l’Unità 19.6.11
Il segretario Bersani: «Ma quali conti a posto. Il governovenga in Parlamento e dica dove c iporta»
«Vendola non capisce. Noi sfidiamo la Lega, i manifesti su Alberto da Giussano li abbiamo fatti noi»
«Ci lasciano col cappio al collo Noi l’alternativa al diavolo»
Nella sala conferenze della Fiera di Genova Pier Luigi Bersani chiude la Conferenza Pd sul Lavoro. E fa volare sassolini. Ce ne sono per tutti, «commentatori e osservatori politici», ma anche per Nichi Vendola.
di Maria Zegarelli
Volano sassolini e metafore nella sala conferenze della Fiera di Genova mentre Pier Luigi Bersani chiude la Conferenza Pd sul Lavoro. Di sassolini ce ne sono per tutti, «commentatori e osservatori politici», ma anche per Nichi Vendola, il narratore. La metafora più forte e più cruda, invece, riguarda il Paese e l’eredità del governo Berlusconi: «Faccio questo pronostico: loro lasceranno l’Italia con il cappio al collo». Un cappio stretto intorno al collo del Paese, «è così, non mi sbaglio» e allora «adesso devono venire a dirlo. Non posso sentire interviste di ministri che dicono mica volete lasciare alla sinistra pure i conti a posto. Ma quali conti a posto? Adesso voi ci dite dove ci avete portato».
Sfida il governo ad un’operazione verità in Parlamento, raccogliendo «l’invito del Presidente della Repubblica a un atteggiamento di responsabilità nazionale», mettendo fine al gioco delle tre carte. Un cappio strettissimo: «Noi saremo messi di fronte a un’alternativa del diavolo. O azzardare una rischiosissima ridiscussione con l'Unione europea, o bere una ricetta recessiva». Altro che «meda-
gliette» sul bavero di Tremonti il giorno dopo Moody’s, quelle che si mette lui e quelle che gli mettono «gli osservatori». Nasce da questa consapevolezza ormai diffusa nel Paese che si fonda quel «sommovimento» in atto, quello stesso che ha portato ai risultati delle amministrative e di conseguenza al referendum. «Qui c’è sempre qualcuno che perde – dice e mai nessuno che vince. Adesso dicono che ha vinto la società. No, ma dico, quelli di centrodestra sono cavalli?». Non sarà che gli elettori hanno voluto mandare un messaggio, una richiesta di un nuovo civismo, una nuova moralità, una buona politica? «Mi viene spesso in mente Berlinguer in questi giorni», confessa. Poi, avverte: no all’antipolitica «abbiamo già dato». «Questo Paese senza buona politica, senza un nuovo civismo, una nuova moralità» non ce la può fare. Un errore avere «appaltato alla giustizia la moralità». Poi, il richiamo all’orgoglio: «Non siamo il partito del retroscena, siamo il partito della prima fila della scena. Non lasciamoci mettere i piedi in testa dal primo che passa, siamo il primo partito del Paese».
Con un proprio progetto per il paese. Metafora: «Non stiamo qui a pettinar le bambole, anzi visto che siamo a Genova, non siamo mica qui ad asciugar gli scogli». Frecciata: «Ci chiedono, e chissà perché lo chiedono sempre e solo a noi, se abbiamo un progetto. Non solo lo abbiamo ma avevamo le idee chiare anche su quello che si sarebbe dovuto fare davanti alla crisi». Idee chiare anche su fisco, legge elettorale, conflitto di interesse, legge sui partiti. Sassolini. Ecco quello per Vendola: nessun accordo con la Lega, «noi siamoalternativi alla Lega, glieli abbiamo fatti noi i manifesti con la spada di Alberto Da Giussano un po’ così o glieli ha fatti Sel? La nostra è una sfida, c’è Pontida, dove sono finiti i grandi obiettivi della Lega? E le ricette? Il risultato non c’è, bisognerà che tirino le somme e non lancino degli ennesimi ultimatum che sono dei penultimatum». L’obiettivo: cacciarsi via dalle vene il berlusconismo che in questi anni ha invaso tutto, uscire dalla logica del «ghe pensi mi» che non decide, «paralizzato intorno agli interessi del capo» che «dà risposte miracoliste», perché non sarà «mettendo Berlusconi sul lettino dello psicanalista sperando in un risveglio liberale», non sarà con un’altra fiducia Bossi, Berlusconi-Scilipoti, non sarà con l’aprire e il tirare i cordoni della borsa, che si fermerà «questa grande energia» che sta attraversando il Paese e ha generato l’uno –due delle urne. Ancora sassolini. «Questo nuovo vento noi lo avevamo colto. Quando andavo nelle piazze le vedevo piene di donne e ho capito che stava davvero cambiando qualcosa». Quel vento si era alzato con le manifestazioni d’autunno di operai, studenti, donne. Si era alimentato in piazza San Giovanni piena, con la trasmissione di Fazio e Saviano. «Noi ce lo aspettavamo questo sommovimento», che nasce da un incrocio tra «questione democratica e questione sociale» e ha saldato insieme ceti, strati sociali ed elettorati «che si sono dati la mano». A chi gli rimprovera di essere ormai lontano dalle lenzuolate liberalizzatrici lancia un altro sassolino: «Stiano tranquilli, non ho cambiato idea, io sono per le liberalizzazioni, ma per quelle delle benzina, dei farmaci...». Basta farsi tirare per la giacca. «Meritiamo più rispetto».
il Fatto 19.6.11
Bersani al Carroccio: “Basta penultimatum”. E attacca Vendola
Dice - aggiornando il repertorio di Crozza - che “non è più tempo di asciugare gli scogli”. Pier Luigi Bersani parla da Genova, alla conferenza nazionale sul lavoro del Pd. E nel mirino del segretario finisce non solo il governo (“La crisi? Ci lasceranno con il cappio al collo), c’è spazio anche per levarsi qualche sassolino dalle scarpe a proposito di Vendola e del Carroccio. Al leader di Sel - che ha escluso ogni dialogo con la destra “razzista” della Lega ma nemmeno con Giulio Tremonti che “ha impoverito il paese” - Bersani replica: “La nostra è la sfida alla Lega, noi siamo alternativi. Li abbiamo fatti noi i manifesti con la spada di Alberto da Giussano giù o glieli ha fatti Sel?”. E continua: “Sevogliono portarmi a dire che la maggioranza degli operai che ha votato la Lega è razzista, allora io non sono d’accordo, non è così. Andiamo avanti facendoci capire dal famoso popolo che loro chiamano ‘popolo del Nord’”. In serata replica di Vendola: “Eravamo in tanti a non aver capito e sono contento che Bersani abbia chiarito. Se il tema è quello della sfida, allora siamo d’accordo”.
Ma ieri il segretario Pd proprio a Bossi e soci ha detto: “Domani (oggi, ndr) c’è Pontida. Ho fatto un augurio che la Lega vada a fondo di questa discussione. Ha governato da Roma otto degli ultimi 10 anni, non da Gemonio. Dove sono finiti i grandi obbiettivi? In un fallimento. E le ricette come il protezionismo, il federalismo, l’aggressività contro l’immigrazione? Dov’è il risultato? Non c’è per il Nord, per l’Italia e neanche per la Lega. Non ci facciano per favore gli ennesimi ultimatum che sono sempre dei penultimatum, ancorchè roboanti”.
La Stampa 19.6.11
Tensione Pd-Sel Bersani: “Vendola non capisce”
“Siamo alternativi alla Lega, la vogliamo sfidare” E sul governo: “lasceranno l’Italia col cappio al collo”
di Teodoro Chiarelli
Attacco Il segretario Bersani ieri a Genova e sopra il manifesto contro La Lega attaccato in tutto il Nord dal Pd
«Apertura alla Lega? Ma quando mai? Noi siamo alternativi al Carroccio». E ancora: «Faccio un pronostico: questo governo lascerà l’Italia con il cappio al collo». Pierluigi Bersani sfodera l’orgoglio dei giorni migliori e a Genova sferza la platea della Conferenza nazionale sul lavoro del Partito Democratico. In maniche di camicia arringa i 600 delegati e li invita a essere umili, «ma senza lasciarsi mettere i piedi in testa dal primo che passa». Spiega che le elezioni amministrative hanno tirato la palla ai referendum «e ci hanno detto che cambiare è possibile». Sostiene che bisogna smettere di guardare il Pd dal buco della serratura, «perché non siamo il partito dei retroscena, ma il partito di prima fila della scena, il solo partito nazionale radicato in ogni luogo, presente in ogni generazione, nelle piazze, nelle feste, nella rete». E cita persino Vasco Rossi: prima urlando «Siamo solo noi» e poi ribadendo che «dobbiamo dare un senso a questa storia».
Del resto il segretario del Pd manifesta apertamente la volontà di togliersi qualche sassolino dalla scarpa. Così non la manda a dire a Nichi Vendola che aveva denunciato manovre di avvicinamento al partito di Umberto Bossi. «Chi lo afferma non capisce, non capisce davvero - insiste - Questa è la nostra sfida alla Lega. Il manifesto con la spada di Giussano giù l’abbiamo fatto noi, mica Sel!». E riguardo al Carroccio aggiunge: «Ha governato da Roma, non da Gemonio. Dove sono finiti i grandi obiettivi? l’autonomismo, la sburocratizzazione? Ci hanno parlato di protezionismo in economia, aggressività contro l’immigrazione, ma dov’è il risultato? Bisognerà che tirino le somme».
E’ preoccupato il leader dei democratici per la situazione economica del Paese. «Saremo messi di fronte a un’alternativa del diavolo: o azzardare una rischiosissima ridiscussione con l’Unione Europea o avere una ricetta recessiva». E ancora: «Lasceranno l’Italia con il cappio al collo. Siccome è così, adesso vengano a dircelo. Non posso sentire interviste di ministri che dicono: volete mica lasciare alla sinistra i conti a posto? Ma quali conti a posto! Diteci dove ci avete provato».
Bersani accoglie l’invito del Presidente della Repubblica ad avere un atteggiamento responsabile, ma precisa: «Andiamo in Parlamento e chiariamoci sulla situazione. Il gioco delle tre carte non si può più fare. Balle non si possono più raccontare, c’è un Paese che soffre e ce n’è un pezzo che soffre ancora di più».
Del warning di Moody’s sul debito italiano il segretario del Pd non vorrebbe parlare, però poi avverte: «Gradirei che il giorno dopo Tremonti non si mettesse anche la medaglietta. Ho sentito qualcuno dire addirittura che Moody’s rafforza Tremonti. Francamente si sentono cose curiose».
Ma Bersani ne ha anche per chi accusa il Pd di aver perso l’ispirazione liberale e l’aspirazione alle liberalizzazioni. «Io non ho cambiato idea. Parlano tanto degli Stati Uniti. Ma non per il fatto che lì danno sei ergastoli a chi truffa la gente e hanno regimi antimonopolistici per quanto riguarda benzina, medicinali e assicurazioni. A noi quell’America lì va bene. Mi chiedono sempre dove è il progetto? Ma questa domanda la fanno sempre e solo a noi. Allora io dico: non è che stiamo qui a pettinare le bambole. Anzi, visto che siamo a Genova, non siamo qui ad asciugare gli scogli».
Infine il nodo delle relazioni sindacali. «Non sottovalutiamo la questione e politicamente non siamo disposti a fare sconti. Siamo per l’esigibilità degli accordi e credo che dobbiamo trovare nuovi equilibri tra rappresentanza e partecipazione. Ma non conosco nessun male peggiore di un accordo separato sulle regole. Se un ministro in una situazione come questa lavorasse per un simile obiettivo meriterebbe il Nobel dell’irresponsabilità».
Applauditissimo alla Conferenza l’intervento della presidente del Pd, Rosi Bindi, soprattutto per quanto riguarda la parte dedicata alle donne. «Volete aumentare l’età della pensione alle donne? Allora dateci gli asili della Francia o i congedi parentali della Germania, o il welfare della Danimarca. Cancellateci da subito la discriminazione in entrata nella carriera e investite in un Paese che se vuole tornare a crescere deve anche riprendere a crescere dal punto di vista demografico».
I referendum e le amministrative «ci hanno detto che cambiare è possibile» Ovazione per la Bindi soprattutto per quanto riguarda la parte dedicata alle donne
La Stampa 19.6.11
Il leader Pd diserta il match con Nichi alla festa Fiom
L’alleato: “Si vince a sinistra, non corteggiando il Carroccio”
di Carlo Bertini
Un dirigente Pd: «Sta costruendo la leadership non deve urtare i moderati»
La sfida del governatore: «No a un premier centrista ma un’alleanza con il centro si può fare»
Cavalcare sì il vento del referendum, ma con giudizio, senza schiacciarsi troppo a sinistra con il rischio di inquietare quei mondi moderati faticosamente portati alle urne e cercando di non prestare il fianco alle critiche di essere poco autonomo e troppo appiattito sulla linea barricadiera di Vendola e Di Pietro: è questa la preoccupazione che deve aver spinto Pierluigi Bersani a dare forfait all’ultimo minuto alla kermesse bolognese della Fiom che lo avrebbe dovuto vedere ieri sera sul palco in piazza XX Settembre insieme a Landini e ai due leader di Sel e Idv in un dibattito moderato da Lucia Annunziata. Un episodio significativo della lunga marcia a tappe forzate che il segretario del Pd sta compiendo per assestare il suo profilo di «nuovo Prodi».
E quindi, anche se a malincuore, via con un tratto di penna a un appuntamento programmato da settimane che Bersani ha deciso di disertare solo venerdì sera a Genova, dove era in corso la conferenza del Pd sul Lavoro, all’insaputa della stessa Fiom e dei leader alleati. Facendo sapere un po’ in sordina, con una nota serale sugli impegni di sabato della Bindi, che in piazza a nome del Pd sarebbe andata la pasionaria Rosy. Di sicuro più a suo agio a giocare «in trasferta» in un campo minato dove può sempre scappare qualche fischio che fa titolo. E facendo nascere dunque una legittima curiosità sui motivi di questa assenza, soddisfatta dal suo staff con un «Bersani aveva il comizio alle cinque qui a Genova e comunque si è chiarito con Landini a quattr’occhi».
E se è vero che di questi tempi i sondaggi danno il Pd come primo partito e che il segretario ha siglato la pax interna con i riformisti di Veltroni (che a Genova hanno ricambiato evitando di firmare la proposta Ichino sul contratto unico capace di spaccare il partito), non stupisce la prudenza dell’uomo anche su questioni apparentemente minori come un confronto in piazza. Ma già la linea ufficiale del Pd sul lavoro e la contrattazione è molto in sintonia con i desiderata della Cgil (non a caso la Camusso ha evitato di andare a Genova per non schiacciarsi troppo sul Pd) e quindi produce una connotazione sufficientemente di sinistra. Dunque sarebbe stato troppo, dopo aver chiuso la conferenza genovese, coronare questa prima uscita dopo i successi referendari andando a festeggiare con Vendola, Di Pietro nel regno della Fiom.
«Parliamoci chiaro, Pierluigi in questa fase si gioca la leadership del Paese ed è comprensibile il suo tentativo di mantenere sempre un equilibrio essenziale per poter rappresentare i mondi più diversi», ammette uno dei più alti dirigenti Democrats. «E’ ovvio che rifugge il rischio di appiattirsi troppo su quel fronte e ha fatto una scelta opportuna». Un giudizio condiviso dai suoi ex avversari interni, oggi molto più benevoli nei suoi confronti, cioè i veltroniani, che anzi trovano «strano che Bersani avesse accettato quell’ invito».
Il resto, se ciò non bastasse, lo ha fatto Vendola, che ha cominciato a irritare il leader Pd con il solito pressing sulle primarie all’indomani della tripletta alle urne. Beccandosi un paio di rispostacce sul tema della sovranità del popolo referendario che ormai avrebbe dettato la linea programmatica al centrosinistra. E un’altra ieri sulla sfida alla Lega, dopo l’ammonizione che dal berlusconismo non si esce con manovre di palazzo o con «mosse incomprensibili» come corteggiare «Bossi, l’interprete della destra razzista, o Tremonti che ha impoverito il Paese». Rincarando la dose all’assemblea di Sel, con lo slogan «si vince a sinistra», pur accompagnato da un’ aperturache non è passata inosservata: perché se «un premier centrista sarebbe la nostra asfissia, un’alleanza col centro si può fare a condizione di mettere al centro i problemi del paese». E comunque, se già non avesse deciso due sere fa di disertare il match di Bologna, il duello a distanza andato in scena ieri con Vendola avrebbe sconsigliato a Bersani quell’abbraccio sul palco davanti alle truppe Fiom. Che però hanno accolto la Bindi a braccia aperte: «Qui ci sono Antonio Di Pietro, Nichi Vendola e Rosi Bindi, vi presento il nuovo fronte unito della sinistra», ha esordito la Annunziata innescando così un’ovazione. E quando gli è stato chiesto perché non fosse venuto il segretario, Rosy ha strappato un altro applauso: «Forse io non basto?».
Corriere della Sera 19.6.11
Scintille Democratici-Vendola Bersani: i lumbard? Io li sfido
Il governatore: bene, in tanti non avevamo capito
di Francesco Alberti
Briciole di rabbia su Nichi Vendola, «che dice di non capire e non capisce davvero che noi siamo alternativi alla Lega» . Vagonate di orgoglio per questo Pd e il suo popolo, «radicato ovunque e in tutte le generazioni, solo provvisoriamente all’opposizione» . Pier Luigi Bersani ha la faccia di uno che pensa di aver fatto un buon lavoro, «anche se tanto ancora c’è da realizzare» , e che fiuta il vento amico «dopo due anni in cui siamo stati un po’ piegati» . Aspettando Pontida e i titoli di coda del berlusconismo, il segretario del Pd chiude la due giorni della Conferenza nazionale del lavoro davanti ai 600 delegati riuniti nell’Auditorium della Fiera del Mare e lancia un doppio segnale: all’alleato Vendola e all’avversario Bossi. Al primo, che aveva fiutato in alcune frasi di Bersani sul Carroccio ambigue tentazioni di aggancio con il «nemico» e aveva reagito con asprezza («Nessuna apertura a Bossi e a Tremonti: sono due protagonisti fondamentali del berlusconismo» ), il leader dei Democratici ricorda un po’ piccato che «il manifesto con la spada di Alberto da Giussano rivolta all’ingiù, l’abbiamo fatto noi, non Sel: la nostra è una sfida alla Lega» . Non al suo elettorato, però, che non va demonizzato: «Se vogliono portarmi a dire che la maggioranza degli operai che ha votato il Carroccio è razzista, allora non ci sto: il Pd intende farsi capire dal cosiddetto popolo del Nord» . Messaggio metabolizzato da Vendola, che ripone le armi («Sono felice che Pier Luigi abbia chiarito» ), non rinuncia però alla stoccata («Eravamo in tanti a non aver capito il senso della proposta alla Lega...» ) e rilancia il ruolo di Sel nella coalizione («Non si vince con il Centro ma con le idee di sinistra» ). Non semplice, per il leader pd, neanche l’approccio al fortino leghista, assediato da scelte decisive per la causa padana. Al Senatùr, il leader pd chiede «di tirare le somme fino in fondo» , gli rinfaccia di aver governato in questi anni «da Roma, non da Gemonio» e di aver fallito su tutta la linea: «Non basterà mettere Berlusconi sul lettino dello psicanalista o aprire discussioni surreali sui ministeri: va fatto un discorso onesto al Paese» . A partire dai conti pubblici, sui quali il leader pd vede nero e chiede un’operazione verità in Parlamento: «Il mio pronostico è che questo governo lascerà l’Italia con il cappio al collo e saremo messi davanti ad un’alternativa del diavolo: o azzardare una rischiosa ridiscussione con l’Ue o ingoiare una ricetta recessiva» . Anche Rosy Bindi, presidente del partito, chiede ai padani «di staccare la spina per aprire una fase nuova» , avvertendo però che «non è più tempo dell’unità nazionale, ora l’unica strada sono le elezioni» . E l’europarlamentare Sergio Cofferati non esclude che «Bossi decida di lasciare anzitempo Berlusconi» . Chiusura in doppio tono per Bersani. Battagliero nell’incitare i suoi a farsi rispettare: «Ci chiedono sempre, e solo a noi, dov’è il progetto. Ma noi non siamo qui ad asciugare gli scogli, come dicono da queste parti: abbiamo progetti di riforma in materia istituzionale, elettorale, federalista, alcune idee sulla giustizia e siamo favorevoli alle liberalizzazioni quando si parla di benzina, assicurazioni o farmaci» . Autocritico e vagamente nostalgico invece quando il discorso scivola sulla questione morale: «In passato abbiamo appaltato i temi dell’etica alla giustizia, ma non può più essere così. In questi giorni mi è venuto in mente Enrico Berlinguer perché credo che senza una scossa morale e civica non si va da nessuna parte» .
Repubblica 19.6.11
Bersani: "Vendola non capisce il Senatur lo vogliamo sfidare"
"Li abbiamo fatti noi i manifesti con la spada di Alberto da Giussano in giù o Sel?"
di Goffredo De Marchis
ROMA - Pier Luigi Bersani risponde a Vendola con grande fastidio: «Non siamo aperti alla Lega. Noi la sfidiamo». Ma la vera sfida che appare oggi chiara davanti agli occhi, e non è la prima volta negli ultimi giorni, è quella tra il leader del Pd e il portavoce di Sel. Colpi bassi, botta e risposta continui. A Bersani poi non piace affatto che il governatore pugliese si prenda sempre l´ultima parola dichiarando: «Sono contento per la precisazione di Bersani». «È la terza volta che fa questo giochetto...», commentava ieri a Genova il segretario demoratico.
A Vendola che su Repubblica lo invitava ieri a non cadere nella trappola di una «Lega razzista», a non corteggiare Bossi e Tremonti pur di vedere la caduta di Berlusconi, Bersani spiega gelido: «C´è chi dice che non capisce il dialogo con la Lega? Davvero non capisce. Noi siamo alternativi alla Lega. È la nostra sfida. Li abbiamo fatti noi i manifesti con la spada di Alberto da Giussano in giù o glieli ha fatti Sel?». Però ieri il leader di Sinistra e libertà all´assemblea del suo partito è tornato sul tema. Denunciando il pericolo di un assoggettamento culturale, affermando che l´unica alternativa può nascere a sinistra. Comunque, dice Vendola, «sono contento per questo chiarimento, per questa correzione che Bersani ha fatto nei confronti della Lega. Eravamo in tanti a non aver capito». Risposta altrettanto urticante, che ha fatto perdere la pazienza a Bersani. In privato, s´intende.
«Nessuna polemica», si è raccomandato con il suo entourage. Ma qualche ragionamento sì. «Noi vogliamo rubare i voti alla Lega, non fare alleanze. Ma possiamo cercare i consensi in aree del Paese dove il Carroccio è al 40 per cento dicendo a quei cittadini siete tutti razzisti? La risposta è no. Il mio obiettivo è il dialogo con gli elettori leghisti, mica con i vertici». Questi voti, secondo Bersani, può intercettarli solo o soprattutto il Partito democratico, non Sel e non Di Pietro. E se si parla di Giulio Tremonti ieri il leader del Pd ha commentato i giudizi di alcuni osservatori che considerano una vittoria del ministro il warning di Moody´s: «Non è una medaglietta. Al contrario è un giudizio severo sulla nostra mancata crescita». Ma Vendola non mollerà l´osso: «Naturalmente per noi si tratta di una sfida politica e culturale contro la Lega Nord e contro il centrodestra, contro quella cultura politica e quel blocco sociale che ha così pesantemente danneggiato il nostro Paese».
Corriere della Sera 21.6.11
Il Pd e il Carroccio si annusano ma soltanto sulla legge elettorale
di Maria Teresa Meli
ROMA — Ormai il Pd non si illude più: nonostante le minacce della vigilia, a Pontida la Lega non romperà con Silvio Berlusconi. Pier Luigi Bersani ne è arciconvinto: «Bossi detterà condizioni durissime e magari indicherà anche una tempistica. Cioè, dirà che se le richieste del Carroccio non verranno esaudite entro una determinata data loro usciranno dalla maggioranza. Ma intanto rimarranno al governo» . Questo è il succo del ragionamento che il segretario del Partito democratico va facendo alla vigilia di Pontida. A cui aggiunge una postilla: «Proprio per questo, però, noi dobbiamo sfidarli sul loro terreno: sulla riforma dello Stato, sul federalismo…» . Nella fiduciosa attesa che, prima o poi (più prima che poi), la Lega non sia in grado di reggere l’onerosa convivenza con Berlusconi. Ma, soprattutto, nella speranza di cominciare a racimolare consensi al Nord. Nessuna corrispondenza d’amorosi sensi, quindi, anche perché nella politica italiana questa non è una pratica in voga. Su un punto, però, e solo su quello, il tentativo di aggancio con il Carroccio è reale. È sulla riforma elettorale che il Pd corteggia la Lega con perseveranza e tenacia, augurandosi di ricevere un sì alla sua proposta. Dei pour parler, sempre ufficialmente negati, ci sono stati. Luciano Violante ha fatto da ufficiale di collegamento e anche Gianclaudio Bressa si è dato un gran da fare. Non che finora abbiano ottenuto risultati degni di questo nome. Anche l’ala del Carroccio filo Maroni alterna lusinghe ad arretramenti, e comunque ripete sempre che, se riforma elettorale ha da essere, al confronto deve partecipare pure il Pdl: la promessa che unisce la Lega a quel partito non può essere infranta. Ma la corte serrata del Pd continua. Anche perché, a dire il vero, questa riforma risolverebbe al Partito democratico un altro problemuccio. Con il sistema immaginato a largo del Nazareno non si spunterebbero le unghie alla Sel di Nichi Vendola: si taglierebbero di netto e di tanto. Ed è questa la banale, quanto giustificata (dal suo punto di vista, ovviamente) ragione per cui il presidente della Puglia ieri ha preso la scimitarra e ha menato fendenti contro gli amici-nemici del Partito democratico. «È chiaro— ha spiegato Vendola ai suoi— che in questo modo il Pd punta a renderci politicamente ed elettoralmente marginali, regalandoci, al massimo, un diritto di tribuna» . Ma la Sel non intende perire a colpi di riforma. E un attacco vigoroso, e doverosamente pubblicizzato su organi di stampa e televisioni, può servire a scongiurare questo pericolo. E a sollevare l'indignazione, la perplessità e, perché no (di certo non guasta), anche la rabbia, dell’anima più di sinistra del popolo del Partito democratico. Costringendo un personaggio molto amato da quella fetta di elettorato, come Rosy Bindi, ad affrettarsi a dichiarare che, no, il Pd «è e resta alternativo alla Lega» . Senza contare il fatto che mettere in agitazione l’ala sinistra del popolo del Pd può avere un’altra utilità: serve a contendere l’elettorato a Bersani quando verrà il tempo delle primarie. Perché quel tempo verrà. Forse addirittura prima dello scadere di quest’anno. E comunque non oltre i primi mesi del 2012.
l’Unità 19.6.11
Nichi Vendola all’assemblea nazionale di Sel: «Il Pd non deve avere paura della gente»
Alternative «In soffitta le vecchie appartenenze, ma basta inseguire il centro o la Lega...»
Vendola: «È uno solo il popolo della sinistra...»
Prima la lite e poi il chiarimento del leader di Sel con Bersani sull’apertura al Carroccio. Poi un discorso rivolto non solo al suo partito ma a tutta l’opposizione: «Basta coi partiti-fortezza...»
di Roberto Brunelli
No, non saranno i «sortilegi» a cambiare l’Italia. Non saranno «i partiti-fortezza», non sarà il liberismo, «che non è la medicina, ma la malattia». Certo non sarà la rincorsa ai centro, «che è un concetto astratto», né lo saranno le «incomprensibili» aperture alla Lega, che è «razzista e reazionaria». Nichi Vendola si rivolge ai delegati dell’assemblea nazionale di Sel, ieri a Roma, ma parla a tutto il centrosinistra. A cominciare «dagli amici del Pd» e dal segretario Pier Luigi Bersani, di cui dice «che non si spiega» l’apertura al Carroccio, per infine, dopo un piccolo duello consumato tramite le agenzie di stampa, aprezzarne le parole quando il segretario spiega che quella nei confronti di Bossi e delle camicie verdi «è una sfida».
Alle spalle di Vendola c’è il successo delle amministrative, c’è «lo tsunami del referendum», c’è la convinzione che quella del cambiamento stia diventando «un’onda anomala». Ma anche questo non basta. In fondo la sfida che il governatore della Puglia lancia dal Centro congressi dei Frentani è molto semplice: l’Italia potrà cambiare solo se tutti i protagonisti in campo sapranno guardare oltre i confini delle «vecchie appartenenze». Se la sinistra saprà finalmente mettere in soffitta la sua tendenza al minoritarismo, se ci si saprà connettere ai movimenti come quelli che hanno portato al trionfo dei referendum, sapendo che arricchiranno il lavoro dei partiti e non viceversa, se si sapranno mettere in piedi dei forum un po’ sul modello dei comitati Prodi, come propone qualcuno dei delegati per quella che lui chiama la «costruzione collettiva del cambiamento».
Quella che propone Vendola è la «fabbrica della speranza» contro la «fabbrica della paura» di una maggioranza di destra che è «sulla via della decomposizione», con la crisi del berlusconismo che «precipiterà in maniera imprevedibile». Cerca sempre nuove parole, il governatore, mentre parla al suo partito quasi un po’ stordito dopo una discussione che innanzitutto metteva in crisi il concetto stesso della forma-partito ma parla forse soprattutto al Pd, convinto che il Partito democratico «esce rafforzato dalle primarie» e non viceversa. E parla anche ai Verdi e all’Idv, certo che esista «un solo popolo di centrosinistra». Ripete: «Non dobbiamo avere paura della nostra gente. Il popolo di centrosinistra è ancora più grande e unito se facciamo confluire nella costruzione dell’alternativa le competenze scese in campo contro il berlusconismo»: quelle dei precari, quelle degli studenti saliti sui tetti delle università, e poi le donne, i comitati per l’acqua e contro il nucleare, i lavoratori di Pomiliano e Mirafiori, gli operai della Fiom...
Non solo Milano e Napoli. Il capo di Sel parla del caso Zedda a Cagliari, «dove il centrosinistra non aveva saputo difendere l’esperienza di governo di Renato Soru», ma dove poi si è imposto un modo di far politica «flessibile e spiazzante», con la conseguenza che «mai così tanti moderati avessero votato per un candidato di Sel». Leaderismo, personalismo, populismo: Vendola risponde alle critiche più frequenti. È per questo che il governatore della Puglia, alla fine, dice che «arriverà il momento di togliere il proprio nome dal simbolo di Sel». E non sarà un sortilegio, questo. È un modo per dire: «Indietro non si torna».
l’Unità 19.6.11
Sul palco Fiom ovazione per Rosy, Nichi e Antonio
«Qui ci sono Antonio Di Pietro, Nichi Vendola e Rosi Bindi, vi presento il nuovo fronte unito della sinistra». È così che Lucia Annunziata, chiamata a moderare il dibattito alla festa della Fiom, ha introdotto i tre leader del centrosinistra in piazza a Bologna. Un annuncio accolto da un’ovazione. E non a caso Di Pietro sceglie questa piazza e questo dibattito su «politica e rappresentanza del lavoro» in occasione dei 110 anni della Fiom, per rilanciare la sua «svolta propositiva» per costruire «assieme a Bersani e Vendola» l'alternativa a Berlusconi. E dice: «Lavoro, diritti, democrazia e rappresentanza sindacale saranno al centro del programma del governo dell'alternativa che vogliamo fare, così come lo sarà il tema del superamento della precarietà». Di fronte ad un pubblico affollatissimo, ci sono anche Massimo Rossi della Federazione della sinistra e il segretario Fiom Maurizio Landini.
In mattinata c'erano state scintille tra i leader di Sel e Pd sull'apertura alla Lega di Bersani. Sul tema è tornata anche Rosy Bindi: «Non c'è nessuna richiesta di accordo con Bossi, rispetto alla Lega noi restiamo alternativi», ha detto. E Vendola si è detto «soddisfatto» del chiarimento.
Sui temi del lavoro, da Di Pietro arriva un riconoscimento senza riserve alla Fiom «che ha dovuto farsi carico anche di coloro che non potevano parlare» perchè Cisl e Uil «hanno preferito accontentarsi del tozzo di pane offerto dalla Fiat e dal Governo», dice. Poi sposa il modello tedesco «che conviene anche alle imprese», propone «4 grandi aree contrattuali con diritti di base comuni» e «un unico contratto di apprendistato» per superare la precarietà. Vendola è per le elezioni dei delegati e i referendum sugli accordi «perchè i lavoratori devono poter contare». Poi rilancia «i diritti, il valore e la dignità del lavoro» occultati dalla Fiat di Marchionne «che fa l’alleanza con Chrysler per produrre ed esportare in Italia i suv americani». CLA.VI
il Riformista 19.6.11
Vendola sfida il Pd: «Mai con Tremonti»
Movimentismi. Il leader di Sel corteggia il popo- lo del referendum e punzecchia i democratici: «Cri- tichiamo il berlusconismo e salviamo il ministro dell’Economia?». E sul Carroccio: «Razzisti».
di Francesco Persili
qui
http://www.scribd.com/doc/58218715
c’è nesso? certo la direzione di Concita di Gregorio ha coinciso con la apertura di ampi e frequenti spazi di tribuna e di credibilità che il giornale fondato da Antonio Gramsci ha spesso dato in tutta questa fase a Nichi “gesùcristo” Vendola. Prima non era mai accaduto che l’Unità lo facesse con quell’area. Questo può essere accaduto con il sostegno silente degli altri cattolici come Vendola - Veltroni e Fioroni ecc. - nel Pd, il credito dei quali in questa fase di rafforzamento di Bersani nel partito è molto poco? Possono costoro aver tentato di insidiare la direzione di Bersani proprio utilizzando il burattino pugliese? Certo i legami di De Gregorio con l’area veltroniana erano noti...
Segnaliamo anche, qui diu seguito, il video dell’intervento di Marco Bellocchio
l’Unità 19.6.11
Comunicato congiunto dell'editore e del Direttore de l'Unità
http://www.unita.it/italia/comunicato-congiunto-dell-editore-br-e-del-direttore-de-i-l-unita-i-1.305605
l’Unità 19.6.11
La verità e il fango
di Concita De Gregorio
http://concita.blog.unita.it/la-verita-e-il-fango-1.305341
La Stampa 19.6.11
Due milioni di persone, e ottimo share su Current
Santoro esulta: rete zero funziona
«Tra un milione e mezzo e due milioni di persone», grazie ancora una volta alla rete zero che ingloba web, tv locali e satellitari: è il pubblico multipiattaforma che ieri sera - secondo le stime di Michele Santoro ha seguito lo spettacolo «Tutti in piedi: entra il lavoro», organizzato dal giornalista a Bologna nell’ambito della festa per i 110 anni della Fiom. «Bisognerà aspettare qualche giorno: è difficile ricostruire la mappatura dell’ascolto della serata di ieri», premette Santoro, convinto però che si tratti di «un risultato straordinario. Gli indizi ci sono tutti per pensare che la multipiattaforma è uno strumento vincente anche sotto il profilo degli ascolti. Esiste una rete zero, una non rete che compone un mosaico di diverse fonti di informazione con un numero importante di spettatori. Dal punto di vista sentimentale, poi, è stata un’esperienza straordinaria vedersi di fronte un esercito di giovani». Buoni gli ascolti di Current, che ha registrato l’1,46% di share e oltre 255 mila telespettatori medi al minuto. Tra le 21,15 e l’1 di notte il canale è stato il più visto della piattaforma Sky. Lo share sale al 3,15% sul target giovani 20-24 e sulla piattaforma Sky raggiunge il 16,1%, con il picco sull’area intrattenimento (di cui Current fa parte) del 35,7%. Quasi 700 mila i contatti netti, oltre 4 volte la media del canale. Su Twitter «Tutti in piedi» lanciato dal profilo ufficiale CurrentItalia è stato il top trend topic per tutta la serata.
il Fatto 19.6.11
Due milioni, tutti in piedi
Durante la diretta la Rai, Mediaset e La7 hanno perso 9 punti di share rispetto a venerdì scorso. Record per Current
di Carlo Tecce
Tutti in piedi nel parco di villa Angeletti o incapsulanti davanti al maxischermo di via Indipendenza a Bologna oppure seduti a casa con televisioni e computer accesi. Tutti: sono due milioni di persone. Che guardano un evento diverso per chiedere un televisione diversa, che Roberto Benigni riassume in tre parole: “L'Italia s'è desta”, e dunque Signori, entra il lavoro per i 110 anni del sindacato Fiom. Due milioni che si vedono e si ramificano in molteplici direzioni: trentamila dal vivo, centinaia di migliaia dai vari siti, più di un milione dai canali digitali, satellitari, locali. Tanti fili per una rete: “Un mosaico di più fonti d'informazione – dice Michele San-toro - con un numero importante di spettatori. Una multi-piattaforma che, secondo gli indizi, è uno strumento vincente anche per l'ascolto”. Il pubblico che arriva con percorsi non convenzionali ferisce la televisione generalista : le sei reti di Rai e Mediaset più La7, rispetto a sette giorni prima, perdono 9 punti di share durante la diretta di villa Angeletti.
I TRANSFUGHI vanno ritrovati nel gruppo di emittenti regionali, nei siti dei giornali nazionali e dei movimenti, nei dati di Rainews (150 mi-la persone in differita di un’ ora e mezza) e di Current. La fascia di giovani dai 20 ai 24 anni ha premiato la rete di Al Gore, che resiste con un avviso di sfratto di Rupert Murdoch con scadenza tra un mese: 253 mila persone (e picchi di 702 mila) hanno visto Tutti in piedi su Current, regalandole la prima piazza col 16 per cento di share tra il pubblico di Sky. Quasi un milione di italiani hanno seguito la satira di Vauro e le canzoni dei Subsonica attraverso la schiera di televisioni locali. Ma soltanto una piccola parte viene rintracciata con le rilevazione Auditel: 155mila Telenorba, 133 mila Telelombardia, 132 Rtv 38, 34 mila Antenna Sicilia. Anche internet è l'azionista di riferimento di Bologna: 85 mila utenti in media su Repubblica.it , 50 mila sul Fat toquotidiano.it e 50 mila contatti su Corriere.it .
Tutti in piedi non ha un editore né un canale certo, una sigla e neppure un direttore, nessuna circolare di viale Mazzini e nessun timbro per la scaletta eppure un evento gratuito è costato quanto ha incassato: stessa cifra in entrata e in uscita, circa 150 mila euro. La sottoscrizione spontanea di 2,5 euro con un accredito postale o una telefonata ha raggiunto 40 mila euro, le 4 pubblicità vendute ne hanno fruttati circa 120 mila: e dunque le quasi 4 ore di diretta, fra musica, lavoro, giustizia e sindacato, pareggiano i conti (anche perchè tutti i partecipanti erano “gratis”).
L’ESPERIMENTO di Bologna spiega come sia possibile la televisione economicamente sostenibile e libera per definizione. Nei giorni di complesse indiscrezioni sull’imminente passaggio di San-toro a La7, nonostante il sondaggio di piazza in villa Angeletti (“Alzi la mano chi vuole ancora Annozero in Rai”), ecco una nuova e affascinante soluzione: la televisione senza editori né padroni, pubblici o privati che siano; facce mai viste nei telegiornali di Augusto Minzolini (Tg1) e Clemente Mimun (Tg5); spettatori che cercano l’evento e scelgono come vederlo. Serena Dandini, conduttrice d’eccezione con Vauro, a Bologna indossava una maglia con scritta rossa: “Orgoglio Rai”. Nessuno ieri ha replicato a migliaia di mani alzati che invocavano il ritorno di Annozero su Raidue. Adesso che viale Mazzini ha buttato nel cestino una trasmissione che lascia in eredità 20 milioni di euro di pubblicità in 5 anni, Paolo Ruffini (direttore di Raitre) chiede di pensarci bene prima di tagliare pure Vieni via con me di Fabio Fazio e Roberto Saviano: “Fatevi sentire, abbiamo bisogno anche della vostra voce. Sull'impegno di Rai3 potete contarci”. Cose da Rai: un direttore di rete, consapevole dell’indifferenza dei suoi dirigenti, è costretto a rivolgersi al pubblico per salvare Vieni via con me, una trasmissione che vale 10 milioni di persone. Ecco perché Bologna ha scritto due tempi del vero servizio pubblico: Raiperunanotte era contro la censura di viale Mazzini, Tutti in piedi è oltre.
Repubblica 19.6.11
La regista Cristina Comencini: dopo il milione in piazza di febbraio, il 9 e 10 luglio gli Stati generali della condizione femminile
Tornano le donne di "Se non ora quando?" "L´Italia si è svegliata, la politica ci ascolti"
C´è stata una gigantesca mobilitazione popolare che ha influenzato le elezioni. Ora mettiamo al centro il lavoro
di Silvia Fumarola
ROMA - «Facciamo dell´Italia un paese per donne»: più che uno slogan, un impegno. La regista Cristina Comencini racconta con passione la nuova iniziativa del movimento "Se non ora quando?" che porterà a Siena il 9 e il 10 luglio donne di tutta Italia per confrontarsi sul cammino fatto. Gli stati generali della condizione femminile, raccontata da donne del Sud e del Nord, di sinistra e di destra: tutte. «Tutte invitate» spiega la Comencini «a raccontare cos´è cambiato. È stato un anno intenso, e di cambiamenti importanti: lo dimostrano i risultati delle ultime elezioni e del referendum. È come se un´onda dal profondo avesse smosso il Paese. E non c´è dubbio che a questo risveglio abbiano contribuito gli studenti e le donne».
Signora Comencini, parla di "risveglio" ma le donne non hanno fatto grandi passi avanti.
«L´associazione è nata un anno fa per iniziativa di un gruppo di donne, per capire cosa fosse accaduto in Italia. L´Istat racconta che facciamo ancora una fatica mostruosa e siamo rimaste indietro, nel 2011 la condizione femminile è tornata al centro dell´interesse. Anche gli uomini si sono stancati di vedere rappresentate le donne solo come corpi: è stato il primo passo».
Avete intercettato il malessere e la voglia di condividere un percorso comune: immaginava che il movimento sarebbe cresciuto così?
«No, ma l´onda è cresciuta subito. Nessuno aveva il coraggio di esprimersi, come se il sentimento politico fosse ancora vivo, ma nessuno lo manifestava. Il tam tam è partito sul web, il 13 febbraio è stata una data storica: un milione di persone in piazza, l´Italia mobilitata. La nostra intuizione, partita con lo spettacolo "Libere" era giusta. Sono convinta che quest´onda gigantesca abbia influenzato anche le elezioni».
Avete mai pensato di diventare un movimento politico?
«No. Ma il modo in cui è avvenuta l´adesione indica che c´era voglia di cambiamento. La società civile chiede che nasca la politica delle persone non dell´antagonismo, l´Italia vuole vivere meglio. Si sono mossi gli studenti e le donne, il risveglio ha coinvolto tutti. La politica deve lasciarsi contaminare, sarebbe un suicidio non ascoltare queste nuove voci. Il 13 febbraio ha preso vita una mobilitazione popolare; tra i politici c´era chi l´auspicava e chi la temeva. Nella politica delle donne vanno coinvolti anche gli uomini, è una battaglia che si fa insieme».
A Siena cosa succederà?
«Il 9 e 10 luglio ci riuniremo nel Complesso di santa Maria della Scala, ringrazio il sindaco e la direttrice del museo che ci hanno messo a disposizione la città e la struttura. "Se non ora quando?" si pone un´altra domanda: e adesso? Continuiamo a lavorare. L´Italia non è un paese per donne, vogliamo che lo diventi. Gli ultimi dati Istat dicono che il tasso di occupazione femminile è sceso, che le donne abbandonano il lavoro, non possono permettersi di diventare madri. Un quadro che non è da paese moderno, l´Italia non dà nulla alle donne: va rimesso al centro il lavoro femminile».
Ha girato l´Italia: che idea si è fatta?
«Mia sorella Francesca ha raccolto le storie, abbiamo visto donne di tutte le età e condizione, tante le avevamo contattate per e-mail: sono diverse e simili nella consapevolezza di sentirsi escluse. Chi si è reso conto che le donne sono una ricchezza per l´Italia è il presidente della Repubblica Napolitano. Le donne sono lavoratrici efficienti, hanno un potenziale enorme. La forza del nostro movimento è la trasversalità - si è visto dalla piazza - siamo unite perché contano i principi».
il Fatto 19.6.11
Sei meno e così va il mondo
di Furio Colombo
La prima parola del titolo che vedete qui sopra è un verbo. Tu sei meno. Vuol dire che mentre studiavi o lavoravi, e – alcuni più di altri – davi il meglio di te stesso per essere pronto o per essere all'altezza o per essere più bravo, avveniva uno strano fenomeno di cui manca la spiegazione: tutto diventava più piccolo. Il tuo valore, il tuo peso, l'utilità di ciò che sai fare, la paga, il desiderio o la necessità di averti in un certo posto o mansione. “Dobbiamo rispondere alle sfide di un mondo globalizzato”, ti dicono. Il mondo globalizzato chiede sempre un'altra cosa, che non è quella che le persone, per l'esperienza fatta o il corso di studi e di specializzazione, sono in grado di offrire. Come nella messa in scena di un testo o di una partitura soggetti a diverse interpretazioni, c'è da aspettarsi una serie abbastanza vasta di alternative.
A VOLTE LE SPIEGAZIONI sono costernate e gentili, si attengono al criterio della dura necessità che ha cambiato le carte in tavola. A volte esplode, franco, e persino innocente, il disprezzo, come è accaduto al ministro Brunetta in un convegno a cui erano presenti molti precari della “funzione pubblica” (una volta si diceva “statali”, definizione meno elegante ma molto più solida). Ha detto Brunetta ai precari: “Siete l'Italia peggiore”. Brutta frase, che – come sempre il lapsus – ha una parte di vero. C'è qualcosa di peggio del lavorare su un piede solo, senza sapere se e quando si potrà appoggiare l'altro? Ma esistono molti percorsi verso la fine o il discredito del lavoro, che sono sorprendenti e imprevisti, oppure sono delle vere rivelazioni. Per esempio, esplode l'azienda modello e si rivela un vermaio, come è accaduto a Parmalat. Oppure l'azienda resta modello ma vende i lavoratori insieme con il prodotto, come è accaduto alla Vodafone. Oppure si vende la stessa azienda, mentre funziona e va bene ed è carica di contratti, Con una serie di passaggi di proprietà fino a quando si sperde il filo. L'azienda c’è ma non sai di chi, e se non paga non sai più (né gli interessati né il giudice) a chi rivolgerti. Poi c’è la Fincantieri che “dismette” parti di possenti officine famose nel mondo, per un totale di 2500 operai e ingegneri, con la modesta motivazione: in un mondo insicuro c’è poca richiesta di navi, fingendo di non sapere che non esiste alternativa tecnologica, e che il mondo insicuro continuerà per forza ad andare per mare. Se ti fermi a pensarci un momento, ti rendi conto che una formula per definire il mondo in cui viviamo è la seguente: meno paga per chi lavora, meno fondi per chi produce, meno lavoro per chi lo chiede, meno sanità per gli ammalati, meno scuola per i più giovani, meno ricerca per i più preparati, meno risorse per gli Stati al punto da minacciare la bancarotta di interi Paesi. C'è una contraddizione: il mondo resta ricchissimo. Anzi, non è mai stato tanto ricco. Quello che conta è portare via i soldi, subito e tanti. La visione non sarà la stessa che sta pesantemente cambiando la concezione della vita e della convivenza nel mondo? I nuovo protagonisti sono piccoli e grandi Madoff, non quanto a tecnica, ma quanto a “filosofia”. Però che cosa sappiamo delle autorità monetarie e finanziarie del mondo che tutelano costantemente le ricchezze accumulate, spostando tutto il peso sulla massa di coloro che lavorano sempre di più e guadagnano sempre di meno in nome di non si sa quale penuria? Un giovane ingegnere appena assunto in Italia (dunque un miracolato) mi ha raccontato il colloquio con il manager delle risorse umane: “L'orario è di otto ore, come dice il contratto. Ma noi ci aspettiamo una presenza lavorativa di undici ore”. Racconta il felice neo assunto che nessuno, in quella impresa, resta sul posto meno di undici ore, e che la gara è lavorare di più per una paga minore. Eppure non sanno se stanno lavorando per il comune futuro di impresa e dipendenti o per un accumulo di ricchezza, a metà strada fra la siccità che si espande e l'abbondanza di paradisi terrestri, che sono altrove e non sono soggetti ai tagli. Sul New York Times del 13 giugno Paul Krugman, giornalista brillante e Nobel per l'economia, ha scritto con sarcasmo che esiste, da qualche parte, nel mondo dei grandi regolatori della finanza internazionale, un “Pain Caucus” o Comitato della Sofferenza.
DECIDE DI VOLTA in volta dove cadrà il taglio, e come rendere più aspra la vita dei cittadini. “Sono molto fantasiosi i membri di questo comitato della sofferenza – sostiene Krugman – E trovano sempre un modo nuovo per infierire. Però una cosa è certa: si impegnano a tener fuori da preoccupazioni e fastidi la grande rendita”. In altre parole, Krugman propone una chiave di lettura: non c'è siccità di risorse. C'è una parte del mondo che mette al riparo enormi ricchezze, e autorità finanziarie e monetarie che ne proteggono il percorso imponendo politiche così dure sugli individui che lavorano, che possono abbattere un intero Paese (vedi la Grecia, che tutti ormai ci siamo abituati a considerare una pericolosa fuori legge). Se qualcuno dei lettori vorrà raccontare questa battuta di Krugman, ricordi che l'estroso commentatore del New York Times non frequenta i Centri sociali. Ha la cattedra di Economia all'Universita'di Princeton, Stati Uniti.
Repubblica 19.6.11
La politica dei respingimenti
di Adriano Prosperi
Ci sono tanti luoghi ai quali l´osservatore delle cose italiane dovrebbe guardare in questi giorni: Milano e Napoli, per esempio, ma anche le piazze finanziarie e le capitali europee dove si affrontano i problemi del debito italiano e si dettano le regole che dovranno governare la nostra economia. Ma il luogo sul quale oggi si concentra l´attenzione dell´informazione politica è un piccolo comune in provincia di Bergamo con un nome che risvegliava un tempo solo gli echi scolastici di una brutta poesia di Guglielmo Berchet: Pontida.
È dal raduno annuale della Lega, con elmi e spadoni di un Medioevo di carta, che si attende una risposta importante. Intanto i gruppi dirigenti dei partiti, ben lungi dal seguire il saggio consiglio del Presidente Napolitano di cercare di «ritrovarsi uniti su grandi obiettivi comuni», sembrano uniti solo nello star fermi - uno spasmodico "surplace" in attesa che sia l´altro a fare la prima mossa. Così si è creata una speciale atmosfera di attesa della parola del Bossi: già, perché a parlare sarà solo lui. Alla sua parola il compito di ricreare quell´unione mistica tra il capo e un popolo che - a detta dei dirigenti della Lega - ha pur dato di recente ai suoi capi una sberla clamorosa. Dal verbo di Pontida è dunque lecito attendersi un segnale di svolta. Intanto qualcosa di nuovo c´è pur stato: di nuovo, anzi d´antico. Parliamo delle misure recenti prese a caldo dal ministro Maroni, l´uomo forte della Lega, il vero candidato a gestire un possibile governo di fine legislatura col benestare dell´azzoppato Berlusconi. Recano il suo sigillo personale. Un decreto fulminato a tambur battente ha triplicato d´un sol colpo, da sei mesi a diciotto, il periodo di detenzione dei clandestini nei Cie e ha introdotto una durissima procedura per i "respingimenti".
Torneremo su questa parola. Ma intanto segnaliamo anche la proposta del ministro per la politica internazionale: in una intervista del 17 giugno Maroni ha chiesto che la Nato schieri le sue navi davanti alle coste libiche per impedire la partenza di profughi. Non sembra molto realistico agitare lo spettro dell´invasione di masse libiche in un paese dove alla data del 17 maggio scorso secondo l´alto commissario Onu per i rifugiati erano arrivate dalla Libia circa 14.000 persone in tutto. Quanto al decreto contro gli immigrati, si tratta di una misura di una durezza terrificante ma del tutto irrealistica. Intanto è basata su premesse false. Non è vero, come ha dichiarato il ministro dell´Interno, che il decreto è «coerente con le norme dell´Unione europea»: la direttiva europea sui rimpatri chiedeva gradualità nel percorso di rimpatrio dell´immigrato irregolare. Invece il decreto impone una espulsione immediata e colpisce chi non ottempera al primo ordine di espulsione con la galera da uno a quattro anni (da uno a cinque per i recidivi). Senza contare le sanzioni in danaro: l´immigrato irregolare dovrebbe pagare da tremila a diciottomila euro.
Pura irrealtà per l´economia degli immigrati: ma anche per il ministro. Lo dimostra il fatto che tutta la procedura dovrebbe passare attraverso il giudice di pace. Secondo l´avvocato Livio Cancelliere dell´Asgi (associazione studi giuridici sulle immigrazioni) nessun giudice di pace applicherà mai queste sanzioni. Dunque, si tratta solo di propaganda pre-Pontida.
Ma proviamo a leggere queste norme con lo sguardo dei disperati: quella parola "respingimento" è una bestemmia, come hanno ben compreso per primi molti commentatori del mondo cattolico, concordi nel condannarlo senza esitazione. È la cancellazione brutale di una tradizione antichissima ancora viva nelle nostre culture, quella che vedeva nell´esule, nel supplice una figura sacra agli dèi. Oggi "respingimento" significa essere ributtati nell´inferno senza che nessuno ti chieda se sei un perseguitato politico o religioso o se lo diventerai una volta respinto. Intanto, gli "irregolari" chiusi nei Cie penseranno a quel che li aspetta là dove saranno rimandati. Conosciamo i loro pensieri: saranno come quelli di Nabruka Mimuni, l´immigrata quarantenne da trent´anni in Italia (ma non italiana per la legge) che circa due anni fa si uccise impiccandosi nel Cie di Ponte Galeria a Roma.
Dunque, niente di più vecchio di queste novità: è ancora l´antica politica della paura. Colpire l´immigrazione, trattare il clandestino come un delinquente, vuol dire riproporre al Paese la ricetta usata finora per farne salire la febbre xenofoba. Per un po´ questa ricetta ha funzionato. Ma la massa di cittadini che ha riempito le piazze e si è messa ordinatamente in fila davanti ai seggi del referendum ha mandato un segno molto chiaro: le cose sono cambiate, il Paese sta guarendo. Ci vogliono paraocchi speciali per non vederlo. Le risposte plebiscitarie alle quattro domande hanno inviato ai governanti una richiesta di diritti e di solidarietà, contro l´appropriazione privatistica dei beni comuni, contro l´impunità per i potenti, contro scelte che mettono a rischio l´ambiente e il futuro delle giovani generazioni. E anche questo è stato, a suo modo, un "respingimento".
Corriere della Sera 19.6.11
Clandestini: le opposte propagande su un decreto
di Michele Ainis
Un decreto fantasma naviga nei mari italiani. Giovedì scorso il Consiglio dei ministri lo ha approvato «salvo intese» : significa che non c'è ancora un testo da sottoporre alla firma di Napolitano. Ma un testo circola comunque, circola un comunicato ufficiale del governo, e di conseguenza s’infiamma la polemica tra maggioranza e opposizione. Perché la materia è fin troppo rovente: le politiche verso gli immigrati. E perché oggi cade il raduno di Pontida, dove c’è bisogno d’uno scalpo da esibire per trofeo.
Da qui le parole trionfanti di Maroni: abbiamo ripristinato le espulsioni. Da qui le contumelie dei suoi avversari in Parlamento: vergogna, tenete la gente in galera per 18 mesi senza uno straccio di processo. Ma hanno torto, gli uni e gli altri. E allora, per riconciliare i fatti e le parole, proviamo a fare un po’ di storia. Ne verrà fuori l’immagine di un Paese che fa un passo avanti e l’altro indietro, però ci siamo abituati. La legge Turco-Napolitano del 1998 — pur inasprendo i controlli contro l’immigrazione clandestina — garantiva agli stranieri «i diritti fondamentali della persona umana» . Nel 2002 la legge Bossi-Fini opera un giro di vite, specie in tema d’ingresso, di soggiorno, di lavoro. Nel 2004 la Consulta ne demolisce le norme più liberticide. Nel 2008 il governo Berlusconi vara il primo pacchetto sicurezza, che introduce l’aggravante della clandestinità, castigando con una pena accresciuta fino a un terzo i reati commessi dagli immigrati irregolari. Nel 2009 il secondo pacchetto sicurezza aggiunge il reato di clandestinità. Nel 2010 la Consulta fa saltare l’aggravante, perché trasformava i reati dei clandestini in altrettanti delitti d’autore, puniti per la personalità del reo, non per la gravità del fatto. Infine nell’aprile 2011 una sentenza della Corte di giustizia dell’Unione Europea boccia anche il reato, o meglio boccia la pena detentiva (da 6 mesi a 4 anni) che vi s’accompagnava. Per forza: se il reato serve a rendere effettivo l’allontanamento degli immigrati irregolari, è dura riuscirci tenendoli in prigione. Da qui quest’ultimo decreto. Che tuttavia non è affatto un esercizio muscolare, un emblema del cattivismo di governo, come lo raccontano le opposte propagande. In primo luogo perché è un atto dovuto: serve a rispettare due direttive europee, scongiurando una procedura d’infrazione. In secondo luogo perché non incrudelisce affatto la disciplina preesistente: semmai la mitiga, la attenua. Anche verso i cittadini comunitari, sopprimendo l’obbligo del visto d’ingresso per i soggiorni fino a 3 mesi; semplificando i ricongiungimenti familiari; proibendo verifiche sistematiche (anziché caso per caso) dei loro precedenti penali; ancorando a condizioni tassative l’allontanamento dal territorio dello Stato. E gli extracomunitari? In alcuni passaggi questo decreto s’arma di compassione (chi l’avrebbe detto?), come quando promette modalità speciali per l’espulsione dei disabili, degli anziani, dei minori. Poi, certo, mantiene in vita il reato di clandestinità, che d’altronde l’anno scorso era uscito indenne dalla mannaia della Consulta; ma sostituendo alla galera una pena pecuniaria, e non è un dettaglio irrilevante. Rimane il punto critico dei centri di identificazione ed espulsione: prima i clandestini potevano esservi reclusi per 6 mesi al massimo, adesso per 18 mesi. Però, attenzione: anche questo limite è ammesso dall’Europa. Inoltre il loro uso viene consentito in casi eccezionali (altrimenti basterà sequestrare il passaporto); per periodi di 60 giorni, sia pure prorogabili; e sempre con la convalida del giudice di pace. Si poteva fare meglio, ma in passato abbiamo fatto peggio. C’è allora una lezione che ci impartisce quest’ultima vicenda. La politica dei fatti ormai abita in Europa; sicché ai politici italiani non resta che una ghirlanda di parole. Ma sono parole menzognere, una truffa delle etichette, per così dire: ci vendono una bottiglia d’acqua minerale, dopo averci incollato sopra l’etichetta del Barolo. Pazienza, vorrà dire che con questi politici non corriamo il rischio d’ubriacarci.
l’Unità 19.6.11
La giornata del rifugiato domani a Roma diventa una grande festa
Si immagini ora un uomo a cui, insieme con le persone amate, vengano tolti la sua casa, le sue abitudini, i suoi abiti, tutto infine” (Primo Levi). Ed è proprio ciò a cui dobbiamo pensare per avere un’idea chiara delle persone che fuggono dal paese di origine. Si tratta di rifugiati, anche se questo termine fa riferimento a una condizione giuridica, a quella di chi ha già ottenuto protezione da uno stato. Ma c’è anche chi quella protezione ancora non ce l’ha e viene chiamato in altri modi: richiedente asilo o profugo. In Italia, qualunque sia la denominazione, si riscontra però un aspetto comune: la criticità delle condizioni in cui quelle persone vivono. La maggior parte di loro è costretta in una fascia che, nel linguaggio delle politiche sociali, si dice marginale e vulnerabile. Ogni anno, dal 2000, il 20 giugno si celebra la Giornata Mondiale del Rifugiato, in origine solo Africana, per non dimenticare quanti vivono in una dimensione di fuga. E il 20 giugno di quest’anno, a Roma, le associazioni Medici per i Diritti Umani e A Buon Diritto e il gruppo Campagna Welcome, dedicheranno la loro attenzione in particolar modo alla situazione di degrado in cui vive un gruppo consistente di Afghani nei pressi della Stazione Ostiense. Il titolo dell’evento è “Un ponte per l’accoglienza” e rimanda alla necessità, evidenziata dagli organizzatori, di contribuire alla soluzione di un annoso problema legato alla carenza di strutture per l’ospitalità di persone “in transito”. Speriamo non risulti vano. Appuntamento: ore 18.30 piazzale 12 ottobre 1492, Roma. Artisti: Paolo Rossi, Tetes de Bois, Acustimantico, Francesco Di Giacomo, Giusi Zaccagnini, Valerio Vigliar, Gretadieu, Bucho, Luna Whibbe e altri. Evento gratuito..
Corriere della Sera 19.6.11
I comunisti di mercato
di Ernesto Galli della Loggia
O ra è chiaro qual è stato il vero errore che fin dall’inizio ha delegittimato agli occhi dell’opinione pubblica mondiale il comunismo sovietico e il suo sistema, provocandone alla fine il crollo. Non è stato aver messo in piedi un regime spietato di illibertà e di dispotismo. No: è stato aver creduto davvero che nel mondo ci fosse spazio per qualcosa di diverso dal capitalismo. Se l’Urss, infatti, avesse mantenuto i gulag e il Kgb ma lasciato perdere l’abolizione della proprietà privata, il socialismo e tutto il resto, si può essere sicuri che a quest’ora la bandiera rossa sventolerebbe ancora sul Cremlino. E in questa parte del mondo tutti sarebbero felici e contenti. Così come— per l’appunto — tutti sono felici e contenti in Occidente, e perlopiù nessuno ha niente da ridire, quando oggi si nomina la Cina. Il cui partito comunista, da sessant’anni al potere, s’appresta a celebrare in gran pompa, fra pochi giorni, il 90 ° anniversario della sua fondazione. Peccato che alla letizia e all’ammirazione generale non sembrino disposti ad unirsi i cinesi stessi, o almeno un buon numero di essi. Con qualche ragione, si direbbe, dal momento che assai spesso per i suoi cittadini quel grande Paese si rivela un vero e proprio inferno. Da tempo, infatti, il ritmo forsennato dello sviluppo economico, trasfigurato in un autentico feticcio ideologico da parte delle autorità comuniste, ha cominciato a produrre tensioni e crisi in misura inimmaginabile: fratture tra regioni e regioni e tra città e campagne, sfruttamento selvaggio della manodopera, migrazioni interne prive del benché minimo ammortizzatore, espulsioni forzate, persecuzioni religiose, abbruttimento sociale diffuso, degrado sanitario, corruzione, abusi e discriminazioni di ogni tipo. A tutto ciò si stanno aggiungendo, negli ultimi tempi, rivelazioni sempre più frequenti circa la spaventosa vastità dei fenomeni di distruzione ambientale, d’inquinamento del territorio e di avvelenamento delle popolazioni, frutto anch’essi di una crescita economica assurta al rango di un Moloch divoratore. Proprio pochi giorni fa, a proposito di uno di questi casi di avvelenamento da piombo, prodotto da una fabbrica di batterie priva di qualunque protezione, il New York Times ha scritto che l’analisi per il 2006 dei dati esistenti fa pensare che almeno un terzo (un terzo!) di tutti i bambini cinesi soffra di un’elevata presenza di piombo nel sangue (con relativi possibili danni gravi al cervello, ai reni, al fegato: fino alla morte). Una percentuale, osserva giustamente il giornale, che in qualunque altro Paese sarebbe considerata una vera «emergenza sanitaria nazionale» . Ma non in Cina. Qui la risposta del regime comunista a tutte le crisi e a tutte le proteste continua ad essere sempre e innanzitutto una sola: repressione durissima, brutalità poliziesche, anni di carcere e di lager. E naturalmente la censura più rigorosa. Non per nulla l’iscrizione al Pcc comporta tuttora che si giuri di «non rivelare i segreti del partito» . Tra i quali, naturalmente, c’è da annoverare in special modo, oltre che i diffusissimi casi di corruzione dei capi, la situazione del Tibet e delle regioni con popolazione musulmana, ancora e sempre in stato di perenne, latente rivolta.
Questa è la Cina. Certo, in termini produttivi un colosso: la seconda economia mondiale, riserve monetarie pari a circa 3 mila miliardi di dollari, da anni un ritmo di crescita impressionante, con molti ricchi nelle grandi città (le sole che in genere gli occidentali conoscono), ma con un numero ben superiore di persone, altrove e in particolare nelle sterminate campagne, sottoposte a privazioni e angherie terribili. Le quali sfociano sempre più spesso in aperte rivolte: quattro anni fa, scrive Andrea Pira sul Riformista, l’Accademia cinese per le scienze sociali registrò 80 mila «incidenti» del genere, 20 mila in più rispetto all’anno precedente; da allora i dati aggiornati non sono stati più resi pubblici. Un Paese con una classe dirigente politicamente incapace e immobile. Infatti, in tutti questi anni essa si è mostrata bravissima, sì, nel concedere a chi sa e a chi può di sfruttare a piacere la manodopera e le risorse del territorio per produrre ricchezza; si mostra oggi bravissima, sì, con le entrate così ottenute, ad acquistare milioni di ettari in Africa o parti crescenti dei debiti pubblici di altri Stati (ora a quel che sembra anche dell’Italia). Ma — ammesso che ne abbia davvero voglia, e c’è da dubitarne — non mostra invece di avere la minima idea di come fare a passare da un regime dittatoriale, in cui tutto il potere è concentrato nelle mani di non più di tremila persone, a un assetto capace di dare un minimo di diritti agli individui e un minimo di respiro alla società. Tutto dunque porta a credere che la Cina, dietro l’apparenza di una forza smisurata e di una fermezza di leadership, sia in realtà una costruzione quanto mai fragile. Nella quale, paradossalmente, proprio lo sviluppo economico forsennato, privo com’è di una guida politica in grado di porgli dei limiti e di indirizzarlo in modo non distruttivo, non fa che aggravare tutti i problemi. È giusto, credo, che chi qui in Italia intrattiene rapporti economici con la Cina, ed è abituato a decantarne i traguardi produttivi e finanziari, non facendo alcun caso a tutto il resto, di ciò si renda conto e ne tragga magari qualche conseguenza. Alla lunga, infatti, non basta la libertà del profitto o la diffusione dei cellulari e dei tailleur Armani a rendere una tirannide più sopportabile.
Corriere della Sera 19.6.11
La prevalenza del militante
di Gaetano Pecora
Le preferenze politiche sono come la tosse e la scarlattina: non è possibile nasconderle a lungo. Dopo un po’, bucano la carta e si offrono nude all’attenzione del lettore. Meglio, allora, rivelarle subito, specie quando c’è da attendere ad impegni scientifici: si guadagna in consapevolezza e c’è meno rischio di svisare le cose per accomodarle meglio agli umori (e ai malumori) del momento. Merito di Angelo d’Orsi è di aver chiarito immediatamente sotto quali cieli è nata L’Italia delle idee, che è una galleria delle esperienze culturali e delle teorie politiche dall’Unità ad oggi, allestita con il conforto degli insegnamenti di Antonio Gramsci (nella foto). A tanta franca schiettezza, però, non sempre è seguita una ricostruzione equanime dei fatti (che ciascuno naturalmente è libero di interpretare a suo modo); ma i fatti, i fatti nella loro testarda evidenza, vanno bene riportati per quelli che sono. Ecco: qui e là si ha l’impressione che il militante abbia sopravanzato lo storico, muovendolo a tacere realtà che non si ingranano con i suoi valori. Un esempio. Quando d’Orsi discorre degli intellettuali che, riuniti intorno a «Mondoperaio» , assecondarono la svolta riformatrice del socialismo italiano, non si trattiene dall’ingrossare la voce e ne colorisce questo ritrattino: «La sostanza del loro messaggio concerne la non compatibilità di quasi tutti i diritti sociali (anche di qualche diritto politico) con le logiche del "libero mercato"» ; come dire che «Mondoperaio» aveva ceduto al liberismo più aguzzo. Senza ricordare così che proprio sulla stessa rivista tenne banco un acceso dibattito sull’autogestione. Certo, di quei progetti oggi possiamo anche ricordarci con indulgente scetticismo. Ma ricordarcene dobbiamo. Per scrupolo di verità. Precisamente quella verità che scapita assai quando d’Orsi sale nei giri sonori dei suoi risentimenti. Peccato che sia andata così. Perché in fondo il libro si legge di buona voglia, fosse solo per la virtù dei contrasti che aiutano ad affinare le proprie acquisizioni. Che è poi, questa del contrasto, la prima verità della sapienza liberale.
Il libro: Angelo d’Orsi «L’Italia delle idee» , Bruno Mondadori, pagine 419, € 23
13 giugno 2011 Auditorium Parco della Musica di Roma
Marco Bellocchio: l’intervento alla presentazione del libro L’inizio del buio di Walter Veltroni.
Oltre a Bellocchio e all’autore sono intervenuti Gianrico Carofiglio, Ezio Mauro, Margaret Mazzantini. I loro interventi sono tutti rintraxcciabili su Youtube.