso stiamo assistendo a una partita a scacchi in cui nessuno vuole commettere errori. Del resto, Alfano avrebbe ben poco da guadagnare da una crisi che potrebbe riaprire le porte “in extremis” al voto anticipato in settembre-ottobre. Ciò significa che non dovrebbero essere i centristi a esprimersi contro la fiducia. I rischi non mancano, beninteso. Ma Gentiloni — e dietro di lui il presidente della Repubblica — hanno buoni argomenti per convincere il ministro degli Esteri, uomo peraltro alieno dai colpi di testa. Un conto è il voto di fiducia, un altro è il merito del provvedimento su cui Alfano certo non rinuncerà alle sue riserve.

La Stampa 13.7.17
La rivolta dei professori
“Stipendi fermi da 6 anni Blocchiamo l’Università”
Investimenti limitati, siamo al 18° posto nell’Ocse Il contesto non è favorevole, crolla il numero dei docenti
Oltre cinquemila professori universitari cancellano i loro esami dal 28 agosto al 31 ottobre. L’obiettivo della protesta è ripristinare le progressioni di carriera e gli scatti di anzianità bloccati dal 2011. Il livello dei nostri atenei resta alto, ma non c’è ricambio e i soldi sono pochi. Per ogni euro pubblico speso per la ricerca, agli studiosi arrivano soltanto 70 centesimi. L’Italia rimane inoltre tra gli ultimi Paesi in Europa per il numero di persone in possesso di un titolo di istruzione terziaria.

La Stampa 13.7.17
L’urgenza di un’agenzia della ricerca
di Elena Cattaneo
docente alla Statale di Milano
Senatrice a vita

Caro direttore,
nel nostro Paese la ricerca non è mai stata una priorità e ciò ha causato gravissime disfunzioni al sistema.
Gli impegni di premier e ministri non si sono mai concretizzati in un riordino del sistema della ricerca pubblica, né in un ripensamento del modello di erogazione dei fondi a essa destinati. Nell’ottobre 2014 la Commissione ricerca del Senato individuava nella riduzione delle risorse e nella mancanza di una strategia coordinata le principali criticità del sistema pubblico della ricerca. Sul fronte risorse si chiedeva al governo l’impegno a varare un piano pluriennale di rifinanziamento per centrare gli obiettivi europei per il 2020. Sul piano dell’efficienza si suggeriva di creare un’Agenzia della ricerca, per evitare la frammentazione, coordinare le scelte e garantire l’indipendenza della ricerca e dei suoi apparati dalla pubblica amministrazione e dal decisore politico.
La richiesta di un’Agenzia non è una novità. Il motivo è semplice: le risorse pubbliche che l’Italia stanzia per la ricerca scientifica, oltre ad essere «briciole», sono parcellizzate e spalmate su diversi ministeri. Inoltre – con rare eccezioni - non perseguono obiettivi strategici comuni, né adottano gli stessi criteri di merito o di valutazione.
Non si può più andare avanti così. Non è previsto dall’etica pubblica liberale che un ministero (legittimamente) decida di assegnare i soldi della ricerca a un proprio ente il quale poi, senza alcun bando, negozia arbitrariamente le erogazioni con i beneficiari. Né si possono tollerare i meccanismi «a sportello», dove lo studioso si reca presso il ministero in qualsiasi momento dell’anno per farsi finanziare. In alcuni casi i bandi ancora esistono ma, dopo anni di carestia, le domande sono in numero tale da rendere la valutazione una lotteria. La bocciatura raggiunge fino al 90% delle proposte, con giudizi a volte poco pertinenti e il finanziamento, laddove arriva, risibile. Senza dimenticare i casi - di cui sono stata testimone oltre 15 anni fa e che ho denunciato - in cui il bando esiste, ma la Commissione di valutazione decide di finanziare i suoi componenti. Poi ci sono le erogazioni via «phone calls» invece che con «public calls». E pure le norme «ad ricercatore» che assegnano milioni ad una singola sperimentazione clinica, con specifiche cellule, per una specifica malattia. Così come è la regola osservare assegnazioni «ad hoc», nella legge di stabilità, a chi tira di più la giacchetta, fondazione o ospedale che sia. Infine, il caso tragico di Human Technopole, grande infrastruttura di ricerca, per la cui realizzazione il governo aveva previsto (poi rimediando all’errore iniziale) di assegnare progetto e risorse in modo discriminatorio a un Ente arbitrariamente prescelto. Queste modalità sono deleterie per il Paese perché producono spartizione clientelare dei fondi pubblici, nonché file di questuanti che barattano libertà e terzietà del ricercatore. Questa condizione è forse la più profonda causa della fuga dei giovani studiosi, che diffidano di un sistema che non finanzia sulla base di idee e competenze, cui potrebbero competere alla pari, ma sulla prossimità ad uno dei tanti poteri.
Riaffermare oggi l’urgenza di un’Agenzia nel nostro Paese è necessario soprattutto in vista di una nuova e prossima iniezione di liquidità nel sistema, prospettata recentemente dal Miur, attraverso la restituzione, voluta e ottenuta dalla ministra Fedeli, alla ricerca italiana di 250 milioni di euro (parte del tesoretto di risorse pubbliche accantonate dall’Istituto italiano di tecnologia).
L’Agenzia altro non sarebbe che un organismo composto da persone esposte a controlli incrociati, indipendenti dalla politica e dalla comunità degli studiosi, che sviluppino e replichino procedure disegnate sugli obiettivi e svolgano un ruolo terzo, trasparente e competente nel controllo dell’erogazione di fondi, così da rimuovere frammentazione ed eterogeneità di scopi, con garanzia di date certe di avvio e chiusura di bandi pubblici, aperti, competitivi.
Ormai siamo pressoché l’unico Paese in Europa a non averla. Intorno a noi ci sono esperienze di successo in Francia, Germania, Svizzera e Spagna. Nessuno è tornato indietro. Anzi, l’efficienza di un tale modello come volano dello sviluppo economico è testimoniato dall’Agenzia ellenica per la ricerca e l’innovazione varata lo scorso febbraio dal Parlamento greco, per la cui realizzazione la Banca europea degli investimenti ha erogato 180 milioni a cui se ne aggiungono 60 dal governo greco, cifra che coprirà i primi due anni e mezzo di lavoro.
Non so quanta parte della comunità accademica e scientifica desideri spogliare il decisore politico della possibilità di orientare buona parte dei finanziamenti. Né quanto la politica sia pronta a farlo. Quel che è certo è che le generazioni future ringrazieranno chi avrà il coraggio, oggi, di intraprendere scelte lungimiranti e di avviare un processo in controtendenza all’inerzia cui ci hanno condannato molti governi del passato.

Repubblica 13.7.17
Pechino
La svolta militare della Repubblica popolare “Solo compiti di peacekeeping”
Truppe cinesi a Gibuti La prima base all’estero di Xi Jinping “l’africano”
di Angelo Aquaro

PECHINO. Aspetta e spera che la Cina si avvicina. Non siamo a faccetta nera, per carità, ma anche Pechino cerca un posto al sole, e lo sbarco a Gibuti, nella punta del corno d’Africa, è più che una conferma: a meno che non ci si davvero qualche anima pia disposta a credere che i 2500 soldati che il Dragone ha spedito sull’Oceano Indiano siano lì soltanto per fare, come recita la regola d’ingaggio, da
peacekeeping, che letteralmente vuol dire «mantenimento della pace». Non lo dicevano infatti già i latini che il migliore modo di mantenere la pace è preparare la guerra?
Quando ieri, nel porto di Zhanjiang, nel Guandong, il comandante della marina dell’Esercito Popolare di Liberazione, Shen Jinlong, ha ordinato alle navi di salpare, davvero per il Dragone si è aperta una nuova pagina. Occhio ai numeri: 2500 soldati. Un pezzo di Cina che fa armi e bagagli e si trasferisce all’ingresso del Golfo di Aden, alle porte del Canale di Suez. A Pechino dicono si tratti solo di una “base logistica” ma non bisogna studiare il cinese per poter tradurre nella lingua di tutti i giorni: è un base militare, la prima della sua storia all’estero. Operazione per carità concordata, come i cinesi ricordano, con le autorità del posto, che fra l’altro già ospitano una nutritissima legione straniera con i francesi, gli americani e anche i giapponesi a guardarsi reciprocamente le spalle. Ma anche qui – sul fatto che Gibuti abbia detto sì all’invasione non ci piove, cosa che fra l’altro laggiù non fa notizia: perché chi avrebbe mai detto di no a un governo che ti investe 15 miliardi di dollari nell’espansione del porto e altre delizie?
Miracoli della nuova via della seta, il piano di infrastrutture da oltre mille miliardi che Xi Jinping ha disegnato per diffondere nel mondo la globalizzazione alla cinese. E sviluppato parallelamente a ben altri piani: «Da quando è diventato presidente, nel 2012, la Cina si è a poco a poco allontanata da quella politica di non interferenza che aveva formalmente sbandierato per 50 anni», sostiene il Financial Times.
«Sotto il suo governo Pechino ha stabilito una base navale nel corno d’Africa, ha approvato una legge che permette lo stazionamento di soldati all’estero e ha rafforzato la sua influenza nel mar del Giappone e nel Mare della Cina del Sud»: cioè nelle acque delle isole contese.
Anche la scelta di Gibuti come primo avamposto estero la dice lunga. Quella è una zona infestata dai pirati, il grande Elmore Leonard ci scrisse su anche un romanzo, e proprio per questo lì si sono piazzati i giapponesi a proteggere i loro traffici. L’arrivo di Pechino è adesso il segnale che la musica è cambiata: siamo noi, avvertono i cinesi, i guardiani di questa parte del mondo, siamo noi i garanti dei 5mila miliardi di beni che passano in questo spicchio di mare, un terzo del traffico marittimo mondiale. Stazionare nel corno d’Africa, come spiega alla Cnn l’esperto Edward Paice, ha poi più che senso «per un paese che sostiene di volere avere un ruolo sempre maggiore di peacekeeping in Africa e ha già truppe da combattimento in Mali e Sudan del Sud». E ha tantissimo senso anche inquadrare lo sbarco puntando gli occhi più a Est: le scaramucce di questi giorni sul confine sono la prova della tensione sempre più alta tra Pechino e Nuova Delhi, e le migliaia di soldati sbarcati laggiù potrebbero anche funzionare come l’ultimo anello di quella “catena di perle” di alleati che dal Bangladesh allo Sri Lanka passando per il Myanmar circondano l’altra metà di quella che una volta era la Cindia che andava d’amore e d’accordo.
Poi, per carità, avrà ragione Wang Yi, il ministro degli Esteri, quando dice che «come per ogni altra potenza in ascesa, gli interessi della Cina si espandono sempre più all’estero: abbiamo ormai 30mila imprese nel resto del mondo». Un po’ meno convincente è però quando assicura che «la Cina non perseguirà mai nessuna egemonia», mentre è pronta a esplorare «un percorso con caratteristiche cinesi». Ecco, è la stessa espressione usata nella costituzione per definire la particolare forma di socialismo del paese: e non sarà il caso, proprio per questo, di cominciare a preoccuparsi per davvero?

La Stampa 13.7.17
Thomas Sankara
L’africano che volle rifiutare l’aiuto avvelenato dell’Occidente
In scena all’Accademia Filarmonica Romana la vita tragica di Thomas Sankara il presidente golpista che inventò il Burkina Faso, con le musiche di Sebastiani
di Sandro Cappelletto

La tomba è al centro, appena discosta rispetto alle altre dodici che la affiancano a destra e a sinistra, sei e sei. Tredici tombe in orizzontale, un’ultima cena africana.
Lassane Congo - 45 anni, etnia Mossi, come indicano i tre solchi incisi sulla sua guancia - la raggiunge a passi veloci, si sdraia sopra, la schiena contro la lastra di pietra, respira a fondo, allarga le braccia, riapre gli occhi, guarda il cielo. «Come sto bene qui. Ecco mio padre».
C’è un guscio d’uovo rotto accanto alla tomba. Sembra un’immondizia, una profanazione del luogo, un’ingiuria ai morti, mi chino per raccoglierlo e allontanarlo. Congo mi ferma, alzando la voce.
«Lascialo dov’è».
«Ma è pieno di formiche».
«È un uovo d’anatra, il guscio di un uovo racchiude la vita. Nuova vita per chi è morto, nuova vita per chi vive. Le formiche vanno e vengono, da un mondo all’altro.
Rimaniamo qui ancora cinque minuti».
Il cimitero di Ouagadougou sta su una lieve collina che si innalza accanto a uno dei mercati della capitale del Burkina Faso. Arrivano qui montagne di abiti donati dalle organizzazioni umanitarie internazionali. Abiti ben conservati, intercettati e rivenduti, per la metamorfosi di anonimi gesti di carità in un affare.
«L’aiuto serve soltanto se aiuta a uccidere l’aiuto», diceva Thomas Sankara, il militare presidente del Burkina Faso che riuscì a dare un’identità e un nome a questa nazione, fino ad allora chiamata dai francesi Alto Volta. Niente più che un’indicazione geografica. Burkina-Faso: il paese degli uomini integri.
Prima che potesse uccidere gli aiuti, quando aveva soltanto trentotto anni uccisero lui e dodici sue guardie del corpo. Era il 15 ottobre 1987.
Subito dopo l’agguato, i tredici morti sono stati sepolti in questo cimitero, uno accanto all’altro. Uccisi però sepolti, eliminati ma non dispersi. Le tombe sono qui di sicuro, i corpi chissà, perché erano carne spappolata dalle raffiche di mitra sparate a distanza corta e chiunque vedendo quei corpi avrebbe capito che la morte non era stata naturale. Congo viene spesso in questo cimitero, «perché Sankara ci ha insegnato la dimensione morale. Che anche noi, i più poveri del mondo, avevamo una dimensione morale». [...]
«Il giorno in cui sentirete dire che il capitano Blaise Compaoré prepara un colpo di Stato contro di me, non datevi pena di avvisarmi, perché sarà troppo tardi». Sankara forse perfino desiderava questa fine che l’avrebbe trasformato da uomo politico in martire, in un Abele ucciso dal fratello, come era il suo successore, da allora e per 27 ininterrotti anni presidente del Burkina Faso. Blaise e Thomas, Thomas e Blaise che avevano diviso ogni cosa tranne il comando.
«Nella regione dove vivono i Polò - racconta Congo - ci sono due tipi di serpenti, la vipera e il boa. La vipera viene uccisa , il boa no: è troppo forte. Se torni a casa tua e dentro trovi un boa, devi fare due cose: prima andare dallo sciamano e chiedere che compia un sacrificio per capire perché è venuto proprio da te, poi aspettare che il boa esca. Di solito esce, con calma, ma esce».
«Ma perché deve venire proprio da me?».
«Magari per avvisarti di un pericolo, a casa tua, dove pensi che non ci siano pericoli. Invece arriva il boa, il boa che non ti morde, ma ti stringe, ti stritola, ti soffoca, lentamente, certamente. Tu entri, vedi il boa, lo ringrazi di essere venuto ad avvisarti e aspetti. Se Sankara avesse trovato il boa a casa sua avrebbe capito. Lui era nato in una famiglia cattolica, ma avrebbe capito, perché prima di essere cattolici o musulmani noi siamo animisti... Guarda se c’è un boa in casa, prima di sdraiarti» [...]
Addis Abeba, 29 luglio 1987, discorso di Thomas Sankara all’ Assemblea Generale dell’Organizzazione per l’Unità africana: «Quelli che ci hanno prestato denaro, sono gli stessi che ci avevano colonizzato. Sono gli stessi che erano padroni dei nostri Stati e delle nostre economie. Sono i colonizzatori che hanno indebitato l’Africa. Noi non c’entriamo niente con questo debito. Quando diciamo che il debito non sarà pagato non vuol dire che siamo contro la morale, la dignità, il rispetto della parola. Noi pensiamo di non avere la stessa morale degli altri. Tra il ricco e il povero non c’è la stessa morale. La Bibbia e il Corano non possono servire nello stesso modo chi sfrutta e chi è sfruttato. Ci devono essere due edizioni della Bibbia e due del Corano. Non possiamo accettare che ci parlino di dignità. Noi dobbiamo riconoscere che oggi i più grandi ladri sono i più ricchi. La nostra miseria non è la nostra condizione naturale. La nostra rivoluzione abbraccia le sfortune di tutti i popoli. Se mi lascerete solo, questo sarà il mio ultimo discorso. [...]».
Chi ha ucciso il presidente Sankara? Quanti colpi sono stati sparati, da quali armi? Le stesse che aveva in dotazione l’esercito? Qualcuno di quelli che hanno scavato le fosse sarà ancora vivo, bisogna cercarlo, perché ci racconti come veramente sono andate le cose. Abbiamo bisogno di testimoni oculari, dobbiamo finalmente conoscere la verità. [...]
Oggi, Congo ha fretta. È tempo di Ramadan e ha promesso di portare delle zollette di zucchero al suo vecchio padre, per nutrirlo durante il giorno.
Sulla strada per raggiungere il villaggio dove abita il padre, ci fermiamo a mangiare. Ordino due uova e patate fritte. Il cuoco butta i gusci per terra, nell’angolo della spazzatura. Congo non mangia, rispetta il Ramadan. Il sole fra poco inizierà a tramontare e noi siamo in ritardo. Siamo sempre in ritardo.

La Stampa 13.7.17
Addio a Denis Mack Smith, raccontò vizi e virtù italiani
Storico inglese, conobbe un grande successo nel nostro Paese con gli studi sul Risorgimento, per lui stagione di promesse disattese
di Mario Baudino

Al centro del lavoro di Denis Mack Smith, morto martedì a 97 anni, c’era una domanda cui per tutta la sua vita di storico ha cercato di rispondere. La formulò, giovane studioso, nel saggio uscito per Laterza, il suo editore italiano, nel lontano ‘59, Storia d’Italia dal 1861 al 1958, che suscitò aspre polemiche. Riguardava noi, ovvero il fatto che l’Italia «nel 1861 era stata fra tutti il paese più ammirato dagli uomini politici liberali» e tuttavia «fu anche il primo a cedere, dopo il 1919, al nuovo imperialismo totalitario».
Era stato allievo o comunque vicino a Benedetto Croce, che lo aveva aiutato nelle sue prime ricerche, ma la risposta che si diede fu diametralmente opposta a quella del maestro: perché presupponeva un giudizio storico sul fascismo, che se per il filosofo napoletano era fondamentalmente un corpo estraneo alle classi dirigenti liberali, per lui era invece il risultato di una cultura politica, e di una ambiguità se non inadeguatezza delle élites alla sfida della modernità.
Mack Smith ha studiato il Risorgimento con passione «radicale» (da rivoluzionario, attirandosi molte bacchettate) tenendo sempre di vista il fascismo come risultato non auspicabile né auspicato, ma tragicamente ottenuto dal combinarsi di varie forze - o debolezze. Il suo eroe era Garibaldi - un po’ meno Cavour - mentre il giudizio su Vittorio Emanuele II è molto severo. Con grande anticipo sulla storiografia successiva, ne evidenziò gli aspetti francamente reazionari. Non gli piaceva neanche il gallismo del sovrano, ma questa è una valutazione morale, più che un giudizio storico, che risente forse della severa educazione britannica.
I suoi libri hanno avuto sempre un grande successo, anche perché scritti in modo elegante e godibile, al di fuori di ogni gergo accademico, con un piglio narrativo, e molta aneddotica che non interferisce però con una ricerca di alto livello. Le biografie di Garibaldi (1959), Vittorio Emanuele II (1972), Mussolini (1981), Cavour (1984), Mazzini (1994) hanno raggiunto molti più lettori italiani di quanti ne avessero fino ad allora intercettati i nostri storici, ma soprattutto hanno raccontato l’Italia, fra grandezza e vergogna, nei momenti cruciali della sua storia moderna, al mondo intero.
Rosario Romeo, tanto per citare un maestro indiscusso, non lo amava. Disse del suo «Cavour» che «ogni riferimento a fatti realmente accaduti è puramente casuale». Renzo De Felice e la sua scuola ebbero polemiche con lui a proposito della biografia di Mussolini. Paolo Alatri invece gli riconobbe prestissimo la sua vera tradizione: accanto ai radicali britannici, vide quella cultura critica che va da Fortunato a Pareto, Mosca fino a Gobetti e Salvemini.
Va detto che Denis Mack Smith sapeva riconoscere gli errori (in fondo pochi): con Romeo ad esempio ammise di aver forse sbagliato esagerando i difetti di Cavour. Ma sulle cause della fragilità italiana tenne la posizione per tutta la lunga vita di studioso, docente e poi dall’87 professore «emerito» dell’Università di Oxford (dal ‘96 era anche Grande ufficiale dell’Ordine al merito della Repubblica italiana), fino al saggio del ‘98, La storia manipolata, dedicato l’uso politico della storia e alla pratica, molto italiana, di occultare documenti.
Non era tenero neanche col proprio Paese. Nel ’92, quando uscì uno studio di Roger Absalom (A strange alliance) sui prigionieri britannici in Italia e sulla loro «grande fuga» dopo l’8 settembre, pubblicò un vibrante articolo sul Times Literary Supplement e sulla Stampa che terminava con un affondo polemico: «Molti (ex prigionieri) con ogni probabilità la maggior parte, non rividero mai più, per ringraziarli, coloro che li avevano aiutati. E le autorità britanniche si rivelarono davvero ingenerose nel non riconoscere, a guerra finita, l’assistenza che un grandissimo numero di italiani aveva prestato con forte rischio personale».
Ricorda chi scrive che gli fu chiesto come desiderasse essere pagato. Rispose sorridendo che la faccenda rischiava di essere troppo complicata, ma avrebbe accettato volentieri una confezione di sigari toscani. Gliene mandammo una scatola da cinquanta, e lui ne fu felicissimo. Avevano il profumo, disse, della nostalgia.

Corriere 13.7.17
Mack Smith , l’inglese che amava l’Italia
Ricostruì la storia del nostro Paese con uno stile chiaro e vivace, molto apprezzato dal pubblico
di Antonio Carioti

Già la prima opera dello storico inglese Denis Mack Smith, scomparso all’età di 97 anni, rivelava chiaramente il suo modo di guardare alle vicende italiane, tipico di un esponente della cultura democratica radicale britannica. Il libro Cavour e Garibaldi nel 1860 , uscito in versione originale nel 1954 e in Italia presso Einaudi nel 1958 (poi ha avuto altre edizioni, l’ultima da Rizzoli nel 1999 con il titolo Cavour contro Garibaldi ) dimostra una spiccata benevolenza verso il generale nizzardo in camicia rossa, descritto come un po’ rozzo, ma straordinariamente coraggioso e sincero nel suo idealismo, mentre rimprovera al conte piemontese, di cui pure riconosce l’intelligenza e l’abilità straordinarie, uno «scaltro opportunismo» che lo faceva apparire «ingannevole e infido».
La stessa severità dimostrata verso Cavour aveva usato Mack Smith verso la classe dirigente del nostro Paese nella sua opera principale, la Storia d’Italia 1861-1958 , uscita in contemporanea nel 1959 da noi, per Laterza (poi ebbe molte altre edizioni aggiornate), e negli Stati Uniti per il pubblico anglosassone. A suo avviso dovevano esserci stati «certi vizi intrinseci nel patriottismo liberale del secolo decimonono e nelle sue realizzazioni», se poi questa nazione aveva generato il fascismo e aveva seguito Benito Mussolini per un ventennio. Nella sua prosa vivace, ironica e ricchissima di aneddoti, che ne rendevano la lettura quanto mai gradevole, si rifletteva la delusione di un’opinione pubblica britannica che aveva guardato con forte simpatia al nostro Risorgimento per la sua impronta liberaldemocratica, ma poi era rimasta sgomenta nel ritrovarsi di fronte come nemica, peraltro non troppo temibile sul piano militare, un’Italia sottomessa a un regime liberticida e alleata del Terzo Reich. Ci fu chi scrisse che Mack Smith parlava del fascismo anche quando si occupava di Cavour, di Bettino Ricasoli o, a maggior ragione, di Francesco Crispi. E non era un’osservazione campata per aria.
I suoi libri, molto accessibili e divulgativi, ottennero un ragguardevole successo di pubblico tra i lettori italiani, ma non erano altrettanto apprezzati dagli studiosi. Rosario Romeo, il più prestigioso biografo di Cavour, biasimò aspramente il modo in cui lo storico inglese aveva presentato l’opera del conte. E quasi altrettanto sgradito era Mack Smith alla scuola storiografica cresciuta intorno a Renzo De Felice, autore che lo studioso britannico aveva accusato di voler riabilitare Mussolini in un saggio molto polemico intitolato Un monumento al Duce , edito in Italia da Guaraldi nel 1976 assieme a una risposta di Michael Ledeen (curatore della laterziana Intervista sul fascismo di De Felice) e alla controreplica dell’autore inglese.
D’altra parte, benché la sua ostilità verso il regime littorio e Mussolini fosse a prova di bomba (a volte persino esagerata), anche i marxisti nutrivano forti riserve sull’impostazione generale di Mack Smith, a loro avviso troppo concentrata sulle vicende delle classi dirigenti e poco attenta alle trasformazioni economiche del capitalismo e alle lotte del movimento operaio nel nostro Paese.
Tutte queste osservazioni avevano un certo fondamento: per esempio lo stesso Mack Smith aveva in seguito ammesso che forse Romeo aveva visto meglio di lui su Cavour. Ma bisogna aggiungere che la sua vena polemica verso i governanti italiani era dettata anche, se non principalmente, da un amore profondo per il nostro Paese, dove era approdato per la prima volta da giovane (era nato a Londra il 3 marzo 1920) subito dopo la guerra, nel 1946, fresco degli studi a Cambridge sotto la guida di un maestro autorevole come George Trevelyan.
A Napoli aveva conosciuto Benedetto Croce, al quale era rimasto sempre molto riconoscente per l’aiuto concreto che gli aveva prestato nelle sue ricerche, anche se la tesi di fondo della Storia d’Italia di Mack Smith era all’opposto di quella dell’opera omonima del grande filosofo idealista, che rifiutava nettamente di considerare il regime fascista uno sbocco logico della nostra tradizione politica nel periodo dello Stato unitario.
Nel 1962 lo storico inglese era diventato docente presso il prestigioso All Souls College dell’Università di Oxford, dove aveva insegnato fino al suo ritiro nel 1987. Sotto la guida di Mack Smith si erano formati nel tempo parecchi studiosi britannici specialisti del nostro Paese, le cui opere sono state pubblicate anche in Italia. Tra i più noti si possono ricordare Christopher Duggan (prematuramente scomparso nel 2015 a neppure 58 anni), biografo di Crispi, lo storico della mafia John Dickie e Lucy Riall, autrice di saggi importanti sul Risorgimento, Garibaldi e la spedizione dei Mille.
Infaticabile poligrafo, oltre alle opere di argomento generale, tra cui va ricordata un’importante Storia della Sicilia medievale e moderna (Laterza, 1970), Mack Smith aveva prodotto diverse biografie, sempre molto godibili anche se un po’ sbilanciate sul versante aneddotico, di protagonisti della vita italiana dall’Ottocento in poi. Dopo il suo Garibaldi (Lerici, 1959; poi Mondadori, 1993) erano usciti Vittorio Emanuele II (Laterza, 1972), Mussolini (Rizzoli, 1981), Cavour (Bompiani, 1984), Mazzini (Rizzoli, 1994).
Con il suo spirito critico sempre vivo lo storico britannico non aveva risparmiato rilievi urticanti, in buona parte del resto meritati, alla dinastia sabauda nel libro I Savoia re d’Italia (Rizzoli, 1990). E nel successivo saggio La storia manipolata (Laterza 1998) aveva fustigato la cattiva abitudine di abbellire il passato a proprio uso e consumo, praticata con notevole assiduità nel nostro Paese dai potenti di qualsiasi orientamento politico. Da segnalare anche l’ampio lavoro di Mack Smith Storia di cento anni di vita italiana visti attraverso il «Corriere della Sera» (Rizzoli, 1978), un autorevole riconoscimento al ruolo centrale ricoperto dal quotidiano di via Solferino nel centenario della sua fondazione.

Repubblica 13.7.17
Denis Mack Smith
L’uomo che riscrisse la storia d’Italia
Lo studioso inglese, autore di saggi fondamentali dedicati al nostro Paese, è morto a 97 anni
di Simonetta Fiori

I suoi avversari — molti — malignavano che lo straordinario successo di Denis Mack Smith fosse dovuto a una circostanza semplice: aveva raccontato gli italiani con la stessa scettica acutezza con cui siamo soliti guardare a noi stessi. Senza sconti. Anzi, con quel piglio fustigatore che piace tanto a un popolo dedito alla perpetua autodemolizione. Se n’è andato all’età di 97 anni il decano degli studiosi inglesi animati da passione per l’Italia. La coscienza critica della nostra storia nazionale. E l’inventore di un genere storiografico che avrebbe dato una scossa anche alla prosa paludata degli accademici italiani. Figura slanciata e aplomb tipicamente anglosassone,
ricchissimo il medagliere accademico – la British Academy, il Wolfson College di Cambridge, l’All Souls College di Oxford, l’American Academy of Arts and Sciences – sembrava il figlio del più esclusivo ceto intellettuale londinese. In realtà il padre aveva fatto l’ispettore delle tasse a Bristol e Denis fu il primo della famiglia a prendere la laurea. Per la tesi scelse il nostro Risorgimento, assecondando quell’interesse per l’Italia nato fin dai banchi del liceo. Alla fine della guerra, appena ventiseienne, s’era affrettato nel Paese di Cavour e Garibaldi. Con una borsa di studio di poche sterline, trascorse un anno tra gli archivi, divorando libri e poco altro. «Ricordo ancora la fame e il silenzio», ci raccontò una volta nel suo villino bianco di Headington, a Oxford. «Mi muovevo in un’atmosfera strana, difficile da decifrare. Il Paese era ancora scosso dalla guerra». A Napoli l’incontro destinato a segnare la sua vita: Benedetto Croce gli aprì biblioteche ed amicizie importanti. «L’unico problema era il suo accento: non capivo una parola del suo italiano! ».
Tredici anni più tardi nasce in Italia il “caso Mack Smith”: l’editore Vito Laterza lo convince a pubblicare La storia d’Italia, il libro che gli procura enorme popolarità tra i lettori non specialisti (oltre 150 mila copie) e altrettanta animosità nella cittadella aristocratica della storiografia. Le ragioni dello scandalo? Un eccesso di semplificazione, lamentano gli accademici. La storia italiana viene ridotta a un piano inclinato, in cui gli accadimenti scorrono fin troppo speditamente. Da Cavour a Mussolini e alla successiva democrazia trasformista, tutto si tiene in un racconto forse eccessivamente consequenziale. Un racconto spietato che rivela ottusità, cinismi e compromessi delle nostre classi dirigenti. In realtà non era stato scritto per un pubblico italiano. L’opera nasceva dal “bisogno inconscio” di spiegare agli inglesi perché il nostro Paese fosse stato capace di inventare il fascismo, esportandolo nel mondo. Così lo studioso era andato alla ricerca delle nostre antiche debolezze, trovandole tra le pieghe del processo risorgimentale. «Sia Gaetano Salvemini che Federico Chabod mi avevano dissuaso dal farlo, ma l’editore Laterza si mostrò deciso, anche perché voleva suscitare una discussione. Io non ero sicuro di tutti i miei giudizi, disponibile dunque a una correzione. L’editore però non volle modificare una riga ». Il più sprezzante si mostrò Rosario Romeo, suo antagonista anche nel campo degli studi cavourriani. Di profilo intellettuale sideralmente distante – assai dotto ed elitario Romeo, più sensibile alla divulgazione Mack Smith – lo studioso siciliano liquidò la Storia come uno “sciocco libello”, e il suo giudizio non sarebbe stato più temperato per i saggi di Mack Smith su Cavour e Garibaldi. «Ogni riferimento a fatti realmente accaduti è puramente casuale », annotò Romeo a proposito delle ricerche del collega inglese. Veleno puro. Romeo era un gigante, e certo maneggiava l’argomento con una ricchezza superiore a quella del professore di Oxford. Ma la sua pungente intolleranza tradiva qualcos’altro, che Mack Smith rintuzzava con distacco. «Romeo era animato da invidia e da risentimento. Un giorno si rifiutò perfino di stringermi la mano, very unpolite.
Pensava che i miei saggi facessero male ai lettori italiani». In realtà venivano divorati dai lettori italiani, e questo a Mack Smith non fu mai perdonato. I suoi libri rappresentavano una novità anche per la scrittura. I giudizi lepidi e i ritratti sulfurei spazzavano via le dita di polvere della nostra accademia. Garibaldi? Un cavaliere generoso, peccato che non capisse nulla di politica. Cavour? Un tessitore spregiudicato, disposto a tutto pur di raggiungere i suoi obiettivi. E Vittorio Emanuele II, il re galantuomo? Macché. Era un personaggio volgare e incolto, gran puttaniere e scialacquatore di denaro pubblico. Un altro piccolo scandalo esplose con Casa Savoia, ma a difendere il suo piglio aneddotico intervenne Enzo Forcella: quando si tratta di mettere a fuoco personalità cruciali, scrisse il giornalista, anche le annotazioni psicologiche sono importanti. E il merito di Mack Smith era stato quello di rovesciare gli stereotipi più corrivi di una storiografia di corte, rivelando il profilo semifeudale di una monarchia formalmente liberale e costituzionale.
Non fu facile la convivenza neppure con un altro maestro italiano, Renzo De Felice, assai critico verso i suoi studi sul capo del fascismo (tanti i saggi dedicati al dittatore, Mussolini, Le guerre del duce, A proposito di Mussolini, La storia manipolata). Nella sua miseria e nobiltà, l’Italia fu il grande amore della vita. Una passione che sembrava indebolita nella stagione della vecchiaia. Quando l’andammo a trovare per i novant’anni nel villino di White Lodge, Mack Smith appariva distante. Il ruolo del brillante fustigatore non gli apparteneva più, un po’ per stanchezza, un po’ perché l’Italia sedotta da Silvio Berlusconi era troppo anche per un italofilo come lui. In realtà quel Paese era lo sbocco naturale della trama di populismo, sovversivismo, assenza di regole che Mack Smith ci aveva raccontato per quasi mezzo secolo. La storia gli aveva dato ragione, ma lui sceglieva di porgere le sue scuse postume a Romeo: «Probabilmente Romeo non aveva torto: nel rintracciare le cause della fragilità italiana, su Cavour ho esagerato un po’». Poi un lampo di malizia: «Mi sarebbe piaciuto leggere un bel libro di storia inglese scritto da uno studioso italiano. Ma è davvero raro, mi creda».
Guardava oltre il giardino, Mack Smith. La sua Italia era quella raffigurata sulle pareti di casa, il ritratto di Garibaldi acquistato da un libraio di Cambridge o la ceramica di Vittorio Emanuele a cavallo. Era la lingua che aveva condiviso con il suo vicino di casa Isaiah Berlin, che parlava italiano così spedito tanto da non riuscire a stargli appresso. Un Paese, una comunità culturale, un’idea dell’Italia che in quello scorcio del nuovo secolo non esisteva più. «Ora che ho ceduto alla biblioteca di Oxford i miei diecimila volumi di storia italiana mi sento meglio, più leggero». Gli chiedemmo se condivideva il giudizio del suo allievo Christopher Duggan: l’Italia come un’idea troppo malcerta e contestata per poter fornire il nucleo emotivo di una nazione, almeno di una nazione in pace con se stessa. Un lungo silenzio, forse tanti ricordi. «Uno storico non può accomiatarsi dai suoi lettori con accenti apocalittici. Ci saranno pure delle incompiutezze nazionali, ma non bisogna esagerare nel disfattismo. Anzi, abbiamo il dovere di essere ottimisti». Sempre molto british, anche nell’addio.

Repubblica 13.7.17
Le Monde rilancia “Pascal in odore di santità”
Il quotidiano francese riprende la proposta di beatificare il filosofo nata dal colloquio tra papa Francesco e Scalfari su “Repubblica”
di Pietro Del Re

PARIGI “Blaise Pascal in odore di santità a Roma”, titola Le Monde di ieri, richiamando l’ultima intervista fatta da Eugenio Scalfari a papa Francesco nella residenza di Santa Marta, pubblicata su questo giornale l’8 luglio scorso. In quel colloquio, il fondatore di Repubblica, che il quotidiano parigino definisce “nume tutelare della sinistra italiana”, suggerisce che il matematico e filosofo Pascal andrebbe beatificato. E Francesco gli risponde: «Anch’io penso che meriti la beatificazione. Mi riserbo di far istruire la pratica necessaria e chiedere il parere dei componenti degli organi vaticani preposti a tali questioni, insieme ad un mio personale e positivo convincimento».
Nel suo articolo in terza pagina, il corrispondente da Roma di Le Monde, Jérôme Gautheret, ricorda i principali temi trattati nell’intervista, tra i quali l’appello ai grandi del pianeta riuniti nel G20 di Amburgo e l’emergenza dei migranti nel Mediterraneo, per soffermarsi poi sull’autore dei
Pensieri, nei secoli mai troppo amato in Vaticano. Infatti, ricorda Gautehret, nonostante egli abbia inventato a soli diciannove anni la prima calcolatrice della storia e dopo la crisi mistica del 1654 abbia consacrato la vita alla filosofia e alla religione, Pascal apparteneva alla scuola giansenista, fortemente osteggiata dai Papi e dal loro braccio armato, la Compagnia di Gesù. Come se non bastasse, nel suo Le Provinciali, il filosofo francese aveva anche accusato i gesuiti di scarsa moralità, suscitando la collera del papato.
Scrive Le Monde: «Beatificare l’autore di un tale libro, sarebbe già di per sé stupefacente. Ma il fatto che a partorire l’idea sia stato il primo Papa gesuita della storia, ciò aggiunge un pizzico di provocazione alla proposta». È proprio il sostegno di Francesco a una causa così inattesa, che suscita tanto interesse Oltralpe. Ora, nella sua intervista, Scalfari accenna a quando Pascal, moribondo, chiese alla sorella di farlo morire nell’ospedale dei poveri. Ma visto che il trasporto non era possibile, espresse il desiderio che un malato povero fosse portato in un letto vicino al suo. «La sorella cercò di accontentarlo ma la morte arrivò prima», dice ancora il fondatore di Repubblica, prima di sostenere che un tale personaggio andrebbe beatificato. La risposta di Francesco, “Papa rivoluzionario” come lo chiama Scalfari, ossia che anche lui vorrebbe beatificarlo, non poteva essere diversa.

Repubblica 13.7.17
Un genio dei numeri Ma adatto agli altari?
di Piergiorgio Odifreddi

Blaise Pascal può aspirare alla beatificazione? La questione è nata dal confronto tra Eugenio Scalfari e papa Francesco pubblicato su Repubblica di sabato scorso.
Scalfari si è rivolto a un papa che sembra poco interessato alle questioni dottrinali e ai pronunciamenti ex cathedra, e che per le sue dichiarazioni estemporanee è stato appunto spesso accusato o elogiato, a seconda dei gusti, di «essere protestante».
Anzitutto, parlando di Pascal bisogna ricordare di avere a che fare con un genio, che all’età di soli sedici anni rivoluzionò la geometria dimostrando un teorema su una strana configurazione che egli stesso chiamò “esagramma mistico”, rivelando fin da subito una singolare propensione a mescolare fra loro il diavolo della matematica con l’acqua santa della spiritualità.
Un’attitudine che trovò in seguito la sua migliore espressione nella famosa “scommessa”: l’idea, cioè, che conviene credere, perché si rischia di meno che a non credere. Se infatti Dio non esiste, si spreca una vita terrena di durata finita, ma se Dio esiste, si guadagna una beatitudine eterna.
Ma bisogna anche considerare che Pascal è ricordato in Francia come un padre della prosa, per quel capolavoro che sono le Lettere provinciali: un testo che metteva alla berlina i gesuiti, criticandoli raffinatamente su due fronti. Da un lato, emergeva il loro pensiero contraddittorio e compromissorio a proposito del pentimento, la confessione, l’assoluzione, la penitenza e la comunione. E, dall’altro lato, veniva avanti il loro esplicito tentativo di blandire gli intellettuali di riferimento dell’epoca per arruolarli dalla loro parte.
Riletto oggi, quel pamphlet di Pascal appare applicarsi quasi alla lettera alle posizioni del gesuita Bergoglio sulla comunione ai divorziati, da un lato, e al suo rapporto con i media, dall’altro, e difficilmente passerebbe il vaglio degli “organi vaticani preposti”. Infatti, saggiamente, Scalfari fa riferimento nella sua proposta non alle meno note Lettere provinciali, ma ai più famosi Pensieri di Pascal, che definisce «un libro splendido e religiosamente di grande interesse».
La cosa è sorprendente, da un punto di vista letterario e intellettuale. I Pensieri non sono infatti un’opera autografa di Pascal, ma una raccolta postuma che stupì e imbarazzò persino i suoi più intimi amici e i suoi più appassionati difensori. Il discepolo Pierre Nicole li definì «un’accozzaglia di materiali indistinti, di cui non sono riuscito a intuire l’uso che volesse farne l’autore». E lo storico ufficiale del giansenismo Sainte-Beuve si domandò: «Non è che semplicemente ci troviamo di fronte a un malato, un visionario, un allucinato? Pascal, insomma, non ha, nei suoi ultimi anni di vita, smarrito la ragione?».
I Pensieri contengono alcuni noti aforismi sparsi, ma presentano nell’insieme una visione dell’uomo come un mostro incomprensibile a sé stesso, tormentato dalla propria incomprensibilità, che cerca inutilmente di comprendersi mediante le filosofie e le religioni non cristiane, e trova conforto solo nell’interpretazione letterale e superficiale della Bibbia: una visione integralista che, come notò già Voltaire, scandalizza i moderni.
Il Pascal delle Lettere provinciali e dei Pensieri è l’antitesi di Bergoglio. I matematici continueranno a mantenerlo sui piedistalli della matematica e a ricordare i suoi geniali risultati di geometria, calcolo infinitesimale e teoria della probabilità. Ma dubito che un papa gesuita e la sua Chiesa gli permetteranno mai di salire sui loro altari, e di venir additato ufficialmente come un esempio di ortodossia e di santità.

La Stampa 13.7.17
La7 riparte dalla satira con Guzzanti e Zoro
In autunno il ritorno del comico con una striscia quotidiana A Diego Bianchi una prima serata, cinema d’autore con Moretti
di Luca Dondoni

Sono passati soltanto due mesi da quando Urbano Cairo ha annunciato l’ingaggio del nuovo direttore di La7 Andrea Salerno, eppure alla presentazione dei palinsesti autunnali il cambio di marcia si è subito notato. La prima notizia è che Corrado Guzzanti entrerà a far parte della squadra non recitando in una fiction o come ospite speciale di uno dei tanti talk in onda, ma come protagonista di una striscia quotidiana di cinque minuti che dal 6 novembre («Non c’è ancora un titolo ufficiale») andrà in onda subito dopo il programma di Lilli Gruber, alla quale è stato rinnovato il contratto sino al 2022.
L’accordo con Guzzanti invece legherà l’artista a La7 sino al 2020, ma cosa farà in tv? «Sarà una cartolina satirica - racconta Urbano Cairo, editore del gruppo tv, nonché presidente del Torino - in onda dal lunedì al venerdì, stiamo inoltre già pensando a un programma per il fine settimana che leghi tutti gli interventi della settimana. Il fatto che il direttore Andrea Salerno e Guzzanti si conoscano bene, visto che insieme hanno firmato parecchi programmi di successo, ci ha permesso di realizzare un sogno». «Ma perché il sogno si avveri - aggiunge Salerno, direttore di La7 - c’è però ancora tanto da fare. Diciamo che portare a casa Corrado mi ha fatto perdere qualche notte di sonno, ma so che con lui le notti insonni saranno parecchie».
Anche per quanto riguarda Diego Bianchi in arte Zoro, che lasciata Rai 3 arriva a La7 con la squadra che aveva a Gazebo per preparare uno spettacolo in prima serata, il titolo del programma è sconosciuto (per ovvie ragioni di copyright il marchio «Gazebo» rimane di proprietà della Rai). «Abbiamo sul tavolo una quarantina di titoli - ha detto il direttore - ma Diego e i suoi stanno già girando il programma che debutterà a fine settembre».
Dalla squadra di Zoro arriva Makkox al quale sarà affidata una striscia che precederà il TgLa7 e andrà dalle 19,30 alle 20 circa. Il titolo qui c’è e sarà Skroll: «Makkox, grazie agli infiniti profili Instagram, tutti i giorni confezionerà un blob con immagini che racconteranno in modo alternativo i fatti principali della giornata». Buone notizie per Gianluigi Paragone, che chiusa La Gabbia incassa comunque la stima di Cairo che da lui si aspetta «un programma di inchieste sul campo».
Con tutte queste novità, e con la conferma di Formigli, di Floris (che perde la «cartolina» di Luca e Paolo migrati a Mediaset, ma si sta pensando a chi li sostituirà), Myrta Merlino, i plausi al lavoro di Luca Telese e di David Parenzo, Enrico Mentana non sembrerebbe più così centrale per l’informazione della Rete. «Non è vero - precisa Cairo - anzi Enrico è bravissimo sia come centometrista che come maratoneta ed è l’unico in Italia. Per me è importantissimo».
«Giletti? Mai contattato»
Smentiti i contatti con Fabio Fazio («Sono molto amico del suo agente Beppe Caschetto ma non l’ho mai preso in considerazione»), Urbano Cairo nega anche qualsiasi interesse su Giletti che stima ma non ha mai contattato.
Archiviato definitivamente il talent comico Eccezionale veramente, («Non funzionava») e sottolineato il nuovo slogan de La7 «Una nuova idea di TV», per gli amanti del cinema l’editore sottolinea l’appuntamento autunnale con la rassegna dei migliori titoli di Nanni Moretti introdotti in esclusiva proprio dallo stesso regista. «Una sorta di guida alla visione che farà piacere ai fan di Nanni che conoscono la sua ritrosia nei confronti della televisione».

Il Fatto 13.7.17
La7 e Cairo rivogliono la Rai3 dei tempi d’oro con Corrado Guzzanti
Il comico torna sul piccolo schermo con una cartolina satirica quotidiana e va a far parte di una truppa (insieme a Diego Bianchi e il direttore Andrea Salerno) nata all’ombra di viale Mazzini
di Nanni Delbecch

Lui dice di no, ma se dicesse di sì non sarebbe Urbano Cairo, da quattro anni patron de La7, l’unico a dare una vera notizia di mercato televisivo alla presentazione dei palinsesti autunnali: il ritorno in video di Corrado Guzzanti, che firmerà una cartolina satirica quotidiana. Cairo si schermisce, ma l’arrivo di Guzzanti, dopo quello di Diego Bianchi con tutta la sua banda, è l’ennesimo indizio che fa una prova. Tassello dopo tassello, il neodirettore di La7 Andrea Salerno sta ricostruendo la fu Raitre di viale Mazzini, o meglio quella che sarebbe dovuta nascere se Antonio Campo dall’Orto (quando ancora riceveva gli input da Rignano sull’Arno) non avesse preferito alla direzione Daria Bignardi.
Cairo fa l’editore: ha preso atto della calma piatta dei palinsesti concorrenti, in particolare del vuoto lasciato dalla rete Rai storicamente vicina alla sinistra, e vuole riempirlo. “Salerno è un vero creativo” ha annunciato più pimpante che mai in apertura di conferenza stampa. “Non si mette né la giacca né la cravatta ma è giusto così, non si è mai visto un creativo con la cravatta. Sta lavorando in maniera veloce; abbiamo già i primi frutti della sua creatività e devo fargli i miei complimenti… naturalmente spero di continuare a farglieli anche quando avremo visto gli ascolti.”
Il frutto dell’ultima ora è appunto l’approdo di Guzzanti per questa striscia in onda dal lunedì al venerdì subito dopo Otto e mezzo; l’altro frutto già certo è Skroll, un altro appuntamento quotidiano, molto legato ai social media, ideato dal disegnatore Makkox, a precedere il tg di Mentana; la terza novità a cui si lavora è la prima serata di Zoro e del suo gruppo storico (a cui appartiene lo stesso neodirettore di rete): nessun dettaglio per ora, nemmeno il titolo, ma di certo sarà la prosecuzione di Gazebo con altri mezzi. Se aggiungiamo che il pezzo forte della programmazione cinematografica sarà un ciclo di film di Nanni Moretti introdotti da lui medesimo, che volete di più? Si scrive La7, ma si pronuncia Raitre. Il resto è fatto di tante conferme e poche retrocessioni. In testa alle prime, l’Otto e mezzo di Lilli Gruber (“Abbiamo rinnovato il contratto fino a tutto il 2022. È un quinquennale, come si fa con i calciatori a cui tieni veramente”); conferme anche per Giovanni Floris, per i talk pomeridiani, per la Piazza pulita di Corrado Formigli, per le maratone e i diritti di replica di Mentana, per il Faccia a faccia domenicale di Giovanni Minoli. In panchina ci sono solo Luca Telese e Gianluigi Paragone, “che però dal 2013 a oggi è stato il conduttore più in onda con 35 puntate. Non so quando, ma tornerà.” Si sussurra che gli sia stata ventilata una serie di “grandi reportage” (un po’ come le “grandi interviste” proposte dalla Rai a Massimo Giannini), la tipica vaselina che accompagna la messe in soffitta di una testata.
Bollettino di guerra a parte, con questa presentazione seguita a quelle di Rai e Mediaset il panorama dell’autunno è completo e consente un primo bilancio. Se tutte le reti generaliste sono in cerca d’autore (il passaggio di Crozza al Canale 9 Discovery non ha dato i risultati sperati, lo stesso Canale 8 di Sky è per ora un’incompiuta), a ipotecare l’identità più forte è proprio La 7, apertamente candidata a sfilare la bandiera dell’informazione alla terza rete del servizio pubblico. Ci aspetta un autunno preelettorale, ha più volte ripetuto Cairo, e proprio questo lo ha spinto a insistere sull’attualità (così come ha spinto la Rai a darsela a gambe).
Corollario del teorema è l’assenza di un vero telemercato. Come già Pier Silvio Berlusconi, anche Cairo ha ribadito stima personale verso Fazio e Giletti, ma ha anche negato il minimo accenno di trattativa per averli. Ciò significa che la rinuncia a Fazio non sarebbe stata certo “la fine della Rai”, come aveva dichiarato il presidente Monica Maggioni; casomai sarebbe stato Fazio a suicidarsi professionalmente, accettando le proposte di Discovery.
Per Giletti vale lo stesso discorso a rovescio: lui sì, dovrà sottostare alle proposte di viale Mazzini per non sparire. A meno di non voler giocare l’ultima carta che, dal ’94 in poi, in Italia tentano tutti: scendere in politica

il manifesto 13.7.17
Presentato il programma del Festival della filosofia
Kermesse. Tema della diciassettesima edizioni è le «Arti», sinonimo del buon saper fare
di Benedetto Vecchi

Il tema è di quelli che frettolosamente potrebbero essere rubricati alla voce «accademia». Ma nelle parole degli organizzatori è declinato invece come chiave di lettura non solo per comprendere cosa si muove nel triangolo urbano dove si svolge da diciassette anni il «Festival della filosofia» ma anche per affrontare alcuni nodi del vivere in società, come la rappresentazione del se come un’opera. Non si affronteranno quindi solo le «belle arti», ma anche quel saper fare alla base dell’antica etimologia greca del termine «arte».
NELL’ILLUSTRARE il programma, sia Remo Bodei che il nuovo direttore del festival filosofia Daniele Francesconi hanno sottolineato che gli argomenti tratti dai cinquanta relatori chiamati a svolgere le loro lezioni in piazza spazieranno dalle belle arti al design alle macchine e a quella figura idealtipica dell’artigiano che manipola la materia per produrre un’«opera». In fondo, tecnica e arte sono stati sinonimi per secoli, prima di essere separati e posti agli antipodi dell’attività umana.
Dunque, come ogni anno dall’inizio dell’attuale millennio, le piazze di Modena, Carpi e Sassuolo saranno riempite, dal 15 al 17 settembre, da un pubblico desideroso di ascoltare filosofi – più recentemente anche sociologi e scienziati – che affrontano il tema scelto dal comitato scientifico.
IL FORMAT DELL FESTIVAL è semplice: lectio magistralis in piazza per un pubblico non pagante, come invece avviene in altre kermesse culturali. E così il numero delle presenze è salito di anno in anno fino a far raddoppiare nei giorni del festival la popolazione delle tre città.
Un limite, evidenziato nel corso del tempo, si è però manifestato: i relatori spesso erano sempre gli stessi. Forse per questo motivo, che il «corpo docente» di quest’anno è stato parzialmente rinnovato, chiamando a parlare nomi poco invitati in Italia, ma che sul tema delle «arti» (il saper ben fare) hanno scritto molto, come la tedesca Rahel Jaeggi, lo statunitense James Clifford, il croato Deyan Sudijc.
LE «ARTI», dunque, come sinonimo di lavoro artigiano, di scienza, creatività, estetica applicata alla produzione e al consumo. Un ordine del discorso che risponde a quello che è stato qualificato, soprattutto dai tre sindaci intervenuti nella presentazione, come il «capitale sociale» presente nella regione che ospiterà il festival. D’altronde Modena, Carpi e Sassuolo sono luoghi di ricerca scientifica, di produzione tessile o di ceramiche di qualità. Insomma, centralità del «savoir faire» e della produzione di opere che ha spinto nel tempo alcuni autori della modernità a contrapporlo, polemicamente, ai classici della filosofia. O come mezzo per tornare alle origini della filosofia (Hannah Arendt non è mai stata citata, ma l’eco delle tesi della filosofa tedesca espresse in Vita Activa era più che evidente).
Come ogni anno, accanto alle lezioni, ci saranno mostre, proiezioni cinematografiche, cene «filosofiche». Il programma completo può essere consultato nel sito. www.festivalfilosofia.it