lunedì 10 luglio 2017

Corriere 10,7.17
Montale si chiamava Maggottino
La fantasia del poeta nelle lettere alle sue donne. E il mistero (svelato) di un amuleto
di Paolo Di Stefano

Quante sono le risorse di un grande poeta. Eugenio Montale non si finisce mai di conoscerlo, continua a offrire sorprese. Se non fosse che la sua vita privata è sempre presente dentro la sua opera, un nuovo epistolario o un nuovo accertamento biografico potrebbero lasciarci indifferenti. Invece è lo stesso Montale a dircelo: «Io parto sempre dal vero, non so inventare nulla». E allora è legittimo per i posteri «ficcanaso» interrogarsi sul «vero» che rimane celato tra i segni enigmatici disseminati ovunque nei suoi versi. Due sono le «occasioni» recenti da segnalare. La prima è una raccolta di lettere inedite alla Mosca (cioè la futura moglie Drusilla Tanzi) e a Gina Tiossi, la «servante au grand coeur» del Valdarno, governante della coppia e poi del poeta vedovo fino alla morte (1981). La seconda «occasione» è offerta da un’affascinante ricognizione di Marco Sonzogni su un «amuleto» per l’amata Clizia.
Introducendo Moscerilla diletta, cara Gina , è Maria Antonietta Grignani (che ha curato la raccolta epistolare con Giovanni Battista Boccardo) a informarci che la Gina, oltre a conservare le carte che Drusilla le affidò nel corso degli anni, tenne abbozzi, disegni, schizzi, quadretti, prime edizioni, oggetti e foto che il «signor Montale» via via le donava. Tutto questo materiale fu poi regalato dalla stessa Tiossi (morta 2 anni fa) al Centro Manoscritti di Pavia, che già deteneva parte dell’archivio montaliano.
Si sa tutto della cosiddetta Mosca, consorte del critico d’arte Matteo Marangoni quando Montale (Eusebio per gli amici), da un paio d’anni direttore del fiorentino Gabinetto Vieusseux, nel 1931 si trasferisce in casa loro. Sospeso dall’incarico nel ’39, il poeta va a vivere con Drusilla, rinunciando definitivamente a raggiungere Clizia, ovvero Irma Brandeis, a New York. Alla «miope ma veggente compagna di una vita», come la definisce Grignani, a lungo malata e scomparsa nell’ottobre 1963 pochi mesi dopo il matrimonio con Eusebio, il poeta dedica parecchi componimenti, a partire dalla celebre Ballata scritta in una clinica (1945).
È un volume di rara eleganza, quello pubblicato da San Marco dei Giustiniani per la Fondazione Giorgio e Lilli Devoto: ricco di riproduzioni di manoscritti e fotografie. Nelle lettere, che vanno dal gennaio 1947 al febbraio 1953, Drusilla è «Dear carissima nice fly», «moschetta», «moscerilla», «moscarina»…, mentre lui si firma, in chiave autodenigratoria, Maggottino (dall’inglese maggot , bruco, verme) e/o Merlo. Morta la moglie, la stessa firma confidenziale si ripresenta nei biglietti di istruzioni alla governante che si pongono in continuità tonale con le lettere alla Mosca. La prima missiva, del 23 gennaio 1947, viene inviata da Lugano, dove Montale ha tenuto una conferenza particolarmente delicata: mentre al Liceo parlava del famoso componimento Carnevale di Gerti , vide comparire tra il pubblico Gerti Tolazzi in persona, la donna «asburgica» che aveva conosciuto grazie all’amico Bobi Bazlen e che non vedeva da una ventina d’anni: «S’interruppe, balbettò, cucì come poté fra tic della faccia un discorso sul disfacimento del personaggio…», ricordò Giorgio Orelli, testimone della serata. Informando la Moscuccia di quell’imprevisto imbarazzante, avrebbe poi precisato tranchant : «È un rudere».
Non mancano punte di aspro sarcasmo. Come quando, nel novembre ’48, dalla missione Unesco a Beirut Montale scrive alla compagna a proposito di Vittore Branca: «Vedessi Vitt. B. ai banchi dei rinfreschi 30/40 paste alla volta. E al povero merlo una sì e no». Sempre su V.B, ironizza ricordando che «ha parlato in francese con una pronunzia tale che tutti si sono levati la cuffia con orrore e disgusto». I giochi plurilinguistici in funzione ironico-espressiva spesseggiano non solo per gli appellativi, ma anche in divertite coniazioni verbali come «ho spiccato» (cioè «parlato», da to speak ) e «dropperò a Milano» (da to drop ).
Assunto nel gennaio 1948 come redattore del «Corriere della Sera», Montale ha trovato alloggio, in solitudine, all’Hotel Ambasciatori: frequenta Vittorini, Solmi, Dorfles, Piovene, Barolini… Ma nel febbraio 1949 rimpiange ancora Firenze («paradiso terrestre») e racconta che la sola cosa bella vista a Milano in un anno è «un bel cockerino giallo, con le orecchie trasparenti». Del resto, dopo due mesi dall’assunzione in via Solferino comincia a darsi da fare per ottenere una cattedra al Bedford College di Londra e poi per essere nominato dirigente dell’Unesco a Parigi: non andranno a buon fine gli appoggi richiesti, compresa una lettera di raccomandazione di Eliot. La visita-intervista all’amato poeta della Terra desolata , avvenuta nel marzo ’48 in compagnia di Alberto Moravia ed Elsa Morante, non pare memorabile: lo stesso Moravia a distanza di anni ricorderà che «Montale si limitava a quello che gli inglesi chiamano small talk ».
Nel carteggio con la Mosca, Montale allude spesso alla brutta vicenda di un processo giudiziario che lo tiene in angoscia: «Se non esco bene da questa faccenda impazzisco», scrive. Si tratta della causa di plagio intentata da Bice Chiappelli nel 1947 per la traduzione di Strano interludio di Eugene O’Neill; un iter lungo, che si sarebbe concluso nel 1953 con la condanna di Montale. In realtà, basta molto meno ad accendere l’ansia dell’insonne Montale, che nel febbraio 1949 racconta: «Le negre fanno baccano, ho picchiato al muro e ora sono loro che picchiano al muro per sfottermi». Si trattava probabilmente delle allora famose Peters Sisters, un trio vocale americano che Montale, nel racconto L’angiolino , uscito pochi giorni prima sul «Corriere», aveva ribattezzato come Paprika Sisters. La gelosia di Drusilla deve farsi sentire, se Eusebio avverte di continuo la necessità di rassicurarla («Io ti sono fedelissimo…»), anche quando sappiamo che è già entrata in scena Maria Luisa Spaziani, ovvero la Volpe.
«Sono sempre stato inadatto a vivere», scrive Montale nel gennaio 1951, immaginando (forse per la «causa») di non poter più scrivere e di «dover assistere allo spettacolo della sua fine». Parla di una «menopausa» che lo porterà in manicomio. E intanto aspetta di rivedere Drusilla: degli appuntamenti che vengono fissati per lettera nelle varie stazioni lombarde rimangono tracce visibili nelle poesie, come segnala Grignani: «Quante volte t’ho atteso alla stazione/ nel freddo, nella nebbia. Passeggiavo/ tossicchiando, comprando giornali innominabili, fumando Giuba…». Ma la vera rivelazione epifanica è il famoso fischio di riconoscimento «studiato per l’aldilà» presente in un celebre pezzo di Xenia : lei è miope, ha bisogno di segnali acustici per orientarsi, i due si danno appuntamento per un venerdì del maggio 1951 sul rapido che parte da Milano alle 8.10, lui la aspetterà sul treno: «Non salire fino a che non senti il fischio if if if ».
Scomparsa la Mosca, scrive Grignani, Gina diventa «nume tutelare del poeta, lo difende dalla propria fama in incremento turbinoso di onori e di relativi oneri». La vediamo, nei versi della vecchiaia, curare un rondone affondato nel catrame, la vediamo accendere ogni anno una candela per i defunti dell’Appennino toscano, vediamo suo padre «scarpinare per trovarle un poco di vino dolce», vediamo la sua maestra dare bacchettate «alle dita gelate della bambina» costretta dalla povertà a portare al pascolo i maialini. La nipote di Montale, Bianca, ricorda la «decenza quotidiana» della Gina: la Mosca, assistita dalla governante fino all’ultimo respiro, «è stata per lei come una madre», confidente e amica fedele. Con la morte di Eugenio, la Tiossi si ritirò in un piccolo appartamento fiorentino tenendo per sé i ricordi e senza dare filo ai pettegolezzi.
E il talismano? Bisogna seguire attentamente il percorso attraverso cui ci guida Marco Sonzogni ( «Il guindolo del Tempo» , Archinto) per sapere che cos’è il pegno che Montale promise a Clizia-Irma. Un oggetto che il poeta fa baluginare nelle lettere inviate, tra il settembre 1933 e il giugno 1934, all’amica-amante americana, tornata a New York nella speranza che lui la raggiunga. Eusebio non la raggiungerà: l’amuleto sarà inviato, senza essere propiziatorio di alcun futuro insieme. Il futuro si chiude ben prima dell’aprile 1939, quando Montale va a vivere con la signora Tanzi-Marangoni (conosciuta nel lontano 1927), la quale sapendo della presenza di Irma minaccia il suicidio e probabilmente lo tenta. Da allora Clizia continuerà ad abitare i versi di Montale e le sue lettere, dove si parla di un regalo etrusco difficile da acquistare. Ma di che cosa si tratta esattamente? Un segno di «presenza in absentia ». In Montale le «cose» sono sempre il correlativo oggettivo capace di ricordare e rinnovare «l’invincibilità del legame» tra chi salva e chi è salvato: «Caricato di questa intimità, qualsiasi oggetto — scrive Sonzogni — in qualsiasi momento e in qualsiasi luogo può diventare amuleto o talismano o pegno: solo la “forza del destino” può stabilirlo». Che sia il «topo bianco d’avorio» citato in Dora Markus come «l’amuleto che ti salva», un piccolo mus molto terrestre grazie al quale la donna diventa angelo che «stende le ali sul suo fedele d’amore», come scrisse Isella? Che sia il topo di «affannosi andirivieni» che Montale «ruba» a una poesia di Landolfi, come dimostra Sonzogni? Che sia un unicorno? Quello che comparirà ne La belle dame sans merci , chiamato «l’archetipo vivente o estinto», che «vive nelle insegne araldiche e non oltre»? Qualcosa che somigli agli «sciacalli al guinzaglio» di un noto mottetto? Si scatena la ricerca iconica e simbolica di Sonzogni, che racconta, collega, studia le coincidenze e le occorrenze, per escludere topi e liocorni egiziani o senesi (quelli del Palio).
Fatto sta che una fitta rete di «occasioni» fa sì che Sonzogni si ritrovi tra le mani, in Nuova Zelanda dove abita e insegna, una scatoletta di cartone con la scritta Stationary e all’interno un piccolo oggetto con un bigliettino su cui sono vergate le iniziali del mittente e della destinataria ( E.M. a I.B. ). Quella scatoletta, intravista dallo studioso qualche anno prima tra i materiali di Clizia, gli è stata inviata dall’amica più cara di Irma e sua erede, Jean Cook: non è stato facile venire a sapere che la promessa mantenuta da Montale era un nettaunghie etrusco acquistato chissà dove, chissà quando. E depositato adesso al Museo Civico Isidoro Falchi di Vetulonia.