sabato 18 giugno 2011

l’Unità 18 .6.11
Rabbia dei precari 4 giorni di proteste. In collegamento con Spagna e Grecia, anche in Italia esplode la rivolta degli invisibili Manifestazione
a Montecitorio
Domani anche i precari italiani partecipano alla giornata di protesta collettiva
La rivolta di piazza andrà avanti fino al 22, giorno in cui si approva il decreto sviluppo
«Indigniamoci», in piazza la parte migliore dell’Italia
Come nel resto d’Europa, domenica 19 giugno anche l’Italia vivrà la sua giornata d’indignazione collettiva. E a proclamarla è la classe più sfruttata, tenuta ai margini della società: i precari.
di Luciana Cimino


Come nel resto d’Europa, domenica 19 giugno anche l’Italia vivrà la sua giornata d’indignazione collettiva. E a proclamarla è la classe più sfruttata, tenuta ai margini della società e da qualche giorno anche vilipesa dal governo: i precari. In connessione con quanto avverrà lo stesso giorno nelle piazze greche, spagnole e francesi che protesteranno contro la gestione della crisi economica mondiale, dalle ore 18 piazza Montecitorio a Roma e, per ora, piazza Mercanti a Milano si uniranno alla lotta promossa dai movimenti europei.
Davanti al Parlamento, dunque, si ritroveranno i lavoratori precari che si riconoscono intorno ai punti di San Precario, quelli auto organizzati della Pubblica Amministrazione, i giornalisti precari, i lavoratori e le lavoratrici dello spettacolo in protesta che proprio in settimana hanno occupato lo storico teatro Valle. «Verremo da tutta Italia in rappresentanza degli circa 150 mila precari della scuola – spiega Francesco Cori, del Coordinamento precari scuola – porteremo le tende e un camper, puntiamo ad andare avanti fino al 22». E cioè il giorno dell’approvazione del decreto sviluppo.
Contestata è la norma del decreto che in sostanza abolisce la possibilità di ricorso da parte dei precari, previsto invece dalla normativa europea. «È una cosa gravissima continua Cori in questo modo non esiste nessun principio che sancisce la fine del precariato, al contrario si stabilisce che può durare in eterno. Il decreto sviluppo attacca noi della scuola ma riguarda i precari in generale. Ma protestiamo già da oggi anche contro tutte le manovre fatte a danno le scuola pubblica». Il giorno dopo, “il clou” della protesta. «L’assemblea poi deciderà se rimanere a oltranza in piazza», dice Rafael di San Precario.
Ad acuire la tensione, poi, l’intervento del ministro Brunetta. Quel «voi siete l’Italia peggiore» all’indirizzo dei precari, pronunciato qualche giorno fa e rilanciato in maniera esponenziale dai social network, ha fatto saltare il coperchio a una pentola che ribolliva da mesi. «La nostra grande visibilità in questo momento ci consegna la responsabilità di lanciare la piazza dell’indignazione precaria. Su web e social network ci siamo ripresi un diritto di parola negato, adesso ci incontriamo per dare corpo e anima alla nostra indignazione contro la precarietà delle nostre vite». In piazza ci sarà anche Maurizia Russo Spena, la precaria dell’agenzia del Ministero del lavoro, Italia Lavoro, che con il suo intervento al convegno ha scatenato la reazione scomposta di Brunetta: «Stiamo puntando in alto. Non ci basta avere un lavoro retribuito chiediamo la dignità, l’accesso ai servizi e di partecipare. Abbiamo deciso dopo l’intervento del ministro di legarci ad alte realtà di precariato e vittime della crisi per rilanciare la protesta e parlare precarietà dell’esistenza non solo del lavoro», commenta. Ma la giornata dell’indignazione vuole essere soprattutto un messaggio di sfratto per Berlusconi, con firma dei precari. «Il 21 il Parlamento è chiamato a votare la fiducia da questo governo sfiduciato inequivocabilmente e dal basso dalla maggioranza delle cittadine e dei cittadini con il voto referendario – si legge nell’appello Proponiamo all'Italia precaria l'assedio sociale e civile del Parlamento. Perché la sfiducia che abbiamo già lungamente espresso a questo governo e alle politiche che ovunque vogliono far pagare ai molti la crisi di pochi, si imponga definitivamente».

il Fatto 18.6.11
Tagli poco istruttivi
Il ministero manda a casa 20 mila insegnanti e le scuole non potranno garantire molti servizi
di Chiara Paolin


Anche stamattina qualcuno andrà in sala professori e dirà: io sciopero. Ma saranno pochi e stanchi, perché ormai la scuola è un campo di battaglia dove le vittime cadono a decine di migliaia e nessuno riesce più a capire quale possa essere la forma di protesta più utile. In Liguria, nel Lazio, in Piemonte, i sindacati di base tengono duro e rallentano gli scrutini, ma è una lotta sempre più disperata dal momento che la prospettiva è chiara: indebolire il comparto pubblico per far risaltare sempre più le prestazioni – a pagamento – dei privati. “Abbiamo capito tutti come funziona ormai – spiega Barbara Battista, insegnante di informatica in un istituto tecnico e sindacalista Usb –. Negli ultimi tre anni sono stati eliminati 87 mi-la insegnanti - di cui 20 mila sono l’ultima tranche di cui ha parlato ieri il Fatto - e 45 mila tecnici, ma il guaio vero è un altro: nello stesso periodo ci siamo persi 68 mila posti a tempo determinato. Cioè, contrariamente a quanto sempre promesso da Gelmini e Tremonti, non si è affatto deciso di intervenire sui precari (che calano solo dell’1 per cento) ma sui ruoli stabili. Dal 2005 al 2015 avremo circa 300 mila pensionamenti: quanti di questi diventeranno nuove assunzioni? Per ora, nessuno”. Un duro colpo all’occupazione, in un settore dove lo Stato non ha mai previsto incentivi o cassa integrazione. E soprattutto un disagio che ricade dritto dritto sugli utenti. “Al Sud poi non ne parliamo, ci sarebbe da ridere se non fosse che ci vanno di mezzo i ragazzi – dice Santo Molino, preside del polo scolastico di Librino, quartiere popolare di Catania –. Noi siamo l’unico istituto della provincia che per l’anno prossimo avrà confermate le classi di orario prolungato, ma al momento ho solo la certezza della fascia pomeridiana e non del corpo docente. Cioè mi dicono: puoi continuare a tenere gli alunni a scuola, ma non sappiamo ancora chi si occuperà di loro. Però in provincia ci sono 260 insegnanti di ruolo senza più cattedra: li useranno come tappabuchi, e sono tutti professionisti eh, mica ragazzini. Qualcuno arriverà anche da noi, almeno spero”.
ESEMPI concreti: gli istituti tecnici, invece di 36 ore di laboratorio, ne faranno 30. Quindi, migliaia di insegnanti diventano inutili. Oppure: classi accorpate da 28 studenti, passando da tre sezioni a due, e vai coi tagli. Oltretutto, se gli alunni sono più di 20, diventa impossibile inserire un disabile. L’ultimo caso, pochi giorni fa, in una scuola elementare del centro di Roma: Antonella non trovava posto in nessuna classe vicino casa, e il dirigente scolastico, temendo un’azione legale al Tar, ha ceduto riducendo a 20 una scolaresca (e ributtando sulle altre classi i 6 bimbi di troppo). Il Coordinamento delle Scuole elementari di Roma è furibondo: “A fronte di un aumento di nuove iscrizioni in città di 1.636 alunni, sono state tagliate 111 classi già funzionanti e le nuove richieste di tempo pieno (52 classi) non sono state soddisfatte – spiega una nota –. Nella quasi totalità delle scuole di Roma e provincia non sono stati assegnati gli insegnanti specialisti di Inglese. I docenti di sostegno in organico di diritto sono stati assegnati con un rapporto di 1 ogni 4 alunni. A ogni istituzione scolastica è stato ridotto l’organico docenti di almeno una unità, a prescindere dalle classi assegnate”. Per questo il coordinamento invita tutti i genitori a inviare cartoline poco vacanziere al ministero dell’Istruzione specificando che “La scuola è un bene comune, come l’acqua”.
“NON SO PER quanto” insiste Barbara Battista, già pronta alla prossima denuncia. Consegnata direttamente al Senato: “La settimana scorsa ci hanno convocato per una consultazione e noi abbiamo approfittato per raccontare un fatto inedito. In alcune commissioni d’esame che si apprestano a svolgere le prove di Stato saranno impiegati insegnanti pagati a cottimo. Cominciando a scarseggiare il corpo docente, e volendo evitare le spese normalmente previste per rimborsare la funzione, si fa ricorso a contratti per personale esterno che verrà pagato 15 euro a ragazzo. Non sto parlando di scuole private, parificate , diplomifici e cose del genere, ma di normalissimi istituti pubblici”. Del resto, 15 euro sono una bella cifretta nella scuola del 2011: è quanto percepiranno i presidenti di commissione per l’esame della terza media. Mica a ragazzo: in tutto. Per diversi giorni di lavoro e (anche) 10 classi da valutare. Gli uffici scolastici, fioccando le defezioni, stanno disperatamente convocando insegnanti e dirigenti già in pensione. Meglio che i giovani capiscano subito cosa li aspetta per il futuro.

l’Unità 18 .6.11
Il manifesto del Pd per il lavoro. Sei punti per rimettere in moto l’occupazione partendo dai ragazzi Intervista a Marini: «Dobbiamo difendere il contratto nazionale»
500 delegati da tutta Italia alla Fiera di Genova. Tanti giovani, tanta Cgil, tanta voglia di sinistra
Fassina illustra lo studio di sintesi. Le parole d’ordine: meno precarietà, più stabilità e sicurezza
Più lavoro meno precari, ecco la «rivoluzione gentile» del Pd
Il lavoro al centro della politica. I giovani, le donne, i precari al centro della proposta del Pd. Parte da Genova, l’offensiva dei democratici determinati a parlare con gli elettori del referendum e delle amministrative.
di Maria Zegarelli


Il lavoro al centro della politica. I giovani, le donne, i precari al centro della proposta del Pd. Parte da qui, da Genova, l’offensiva dei democratici determinati a parlare con quel Paese che con le amministrative prima e i referendum poi ha mandato un messaggio inequivocabile: cambiamento e nuove politiche. Mentre Berlusconi e Bossi si perdono dietro ad un braccio di ferro che rischia di spezzare le ossa a entrambi il Pd annuncia il suo piano nazionale per il lavoro, ma incalza anche su una specifica iniziativa europea che sia centrata su occupazione, ambiente e innovazione. Stefano Fassina, padrone di casa di questa due giorni ligure, su «Persone, lavoro democrazia» che vede 500 delegati da tutta Italia alla Fiera di Genova, tanti giovani, tanta Cgil, tanta voglia di «sinistra» e di proposte concreteillustra il lavoro di sintesi di mesi e mesi di incontri sul territorio e nel partito. In sala il ghota del partito: da Pier Luigi Bersani a Massimo D’Alema, Franco Marini, Cesare Damiano, Pietro Ichino, Ivan Scalfarotto, i segretari di Uil e Cisl, Angeletti e Bonanni, Camusso in collegamento video e applauditissima, rappresentanti di Confindustria, Fiom, organizzazioni e associazioni. Da dove passa la rivoluzione gentile? Dal contratto di apprendistato come canale principale per l’accesso al lavoro stabile; da costi più alti per il lavoro precario e più agevolazioni per quello stabile; dal sostegno alle pensioni dei lavoratori più giovani e meno tutelati e drastica riduzione delle forme contrattuali, ma soprattutto dagli incentivi all’occupazione femminile e conciliazione tra lavoro e maternità.
E poi ancora defiscalizzazione per i primi tre anni elle nuove imprese avviate da giovani; salario minimo di ingresso: stage limitati a sei mesi e retribuiti; riforma degli ammortizzatori sociali; universalizzazione dell’indennità di maternità; introduzione dello Statuto dei lavoratori autonomi e professionisti. Non si tocca, infine, il contratto nazionale, si riforma, «ma resta uno strumento irrinunciabile». Dibattito acceso. Questa la sfida: «Ridefinire il ruolo del lavoro per affermare un neo umanesimo integrale, una sfida ambiziosa in un tornante storico difficile». Che si può vincere con l’innovazione e una nuova «etica» che investe politiche e le scelte sul futuro, riguarda direttamente l’Europa e i partiti progressisti che vi siedono. A questi si appella D’Alema, che dice «c’è più socialismo nelle politiche di Obama che in quello che è riuscito a fare la vecchia Europa». D’Alema ne è convinto: presto «ci troveremo alle prese con il governo del Paese, sarà una grande festa la sera ce avverrà ma già dalla mattina seguente sarà una grande impresa». E allora molto dipenderà dal quadro europeo: la linea rosso-verde della Germania; l’alternativa socialista a Sarkozy in Francia e il pd in Italia potrebbero nei prossimi anni essere il vero puntodi svolta. «Lo dico a Pierluigi: se le forze che si candidano al governo andassero alle elezioni con alcuni punti forti sulla politica europea», dalla riduzione del debito, alla tassazione finanziaria, allora davvero potrebbe esserci lo scatto in avanti. Critico il giuslavorista Pietro Ichino: «Estendere a tutti i contratti a tempo indeterminato e le tutele essenziali, ma far sì che nessuno sia inamovibile, perché il diritto del lavoro non può più garantire l'inamovibilità. Allo stesso modo occorre garantire la continuità del reddito e di contribuzione, garantire la continuità del reddito e di contribuzione previdenziale a chi perde il posto di lavoro, investendo sulla sua formazione e la professionalità». Ichino risponde a chi legge come una divisione il suo documento «alternativo»: «L’unità del Pd non nasca dal pensiero unico ma da una grande pluralità d'idee, contributi e punti di partenza». Da Roma plaude al contributo del giuslavorista, Walter Veltroni che definisce l’iniziativa di Genova «una scelta di grande significato politico». Avverte Cesare Damiano: «No al pensiero unico. Discutere fino all’ultimo momento, ma quando il segretario ha concluso e si è votato a maggioranza un documento finale, no alle interviste del giorno dopo su posizioni contrarie».

l’Unità 18 .6.11
Ecco il manifesto democratico Tutto in sei punti


I punti principali delle proposte del Pd
1. L'Europa per l'occupazione dei giovani. Il Pd considera importante che il tema del lavoro, in particolare giovanile e femminile, sia al centro di una specifica iniziativa dell'Ue costruita intorno ad investimenti per l'occupazione, l'ambiente e l'innovazione, alimentata dalle risorse raccolte attraverso l'emissione di eurobonds, l'introduzione di specifici strumenti fiscali a livello europeo, tra i quali la financial transaction tax.
2. La politica italiana per il lavoro, i giovani e le donne a parità di mezzi finanziari. Un piano nazionale per l'occupazione giovanile e femminile. Il Pd ritiene indispensabile il coordinamento delle iniziative nazionali, regionali e locali per realizzare una politica nazionale efficace destinata ad agevolare l'occupazione e in particolare l'occupazione giovanile e femminile. Tra le iniziative specifiche che il Pd ritiene opportuno realizzare vi sono: il contratto di apprendistato come canale prioritario di accesso al lavoro stabile, accompagnato anche da incentivi alla stabilizzazione; il venir meno dei vantaggi di costo del lavoro precario: a parità di costi per l'impresa, un'ora di lavoro precario deve costare di più e un'ora di lavoro stabile deve costare di meno. Sostegno alle pensioni dei lavoratori più giovani e meno tutelati e drastica riduzione delle forme contrattuali
3. Il modello contrattuale. Il modello centrato sul contratto nazionale di lavoro va riformato, ma il contratto nazionale resta uno strumento irrinunciabile.
4. La rappresentatività sindacale. Rappresentanza e rappresentatività sindacale, democrazia nei luoghi di lavoro e pieno coinvolgimento dei lavoratori alla validazione dei contratti nazionali e di secondo livello.
5. Il diritto di informazione e partecipazione dei lavoratori alle scelte strategiche delle imprese. Il Pd ha presentato proposte di legge per il pieno riconoscimento dei diritti d'informazione e consultazione dei lavoratori, l'istituzione di comitati consultivi permanenti, la promozione del sistema dualistico di governance aziendale.
6.Una riforma fiscale a favore del lavoro e dell'impresa, dei giovani e delle donne. Il Pd propone, ad invarianza di gettito complessivo, di ridurre le imposte sul reddito da lavoro e d'impresa e recuperare risorse dal contrasto effettivo dell' evasione e dall'innalzamento a livello medio europeo delle tasse sulla rendita.

La Stampa 18.6.11
Intervista
“Ora i giovani attendono una risposta”
D’Alema: il dramma lo vivono loro
di T.C.


Arriva sorridente ed elegante, col suo abito blu aviazione e le scarpe Hogan nere, nella hall del centro congressi della Fiera di Genova, per nulla turbato dagli arresti del faccendiere Luigi Bisignani e dell’imprenditore Vittorio Casale, con i quali pure avrebbe avuto qualche frequentazione. Massimo D’Alema, presidente di Italianieuropei, ha voglia di parlare, ma solo di politica e di lavoro. Si accomoda in platea, non prima di scambiare qualche battuta con La Stampa .
Sembra che il Pd torni a riparlare di cose concrete, invece che di beghe interne.
Il nostro partito sta riprendendo l’iniziativa un po’ in tutti i campi. Il tema del lavoro è uno di quelli che più ci appartiene».
Non crede che ora, però, ci sono delle proposte concrete e organiche?
«Beh, la conferenza di Genova tira in realtà le fila di quanto è stato fatto in questi mesi per ritessere i rapporti col mondo del lavoro, con l’impresa, i precari, le organizzazioni sindacali».
Si torna a mettere il lavoro al centro del dibattito proprio mentre è in atto uno scontro aspro fra Fiat e Fiom-Cgil e un confronto teso fra la stessa Fiat e Confindustria. Che ne pensa della volontà di Sergio Marchionne di uscire da Confindustria?
«Le imprese, soprattutto quelle più grandi e quindi anche la Fiat, dovrebbero stare all’interno delle loro associazioni e rispettare le regole collettive che si sono date. Se queste vengono meno, l’alternativa è il caos e certamente non si fa il bene dei lavoratori, delle aziende e quindi del Paese. Vorrei però allargare il discorso».
Prego.
«La Fiat è importante, quello che avviene lì ha una valenza politica. Ma riguarda pur sempre alcune decine di migliaia di persone. Oggi il Pd pone l’accento su un tema di generale: la centralità del lavoro, i diritti, il progressivo impoverimento del loro tenore di vita, i diritti e il tentativo di ridimensionarli se non cancellarli, la lotta alla precarietà».
Temi che si incrociano con la vicenda Fiat, non le pare?
«Non mi fraintenda: la vicenda Fiat è un episodio importantissimo, non va sottovalutato. Ma oggi ci sono due milioni di giovani fuori dalla scuola, con un diploma o una laurea, e che non lavorano. A loro dobbiamo una risposta, è questo il dramma che va in scena».

Corriere della Sera 18.6.11
Meno liberali più laburisti
di Dario Di Vico


I l Veltroni che aprì la campagna per le politiche del 2008 al Lingotto ha rappresentato il momento in cui il liberalsocialismo italiano è sembrato darsi le ali per volare. Fino ad allora era vissuto per lo più sul contributo di singoli studiosi estremamente versati nel produrre spunti e idee. Ora la notizia che lo stesso Veltroni, insieme a Sergio Chiamparino, ha tolto la firma dal documento di Pietro Ichino che sarà presentato alla Conferenza del Lavoro in corso a Genova è un episodio illuminante. È il completamento di una parabola e la prova che il partito si sta muovendo in tutt’altra direzione. Si sta attrezzando a recuperare una visione più tradizionale, che per comodità definiremmo neo-laburista. E del resto sono molti altri i segnali che dimostrano il nuovo trend. Innanzitutto il perdurare della Grande Crisi e la percezione diffusa che il grosso dei costi sociali debba ancora essere pagato. Il voto amministrativo di Milano con lo spostamento di consensi del lavoro autonomo verso Giuliano Pisapia segnala come un’ampia porzione di ceto medio, che non si è sentito tutelato dalla scelta del governo di investire tutte le risorse sulla Cassa integrazione, si sia rivolto al centrosinistra chiedendo asilo. Non dimentichiamo che nella dirigenza della sinistra non si è mai rimarginata la ferita causata dalla perdita (via Lega) di una consistente parte dell’insediamento sociale e operaio. In svariate occasioni il vertice del Pd è stato accusato di aver abbracciato masochisticamente la cultura di mercato e lasciato spazio alle incursioni a sinistra di Umberto Bossi e Giulio Tremonti. Infine l’esito dei referendum e anche la diffusione di una cultura dei social network orientata alla salvaguardia dei beni pubblici— l’acqua come l’occupazione — spingono anch’essi verso un approdo neo-laburista. Non è un caso che Stefano Fassina, responsabile economico del Pd, abbia formulato la richiesta di «un Piano per l’occupazione giovanile e femminile» , che almeno nel lessico rimanda alla Cgil Anni 50. Se poi spingiamo lo sguardo oltre Chiasso si può constatare come i partiti socialdemocratici segnalati in ripresa dai sondaggi elettorali abbiano recuperato audience non perché hanno sviluppato una convincente ricetta post-blairiana ma semplicemente perché si limitano a interpretare il mestiere di oppositori in periodo di recessione. Tutte queste riflessioni congiurano, dunque, nel legittimare gli slittamenti di cultura politica in corso dentro il Pd, che prima ha perso una figura di prestigio come Nicola Rossi e oggi in qualche misura prende le distanze dagli Ichino. Conseguenza immediata: i temi della libertà economica (liberalizzazioni, privatizzazioni e lenzuolate) escono dallo spartito, come del resto è ampiamente dimostrato dalla scelta tutta politica di non ascoltare i dubbi sui referendum avanzati da personalità come Franco Bassanini. Il Pd, dunque, nato come progetto modernizzatore e cosmopolita, pone oggi più attenzione al consenso e all’insediamento sociale. Come tornasse alla ricerca di un «suo popolo» e in questa indagine ponesse attenzione prioritaria alle partite Iva, ai precari, ai blogger. Siccome questa strategia, almeno nel breve, ha pagato con il raggiungimento del quorum e anche con la ripresa di gradimento del Pd segnalato dai sondaggi a quota 29%, non si può pretendere di dare consigli di segno contrario.
La riflessione più sensata che si può avanzare dall’esterno è che una mini-svolta laburista rischia di far perdere al Pd il credito conquistato in questi anni negli ambienti più attenti alla cultura di mercato e che qualcosa hanno contato nelle performance elettorali di Pisapia e Stefano Boeri. Ma forse il pericolo maggiore per una forza che si ricandida in qualche modo a guidare il processo di uscita dalla crisi è quello di avvicinarsi al popolo ma allontanarsi dalle soluzioni. In più riprese in passato si è sviluppato un movimento politico culturale autodefinitosi lib-lab e che ha cercato generosamente di conciliare le due culture, la liberale e la laburista. Non ha conosciuto mai grande successo ma quel tipo di esercizio non andrebbe comunque disperso, perché se i problemi sono laburisti, nell’economia di oggi— e con le scadenze che attendono il nostro Paese — le soluzioni continuano ad essere liberali.

Corriere della Sera 18.6.11
Ichino porta nel Pd la sfida della licenziabilità
di  Erika Dellacasa


GENOVA — Fra precari che si raccontano in video e operai di Fincantieri in carne e ossa, il Pd ha lanciato da un convegno nazionale a Genova il suo «manifesto» sul lavoro. Stefano Fassina, responsabile per l’economia, ha aperto il discorso citando l’enciclica di Benedetto XVI Caritas in veritate: non è la ricchezza che produce ricchezza, ma il lavoro. Sei punti, quindi, per «ripartire dal lavoro» al centro del programma del governo del centrosinistra che Bersani, Letta, D'Alema, annunciano come imminente. Il manifesto del Pd parte dai precari, dalla zona grigia delle false partite Iva, dai 4 milioni di italiani para-occupati, per proporre di stoppare i contratti a tempo determinato «a vita» , con lo strumento fiscale. «Eliminare i vantaggi di costo del lavoro precario rispetto a quello stabile» afferma il primo punto, e aggiunge «accessi fiscali agevolati al lavoro stabile» , durate minime e massime per quello a tempo, stage regolati e retribuiti, contrasto alle «dimissioni in bianco» , salario minimo per tutti stabilito dai contratti nazionali, un nuovo Statuto dei lavoratori per autonomi e professionisti, più servizi a sostegno della maternità. Il Pd difende il contratto nazionale di lavoro erga omnes (valido per tutti): «irrinunciabile» , dice, ma da riformare, meno contratti e più snelli. Il secondo livello di contrattazione deve «valorizzare» quello nazionale non «annullarlo» . Risponde con soddisfazione Susanna Camusso, segretario Cgil, in collegamento video: «Basta con i contratti pirata» . Risponde il direttore generale di Confindustria Gianpaolo Galli: «Il contratto nazionale è un valore anche per noi» ma «bisogna prevedere deroghe» , e si schiera a fianco di Fiat nella controversia legale con Fiom. E da più parti si affronta il problema spinoso della rappresentanza sindacale. «Quando andiamo al governo — dice Bersani — la settimana dopo facciamo il patto per lo sviluppo con le parti sociali» . Intanto invita quelle politiche a mettersi d’accordo sulle cifre: «Facciamo un’operazione verità sui conti» . D’Alema sprona il Pd a guardare «oltre Berlusconi» e verso obiettivi europei. E questa mattina il senatore Pietro Ichino illustra la proposta della minoranza: un contratto unico, con tempo indeterminato e tutele essenziali per tutti, ma «nessuno inamovibile» , licenziamenti economici e organizzativi rapidi ma con le imprese che fanno carico del reddito e del reinserimento dei licenziati: «Oggi lo Statuto tutela 9 milioni di lavoratori, così modificato ne tutelerebbe 19 milioni» dice Ichino. Che invita il Pd a non «ostracizzarlo» . Piccolo giallo: Veltroni, questa proposta, la sostiene o no? Per telefono, arriva da Veltroni direttamente a Ichino la conferma del suo «sì» .

il Riformista 18.6.11
Conferenza a Genova
Pd e Lavoro Confronto interno sulla manovra

qui

il Riformista 18.6.11
Sircana sul «nuovo Prodi»
È Bersani la figura giusta
Parla il senatore Pd, ex portavoce del professore a Palazzo Chigi. Il segre- tario Pd ha una cultura liberale avanzata: “Mica è Togliatti”.
di Francesco Persili

qui

l’Unità 18 .6.11
Il segretario del Pd al Carroccio: «Pontida li aiuterà ad andare a fondo del problema»
Conti dello Stato «Bene il richiamo del presidente della Repubblica, ora operazione verità»
Bersani lancia l’amo «La Lega rifletta e lasci la vecchia strada»
Il segretario del Pd Pierluigi Bersani: «La Lega governa da otto anni negli ultimi dieci e ha governato da Roma per tutto il Paese. I risultati non ci sono: né per il nord né per l'Italia e non ci sono stati per la Lega»
di Maria Zegarelli


Pier Luigi Bersani lancia la sfida alla Lega parlando da Genova dove il Pd è riuscito a far salire sullo stesso palco sindacato, associazioni di imprenditori, rappresentanti di Confindustria e di ogni pezzo di società che genera lavoro, lavora, che cerca lavoro e soprattutto che vuole risposte dalla politica. «Il lavoro sarà al centro della prossima azione di governo del centrosinistra e del Pd – dice davanti alle telecamere – mentre questo governo, pur avendone avuta l'occasione non l'ha mai posto al centro della sua attenzione».
Un governo di cui la Lega è parte e corresponsabile del fatto e non fatto. E allora alla Lega che si prepara al prato di Pontida il segretario Pd fa un augurio, provocatorio «affinché questo appuntamento la aiuti ad andare a fondo del problema», e il problema è che «la Lega governa da otto anni negli ultimi dieci e ha governato da Roma per tutto il Paese. I risultati non ci sono: né per il nord né per l'Italia e non ci sono stati per la Lega».
E chissà «se è il caso di rilanciare sulla vecchia strada o se è il caso di cercare una strada nuova, come credo sia indispensabile». Che non vuol dire, nelle intenzioni del segretario, una alleanza con il centrosinistra, perché come sottolinea il vice Enrico Letta, «noi siamo alternativi alla Lega», su questo non si torna indietro, quanto piuttosto l’inizio di un confronto serio anche in Parlamento.
Sui temi che uniscono può esserci un dialogo, «il vero federalismo è con noi che possono farlo», ripete da mesi Bersani, non «certo con Berlusconi». E anche sulla legge elettorale se il Carroccio vuole trovare una via d’uscita per potersi sganciare dal Cavaliere è alle attuali opposizioni che deve guardare per una riforma, «perché Berlusconi non la cambierà mai». Bersani parla ad un Umberto Bossi mai in difficoltà come adesso, con una base leghista insofferente, delusa, diciamo pure piuttosto «incazzata» per i bunga bunga, le Minetti, le leggi ad personam, l’inconsistenza dell’azione politica del governo sui temi cari al popolo padano, come anche ieri testimoniava il sito Padania.org, dove insieme alle parole di Bersani, date in apertura di sito, campeggiavano le dolenti noti degli elettori.
Bersani lancia la sua sfida ad un leader sfibrato, fin troppo «romanizzato» per il popolo del Carroccio, ma che è ancora in tempo a scendere dal treno, come dice Enrico Letta, prima che vada a sbattere. «L'ammonimento del presidente della Repubblica io lo applico subito dice il segretario Pd - e credo sia indispensabile avere una posizione obiettiva e unificata sulla situazione economica e sociale, a partire dai conti pubblici». E allora iniziamo da qui, esorta, a prendere le distanze dalle bugie e dalla falsificazione della realtà: «Facciamo assieme in Parlamento un’operazione verità sulla situazione perché almeno su questo si trovi un linguaggio condiviso. Poi vediamo come fare ma non si possono avere versioni diverse sui numeri». E quanto nella maggioranza non sia vero che l’asse Pdl-Lega è solido e pronto a superare qualunque prova, lo spiega bene il nervosismo di Fabrizio Cicchitto davanti alle parole di Bersani. «Bersani nei giorni pari – commenta dice che la Lega è un nucleo di pericolosi razzisti e nei giorni dispari spera invece che sia una costola della sinistra. Quindi in primo luogo deve mettersi d'accordo con se stesso».
Eppure secondo il popolo padano è Bossi che deve mettersi d’accordo con se stesso: scrivono su Padania.org. che non può andare a Pontida e battere il pugno sul tavolo del governo e poi dire al Cavaliere in privato che va tutto bene, il suo appoggio non verrà meno.

Repubblica 18.6.11
Bersani ora chiama il Carroccio "Rifletta e cerchi strade nuove"
Ma D’Alema boccia Maroni sugli immigrati: mi indigna


ROMA - Incalza la Lega. Le offre una via d´uscita per non affondare con Berlusconi. Pier Luigi Bersani alla vigilia di Pontida lancia la sfida ai lumbàrd: «Riflettano a fondo se sia il caso di rilanciare sulla vecchia strada o se è il caso di cercare una strada nuova, come credo sia indispensabile». Invita a uno strappo: il Carroccio stacchi la spina a un governo in agonia, per fare con l´opposizione il federalismo e la riforma della legge elettorale. D´altra parte - ragiona il segretario del Pd - Bossi guardi in faccia il problema: «Il problema è che la Lega governa da 8 anni degli ultimi dieci. Ha governato da Roma per tutto il paese e i risultati non ci sono né per il Nord, né per l´Italia e non ci sono nemmeno per la Lega». Da mesi Bersani e i Democratici stanno lavorando ai fianchi il partito del Senatùr, appiattito sul governo e pressato dagli stessi militanti.
Ma anche per il Pd l´offerta è rischiosa. Non a caso Massimo D´Alema punta il dito sull´inciviltà delle decisioni del ministro leghista dell´Interno, Roberto Maroni sui Centri di identificazione e espulsione (Cie) per gli immigrati. «Lasciate che esprima tutta la mia indignazione di cittadino - attacca - come è pensabile che una maggioranza che si dice garantista possa tenere 18 mesi una persona in prigione senza processo, la cui unica colpa è essere venuta qui per cercare fortuna per sé e per i propri figli?». Rilancia la necessità del voto amministrativo per gli immigrati: «Ci sono quattro milioni di lavoratori che producono il 10% della ricchezza nazionale e che non hanno diritto al voto. Sono gli immigrati - spiega il presidente del Copasir ed ex ministro degli Esteri - Questo è un tema che tocca profondamente la qualità della nostra democrazia». Ma il paese è a un punto di svolta. «Tra un tempo che spero sia il più breve possibile - afferma D´Alema - ci troveremo alle prese con il problema di governare il paese. Sarà una grande festa. Ma dalla mattina dopo inizierà un´impresa drammatica».
Un´Italia da ricostruire è anche l´appello che Romano Prodi rivolgerà domani a Bologna in un video messaggio alla community democratica di "Insieme per il Pd". Un movimento cresciuto in rete, di 20 mila persone che discute e si confronta su Facebook, riunisce molti giovani, come spiega Sandro Gozi, deputato pd. L´ex premier sollecita i giovani: «Impegnatevi. Il paese si è svegliato ma l´alternativa è tutta da costruire». E questa - insiste Prodi - è un´Italia sfibrata, ormai al traino mentre è il momento che divenga locomotiva». Sui giovani e il lavoro il Pd avvia ieri a Genova il primo dei grandi confronti tematici. Dibattito aperto e divisioni. Veltroni sostiene e loda Ichino e la sua proposta di flessibilità («Tutele per tutti ma nessuno è inamovibile»); Fassina, responsabile economico del partito, pensa a un´altra ricetta. Però le divisioni sono tenute sotto traccia e Ichino precisa: «Ci vuole una pluralità per costruire l´alternativa». Comunque, garantisce Bersani, «il lavoro, e il lavoro dei giovani in particolare sarà al centro della nostra azione di governo». Nella prossima settimana ci saranno gli incontri tra i leader dell´opposizione per concordare la strategia in vista della verifica e per parlare di alleanze. Di Pietro assicura: «Il segnale che arriva dalle ultime settimane è evidente. Manterremo saldo il legame con i movimenti e con la rete».
(g.c.)

Repubblica 18.6.11
La proposta di Vendola: "rivoluzione riformista" per costruire col tempo il partito unico
"Non capisco l´apertura a Bossi non c´è dialogo con chi è razzista"
di Giovanna Casadio


Il centrosinistra ha sfondato sul territorio del Carroccio Bisogna concentrarsi sul senso di ciò che è avvenuto con le elezioni e i referendum anziché sulle operazioni di Palazzo

ROMA - Vendola, alla vigilia di Pontida Bersani lancia un amo alla Lega, incitandola a cambiare strada. La giudica una buona mossa?».
«È incomprensibile per me il senso di questa mossa... penso che il segretario del Pd avrà modo di spiegarsi meglio. Ma non vedo alcuno spazio per una interlocuzione con Bossi, che è uno dei baricentri del governo. Dal punto di vista politico e culturale, il leghismo e il berlusconismo sono connessi. Con i nostri avversari l´unico terreno su cui è legittimo un confronto e la ricerca di un´intesa, è quello delle regole del gioco. Ma è abbastanza paradossale trovare punti di vicinanza con chi sta chiedendo a Berlusconi un riposizionamento sui temi classici leghisti, come la repressione del fenomeno dei migranti. Il Carroccio su temi esplicitamente razzisti non solo ha tenuto il punto - con le campagne securitarie, le fantomatiche ronde padane e la caccia ai rom - ma ha anche contagiato un campo più largo di culture di destra».
Ma solo se Bossi divorzia da Berlusconi il governo cade?
«Ci sono contraddizioni assai vistose nella maggioranza. Riguardano l´annunciata o temuta manovra finanziaria che ci chiede la Ue; la fuoriuscita dei sudisti di Miccichè; le guerre e le guerriglie nelle retrovie di Palazzo Chigi; la contesa sempre più ravvicinata fra Tremonti e il resto del mondo. Mostrano quali e quante sono le crepe aperte in questo regime ormai al capolinea. Eviterei perciò operazioni tutte interne al Palazzo. Mi concentrerei molto sul senso della di ciò che è avvenuto in Italia tra le amministrative e i referendum. È lì, in quel processo liberatorio e popolare, che si possono trovare i materiali utili alla sepoltura del cadavere della Seconda Repubblica e all´apertura del cantiere dell´alternativa».
La Lega, il suo radicamento popolare, non erano giudicati proprio dalla sinistra punti di forza?
«Il vento del Nord ha riguardato lo sfondamento del centrosinistra su uno dei terreni privilegiati della Lega, che è la dimensione territoriale. Per molti anni il centrosinistra ha inseguito i sindaci leghisti con un atteggiamento mimetico rispetto allo stile degli sceriffi padani. Con Pisapia a Milano e le altre svolte amministrative nel Nord, si è messa in campo un´altra idea del territorio, fortemente inclusivo, capace cioè di fare convivere l´identità locale con il codice dell´accoglienza e della solidarietà. Vince Pisapia perché c´è la proposta di una milanesità alta, ricca, promotrice di modernità e di diritti. Così abbiamo scalfito nel suo insediamento il consenso leghista».
E all´assemblea di Sel, del suo partito, proporrà sempre la nascita di un partito unico con Pd e Idv?
«Questo è un percorso di lungo respiro: il tema della riunificazione è tutto da costruire. Intanto ci vuole una mobilitazione democratica, il cui manifesto sia quello di una rivoluzione riformista».
Più movimenti, rete, piazze - i protagonisti della riscossa civica italiana - e meno partiti?
«I partiti sono condizione necessaria ma non sufficiente, ingrediente indispensabile ma non sono tutto. Il cambiamento deve essere largo e io proporrò l´apertura ai movimenti, al mondo delle associazioni, dei saperi diffusi, dell´ambiente. Il cambiamento ha bisogno di coralità».
Una rivoluzione riformista, lei dice, però ad esempio sulla flessibilità del lavoro c´è una certa distanza con il Pd?
«Discutiamo però senza i semafori, in cui i riformisti pensano di avere sempre il verde e i radicali devono avere sempre il rosso: i primi passano, gli altri stanno costantemente fermi. Tutti dobbiamo aggredire il nodo della precarietà».
Non ci ha ripensato sulla sua sfida a Bersani alle primarie per la premiership?
«La discussione sulla primarie ha avuto un punto di verifica: la realtà. Io sempre disposto per la causa comune e spirito di servizio».

il Fatto 18.6.11
Maroni vuole la Nato contro gli immigrati
Richieste e misure italiane contrarie ai diritti e smentite dalla Ue
di Paolo Soldini


Il ministro dell’Interno Roberto Maroni aveva già dichiarato guerra all’Unione europea. Ora ha deciso di allargare il fronte anche all’Onu e al diritto internazionale. L’idea che la Nato debba fare nel mare della Libia il blocco navale al contrario e respingere in mare le imbarcazioni cariche di profughi che fuggono dal paese martoriato viola praticamente tutto quello che c’è da violare: le norme sul diritto marino internazionale, le convenzioni mondiali sui rifugiati politici, le disposizioni delle agenzie dell’Onu, le regole della stessa Nato. Nonché i princìpi della civiltà e anche quelli del buon senso, che sono altrettanto universali e dovrebbero valere persino sul pratone di Pontida. E benché il premier del Consiglio provvisorio libico abbia confermato ieri a Roma con Frattini che “Noi vogliamo riaffermare il nostro impegno rispetto ai precedenti accordi firmati tra la Libia e l’Italia, nostro storico alleato”.
 IN ATTESA DI REAZIONI  da parte degli organismi internazionali, a cominciare dall’Alto commissariato per i rifugiati politici Onu, presieduto da quell’Antònio Gutierres sul quale il bugiardissimo ministro nel 2008 raccontò balle alla Camera, vanno registrate le polemiche nostrane. Le quali scontano il fatto che Maroni abbia buttato lì la trovata del blocco navale all’incontré per dare un segnale alla base leghista in marcia per Pontida.
Le polemiche fioccano anche sul cosiddetto decreto immigrazione e ci sono tutti i motivi per pensare che a Bruxelles l’ultima pensata del governo italiano non la prendano affatto bene. L’incombere del week-end salverà (forse) Maroni dall’ennesima sberla, ma è solo questione di tempo: nei prossimi giorni, archiviata Pontida e valutate le imminenti convulsioni politiche chez nous, la Commissione europea romperà il silenzio. L’Italia infrange clamorosamente le direttive in materia di immigrazione, diranno lassù, ma, almeno, il suo governo eviti di prenderci per i fondelli. Difficile digerire il fatto che, dopo aver incassato la bocciatura del reato di clandestinità da parte della Corte di Giustizia e dopo aver fatto passare sei mesi lasciando lettera morta una precisa direttiva europea (2008/15), Maroni si presenti tomo tomo cacchio cacchio a sostenere che il decreto approvato dal Consiglio dei ministri “recepisce” proprio quella direttiva e “adegua” la nostra legislazione alle norme europee.
MA QUANDO MAI? Maroni ieri ha invitato chi polemizzava ad “andarsi a leggere il testo delle direttive, che noi abbiamo preso e adottato”, ma va detto che l’invito avrebbe dovuto rivolgerlo, piuttosto, a se medesimo e ai propri consiglieri giuridici. Senza entrare troppo nel merito - non tarderà a farlo una richiesta di chiarimenti della Commissione - va sottolineato che la 2008/15 dispone che la modalità di rimpatrio sia la volontarietà mentre il decreto prevede il carattere automatico del trattenimento degli immigrati quando non si può eseguire l’espulsione immediata. Non è vero poi, come sostiene il ministro, che il prolungamento della permanenza nei Cie da 6 a 18 mesi è “previsto” dalla direttiva europea: i 18 mesi, sono considerati il tetto oltre il quale non si può andare, non certo la norma.
Insomma, le solite balle. Raccontate a fini di propaganda nella speranza che quando la verità verrà ristabilita da Bruxelles nessuno se ne accorga. E balle che ci costano un bel po’ di quattrini. Fra ritardi nel recepimento delle direttive e legislazioni improprie l’Italia sulla politica dell’immigrazione ha già incassato e rischia ancora da parte della Commissione una bella quantità di procedure di infrazione, cioé di multe. In caso di infrazione le sanzioni minime per l’Italia sono superiori ai 10 milioni di euro e costano fino a 700mila euro al giorno per ogni giorno di ritardo. Chi paga i danni? Non certo Maroni. A meno che la Corte dei Conti non abbia qualcosa da dire in proposito.

Corriere della Sera 18.6.11
«Più diritti agli sposati» La svolta del Pd a Bologna
Il sindaco Merola contro la parità sancita dalla Regione
di  Marisa Fumagalli


Il matrimonio implica un grado di responsabilità diverso ad altre scele di convivenza
Giusto qualcosa in più per chi si impegna in un legame maggiore? Ragioniamoci

Coppie sposate in pole position rispetto alla coppie di fatto. Le prime valgono più punti (per la graduatoria degli alloggi) delle seconde. E’ il principio che il neosindaco (Pd) di Bologna, Virginio Merola, vorrebbe mettere al centro del dibattito nella sua città, ponendo le basi per un’eventuale inversione di rotta. «Ma per ora resta tutto come prima» , puntualizza. Cioè la dis-parità non passa. Eppure, l’effetto di certe dichiarazioni è quello di far crollare le poche certezze che sembravano acquisite tra i campioni della laicità che costituiscono lo zoccolo duro della città-capoluogo. Di più: la confusione regna sotto il cielo dell’Emilia Romagna, dal momento che il governatore (Pd), Vasco Errani, circa un anno fa, nella legge finanziaria regionale, inserì l’articolo 42, che stabilisce «il diritto ad accedere ai servizi pubblici e privati in condizione di parità di trattamento e senza discriminazione, diretta o indiretta, di razza, sesso, orientamento sessuale, lingua, religione, opinioni politiche, condizioni personali e sociali» . Un’apertura a 360 gradi. Criticata, allora, dall’arcivescovo, monsignor Carlo Caffarra. Errani ribadì: «Riconosciamo anche alle diverse forme di convivenza il diritto all’accesso ai servizi regionali» . Allora che succede oggi a Bologna? Qualcuno fa notare che il sindaco Merola sta ripetendo concetti già espressi durante la sua campagna elettorale. Resta il fatto che la sortita del primo cittadino, nel corso di una trasmissione dell'emittente Etv, ha scatenato la polemica. La proposta del sindaco, offerta sul piatto della discussione, prende le mosse dal sostegno di quelle persone «che scelgono legami di libertà, di responsabilità tra loro e verso la comunità» . «Il matrimonio — spiega — implica un grado di responsabilità diverso rispetto ad altre scelte di convivenza. E credo che questo vada riconosciuto» . Una medaglietta alle coppie sposate che dovrebbe tradursi in un bonus: la precedenza nelle graduatorie comunali. Merola si chiede: «E’ giusto o no prevedere qualcosa in più per chi si impegna in un legame maggiore? Ragioniamoci» . Le dure prese di posizioni, rimbalzate per tutta la giornata di ieri, hanno spinto il sindaco a stilare, in serata, una nota chiarificatrice, che si chiude con toni prudenti: «Non intendo mettere in discussione i "Dico"proposti dalla Regione, non chiedo di rivedere le regole comunali o i punteggi» . Il sasso nello stagno, tuttavia, è gettato. E alle numerose reazioni negative (l’Arcigay chiede un tempestivo intervento del Consiglio comunale, Rifondazione giudica lo stile del sindaco «da amministratore di condominio e non da politico» , il Sel nota che «la Corte Costituzionale ha trovato ineccepibile la scelta dell’Emilia Romagna di equiparare sposati e coppie di fatto» , l’Idv parla di «nulla osta alle diseguaglianze» ) fanno da controcanto i plausi. E’ d’accordo con il sindaco la Lega, mentre chiede di introdurre «anche un bonus basato sulle residenze di lungo corso» . L’Udc, per bocca del coordinatore provinciale Maria Cristina Mirri, dichiara: «Sarebbe una svolta storica e positiva se il sindaco desse seguito alle sue parole» . Infine, da Roma arriva la notizia che la presidente del Lazio, Renata Polverini, sta predisponendo un piano-famiglia che equipara i figli delle coppie sposate con quelli delle coppie di fatto. Come è noto, la governatrice regge una Giunta di centrodestra.

Repubblica 18.6.11
"Favorire le coppie sposate" a Bologna è bufera sul sindaco
Merola sconfessa i Dico poi fa dietrofront. Insorgono Pd e Idv
di Silvia Bignami


BOLOGNA - Primo scivolone per il neo sindaco di Bologna Virginio Merola (Pd), sul terreno minato delle unioni di fatto e dei diritti alle coppie gay. Le sue parole a una tv vicina alla Curia, «chi si sposa si assume una responsabilità maggiore di chi non lo fa che deve essere riconosciuta anche dal Comune», scatenano la reazione del centrosinistra, Sel e Idv in testa, col Pd in imbarazzo. In serata il sindaco - dopo telefonate con i vertici del partito - corregge in parte il tiro rassicurando: «Non toccherò graduatorie e punteggi dei bandi comunali». Ma la frittata ormai è fatta. Bologna, che ha una lunga tradizione sui diritti civili, dal ‘99 col registro delle "famiglie affettive" fino ai Dico regionali di due anni fa, si ritrova di nuovo a dividersi su questa delicata materia.
Per tutto il giorno su Merola piovono le critiche della sinistra. Lo stesso Pd, preso in contropiede, non può tacere. Il presidente del consiglio comunale Simona Lembi, abbandona l´aplomb istituzionale e commenta gelida: «Io sono d´accordo con i Dico di Vasco Errani. Non cambio idea». Il capogruppo dei Democratici in Comune Sergio Lo Giudice, in passato presidente di Arcigay, avverte: «Merola rispetti la linea della Regione». Attaccano a tutto spiano gli alleati, dai dipietristi come l´ex deputato Franco Grillini a Sinistra ecologia e libertà, alle associazioni legate al mondo Lgbt, ad Arcygay. Il sindaco viene definito «antistorico» e «clericale». Mentre il centrodestra applaude convinto e incredulo, dall´ex candidato sindaco leghista Manes Bernardini alla consigliera regionale Udc Silvia Noè, che esclama: «Merola ci stupisce con effetti speciali».
«Sembra di sentir parlare Casini... « è il commento stupefatto che circola in Regione. Non parla il presidente Vasco Errani, che coi suoi Dico sfidò la Curia bolognese e vinse anche la partita col governo davanti alla Corte Costituzionale, ma a Viale Aldo Moro si parla di idee in «conflitto politico» con le norme regionali. Un putiferio che lascia stupito Merola, che già in campagna elettorale aveva accennato alla sua intenzione di «dare priorità a chi ha il coraggio di sposarsi e di avere figli». A bacchettarlo, era il 7 maggio scorso, arrivò allora il governatore della Puglia Nichi Vendola, sotto le Torri proprio per sostenere Merola: «Basta usare le vite delle persone in campagna elettorale».
Dopo una giornata sulla graticola, il sindaco prova a rimediare in serata, ribadendo tra l´altro il suo sì ai matrimoni gay, tanto da volersi far promotore anche a livello nazionale di una legge che li renda legali. «Quando parlo di riconoscere l´impegno di chi decide di sposarsi, mi riferisco anche alle coppie omosessuali» dice Merola, che chiosa citando Rosa Luxemburg: «Oggi chiamare le cose con il proprio nome è diventata una cosa rivoluzionaria».

l’Unità 18 .6.11
L’Attila di Arcore
di Moni Ovadia


Il diradarsi dell'ammorbante atmosfera del berlusconismo a seguito della débâcle elettorale nelle recenti amministrative e la sua ancor più bruciante disfatta in occasione della tornata referendaria rivela dietro alla biacca del miserabile clownismo politico, il disfacimento del principe e della sua corte dei miracoli.
La penosa performance dello pseudo ministro Brunetta è lo squallido colpo di coda della protervia stracciona che ha infettato il vivere civile italiano per un ventennio. Ma il berlusconismo ha davvero perso?Lluis Bassests, vice direttore del Pais, l'autorevole quotidiano spagnolo ritiene non solo che non abbia perso ma che abbia addirittura vinto: «questo nefasto personaggio ha attraversato la politica italiana ed europea come Attila e i suoi Unni e ha devastato il paesaggio dei media e della politica...Ma la sua maggiore vittoria è rappresentata dalla profonda impronta di immondizia e di rozzezza che lascia nei mezzi di comunicazione italiani ed europei, uno stile che ha definitivamente preso piede fra noi e ha distrutto ogni possibilità di una cultura che sia al tempo stesso popolare e alta».
Questi alcuni dei giudizi espressi dall'opinionista iberico in un suo durissimo editoriale. La spietata analisi di Bassets denuncia un dato di fatto irreversibile? Forse non del tutto, tuttavia le sue parole devono indurci a non abbassare la guardia. Il berlusconismo è stato figlio di un'eredità fascista residuale mai bonificata dal tessuto sociale del paese. La mentalità berlusconiana va sconfitta alla radice se in futuro non vogliamo vederla risorgere in una riedizione più virulenta.

l’Unità 18 .6.11
Memorie di un’Italia divisa
Nel saggio di Giovanni De Luna centocinquant’anni di storia unitaria dalla parte delle vittime
di Oreste Pivetta


Dopo gli ignobili manifesti milanesi, «via le br dalle procure», il presidente della Repubblica decise di dedicare il «Giorno della Memoria», il 9 maggio, il giorno in cui si sarebbe dovuta celebrare la Festa dell’Europa, ma anche il giorno in cui vennero assassinati Aldo Moro e Peppino Impastato, ai servitori dello Stato che avevano pagato con la vita la loro lealtà verso le istituzioni e tra loro, in primo luogo, ai dieci magistrati uccisi dalle Br e da altri gruppi terroristici. In quei manifesti si sarebbe potuto leggere certo un insulto alla magistratura e alle istituzioni, ma anche un insulto alla storia: negarla, per ricostruirne una tutta nuova ai fini di un disegno politico. Banalmente, volgarmente. Ma costruzione e ri-costruzione della storia sono un campo arato da sempre e sotto tutti i cieli. È capitato in modi meno banali e volgari, perché nuovi materiali interpretativi si sono presentati, nuove testimonianze, nuove voci si sono udite, nuovi strumenti e nuovi luoghi di comunicazione si sono affiancati a quelli tradizionali dello storico: carta, penna, libri, impugnati o aperti nelle aule universitarie, nei convegni degli specialisti, magari nelle redazioni dei giornali, da qualche decennio scalzati dalle immagini e dalle vive voci della debordante piazza televisiva.
Ogni volta, secondo necessità, secondo finalità diverse: occultare oppure aggiungere verità a verità, esaltare la complessità contro la semplificazione di certi racconti, costruire una tradizione, cioè un passato riconoscibile non sempre da tutti, talvolta solo da una ipotetica, presunta, illusoria, maggioranza.
I centocinquant’anni di storia italiana, di storia unitaria, si potrebbero scorrere da questo punto di vista: di una ricerca di condivisione, in un paese frammentato per condizioni politiche, culturali, per lingue, per bandiere, per condizioni sociali... assumendo via via come riferimenti ideali il Risorgimento, il completamento dell’unità territoriale con la Grande Guerra, la lotta di Liberazione dopo il fascismo e la nascita della carta costituzionale (poi, alla crisi della prima repubblica, contestate da un’onda revisionista il cui ultimo atto, grottesco, è stato pochi giorni fa la richiesta di parificazione tra partigiani e repubblichini di Salò), fino alla esaltazione delle presunte ascendenze celtiche intrapresa dalla Lega, con tanto di scudi, di elmi e di spadoni. Per non farci mancare una nota comica.
Molto semplificando sta nelle variazioni di questa impresa il cuore dell’analisi di Giovanni De Luna, storico torinese, in questo La Repubblica del dolore. Le memorie di un’Italia divisa. Giovanni De Luna è stato, con Walter Barberis, curatore della bella mostra Fare gli italiani (fino al 20 novembre, alle Officine Grandi Riparazioni), e lettura e visita in parallelo sarebbero un modo per arricchire l’una e l’altra, la mostra costruita sulla coppia inclusione-esclusione, contrapponendo quanto può unire e quanto invece può dividere gli italiani (la criminalità, ad esempio, contro i consumi o le comunicazioni), il libro dedicato alla memoria, alla sua elaborazione, in entrambi i casi verso la definizione di una identità, comunque legata ad un progetto, buono o cattivo, politico.
Nel racconto di De Luna vi è almeno un passaggio decisivo: proprio quando la storia abbandona le aule universitarie e diventa «testimonianza», individuale, che si consuma sul piccolo schermo della televisione. La testimonianza televisiva interrompe l’orizzonte generale, esalta la singolarità delle voci, emoziona rappresentando casi individuali, passioni, tormenti, sofferenze, molto concretamente la fatica di vivere, la paura, la morte. Di fronte alla vittima, soprattutto, chi ascolta o guarda matura una propria partecipazione, riconoscendo qualcosa che gli appartiene o che sicuramente è appartenuto alla sua famiglia, alla sua esperienza, alla sua memoria.
Qui in trent’anni di storia, tra oblio e invenzioni, tra i tanti tentativi identitari attorno a questa o a quella vicenda, dalla Resistenza, alla Shoah, dalla tragedia delle foibe ai nuovi morti in guerra, dalle vittime del terrorismo alle catastrofi naturali, terremoti e alluvioni, alla prese con l’invadenza della televisione che costruisce la propria classifica del dolore (che cosa ricordare e che cosa no), si incappa nella reiterazione delle «giornate della memoria», che sono poi giornate delle vittime, dove si afferma appunto quel «paradigma vittimario» (una sorta di intuizione istituzionale dell’Onu, come ci ricorda Giovanni De Luna), che nella «centralità delle vittime» e nei «riti di espiazione e di riparazione» rispecchia la nostra comune appartenenza, la nostra dedizione al bene comune, i nostri sentimenti di comunità. Si piange nella memoria dei morti di piazza Fontana o dei caduti nei campi di sterminio, ma anche delle vittime del Vajont o del terremoto. Sotto il tricolore che sventola, al suono dell’inno. È tutto? No, si potrebbe aggiungere il calcio, ma solo quando la nazionale vince e riaccende l’orgoglio patrio. Ma di questo non si vive: siamo, per ora, al di là, di una solennità dovuta al traguardo dell’unità, al di qua di una religione dello Stato comune.
Resta un vuoto, resta un ritardo: l’unità e l’identità sono opere lunghe, dopo una divisione secolare politica, geografica, culturale (si potrebbe ricordare come l’unità tedesca nel diciannovesimo secolo e un decennio dopo quella italiana si cementò grazie alla politica ma anche grazie ad un lingua comune, il tedesco mandato a memoria leggendo la Bibbia, come pretende l’esercizio della fede protestante). Come rimediare? De Luna invita a guardare con fiducia alla conoscenza storica, perché «più storia e meno memoria vorrebbe dire distanziarsi dalla tempesta sentimentale che imperversa nelle nostre istituzioni, recuperare un rapporto più problematico, più consapevole, più critico» e allo stesso tempo invita a ritrovare in politica quella «mitezza», di cui aveva discusso Norberto Bobbio in una sua celebre conferenza del 1983, a Milano, intitolata proprio «elogio della mitezza». Mitezza che non è l’evangelica mansuetudine ma è la condizione di una democrazia inclusiva (termine sul quale più volte riflette De Luna), in una democrazia cioè che non esclude, che richiama, che attira, che coinvolge, che unisce.

Corriere della Sera 18.6.11
Appello a Freedom Flottilla & C.
Siamo umani anche con Gilad Shalit
di Stefano Jesurum


Il 25 giugno saranno cinque anni da quando il soldato, allora 19enne, Gilad Shalit è stato rapito in territorio israeliano (e non «catturato» in un’operazione di guerra nella Striscia occupata di Gaza). Sequestrato da un commando che lo ha poi consegnato nelle mani di Hamas. E proprio alla fine di giugno un gruppo di italiani s’imbarcherà sulle navi di Freedom Flottilla 2, destinazione Gaza. Uno degli slogan maggiormente usati dalla galassia filopalestinese più radicale — ambigua nel suo «pacifismo» a senso unico — è «Restiamo umani» . Un bello slogan, un ideale sacrosanto. «Restiamo umani» è quello che hanno ripetuto anche l’altra sera in un teatro di Milano la cantante Noa e lo scrittore David Grossman. Con loro lo gridano — nella vita e nella sofferenza quotidiana, nella realtà vera— gli israeliani e i palestinesi del dialogo, della convivenza, della ricerca di una soluzione giusta. Noa e Grossman hanno urlato ancora una volta che Israele è «il nostro luogo, la nostra patria, anche se l’instabilità, l’incertezza, il modo di governarlo ci stanno davvero stretti» , anche se troppo spesso l’attaccamento alla loro Terra è messo a dura prova. Grossman: «Anche se tutto ciò mi indurrebbe ad andarmene, so che questo non accadrà mai» . Altrettanto noi chiediamo agli uomini e alle donne di Freedom Flottilla 2 — e a chi li appoggia — non certo di rinnegare la propria aspra critica, legittima e talvolta condivisibile, ma di ricordarsi lo slogan «Restiamo umani» . Sulle loro navi, di fianco alla bandiera palestinese, srotolino anche un enorme striscione che chiede la liberazione di Gilad Shalit, innalzino cartelli in cui si dice che non è affatto umano lasciare chicchessia prigioniero senza processo, senza garanzie, senza colpe se non quella di esistere, senza visite né controlli della Croce Rossa o di organismi internazionali. Se non lo faranno, Freedom Flottilla &C. continuerà soltanto a portare odio, non aiuti. A fare, insomma, qualcosa di disumano.

l’Unità 18 .6.11
Louis Althusser
Quelle lettere all’amata uccisa
Pubblicato da Grasset, l’appassionato epistolario che il maestro dello strutturalismo dedicò alla moglie prima di strangolarla
di Anna Tito


È stato uno dei maggiori filosofi del XX secolo, il maître à penser di più generazioni d’intellettuali del mondo intero, insieme a Jacques Lacan, a Michel Foucault e a Roland Barthes, nonché il maestro dello «strutturalismo», corrente di pensiero destinata a rivoluzionare la storia della filosofia. Per trent’anni e più – dal 1947 al 1980 Louis Althusser indirizzò alla compagna e poi moglie Hélène struggenti lettere piene d’amore e di complicità ora pubblicate per la prima volta da Grasset. Una formula ricorreva nei saluti: «Ti stringo teneramente fra le braccia, mia piccola compagna». Ma all’alba grigia del 16 novembre del 1980, nell’appartamento all’Ecole Normale Supérieure in cui alloggiavano i coniugi Althusser, i colleghi del Maestro si trovarono dinanzi a una scena terrificante: «Venite a vedere, temo di avere ucciso Hélène!» urlava lui nel cortile. Era rimasto a lungo impiedi, in vestaglia, ai piedi del letto, a contemplare il volto immobile e sereno della «sua piccola compagna», si era poi inginocchiato e le aveva massaggiato il collo, a lungo e in silenzio: l’aveva appena strangolata.
Così Althusser divenne il «primo assassino della storia della filosofia», che, grazie al «complotto» dei «normaliani» – Bernard-Henry Lévy in testa – appellatisi all’articolo 64 del Codice penale pervennero a farlo dichiarare «incapace d’intendere e di volere», e a rinviarlo dinanzi agli psichiatri anziché dinanzi ai giudici di una Corte d’assise. Nel decennio seguente, nell’appartamento della rue Lucine-Leuwen, dove era stato «internato», il filosofo tenne a consacrare «la stanza di Hélène», dove ne aveva trasportato gli effetti.
«Se un uomo mi invia simili lettere per trent’anni e più, accetterei che alla fine mi strangolasse!» ha commentato a caldo una lettrice del volume. La dialettica fra creazione e distruzione conferisce alle lettere di Althusser una potenza letteraria senza pari: sotto la sua penna, tutto accade come se l’annientamento dell’altro e di sé fosse l’unico motivo per far reggere la coppia. Hélène, ebrea di origine russa, ex-resistente esclusa dal Partito comunista per ragioni mai chiarite, non fu «comoda» neanch’essa: «una mistica assoluta» secondo alcuni. Di fatto, la loro passione di certo non fu sessuale, e la corrispondenza testimonia un «desiderio di creare un vuoto per riempire una vita».
I PRIMI SINTOMI
Vi si rivive l’effervescenza degli avvenimenti politici: la questione di Suez, la crisi algerina, le posizioni di de Gaulle, nonché i ricordi di alcuni viaggi dei coniugi, in Corsica, nei Pirenei o a Venezia. Fra malesseri esistenziali e momenti sereni, appare un Althusser in pace con il mondo. La corrispondenza viene ritmata dalle «tempeste interiori»: il filosofo vi dettaglia la conversazione con uno psichiatra, gli effetti degli antidepressivi e degli elettrochok.
Nel 1961 i sintomi della depressione del Maestro appaiono sempre più evidenti, con la sintassi che sembra impazzire, le parole entrare in crisi, e la scrittura farsi delirante. Il tutto viene ad alternarsi con un linguaggio ludico che sembra anticipare i nostri SMS: «Motore e pneumatico OK». Parallelamente alla lingua, nell’immaginario di Althusser evolve anche la sua percezione di Hélène: la moglie cede il posto alla confidente, alla compagna nella follia. Pur manifestandole una tenerezza infinita, talvolta la colpisce con crudeltà, alludendo alle proprie amanti. In un martedì a mezzanotte, forse di aprile, concluse l’ultima delle missive ora pubblicate con un «Dammi fiducia».
Louis Althusser, Lettres à Hélène. Ed. a cura di Oivier Corpet, intro di Bernard-Henry Lévy (Grasset/ IMEC, 720 pp., 24 euro).

La Stampa Tuttolibri 18.6.11
Confronti
Sai dirmi se esiste il Nulla?
Quando non basta il buon senso per rispondere alle «grandi domande»
di Ermanno Bencivenga


Tra tutte le discipline accademiche, dichiara Simon Blackburn, «la filosofia rappresenta un’anomalia, poiché sembra prediligere le domande rispetto alla ricerca di risposte». E procede a formulare venti Grandi domande (trad. di Andrea Migliori, Dedalo, pp. 208, 15) «tra quelle che noi tutti - uomini, donne, bambini - ci poniamo spesso».
È un’esagerazione: non credo che uomini, donne e bambini si interroghino spesso, o anche solo talvolta, su «Che cosa riempie lo spazio», su «Perché esiste qualcosa piuttosto che nulla» o su «Come posso mentire a me stesso». Forse dovrebbero porsi tali questioni; forse il punto è proprio che la filosofia, disciplina anomala, dovrebbe insinuare dubbi e incertezze dove la vita quotidiana di uomini, donne e bambini non dà loro l’opportunità di coglierli. Forse dovrebbe anche sgomentarli, invitarli a mettersi in gioco, ad attentare al proprio equilibrio, a vacillare fra i baratri che d’improvviso apre sul loro cammino.
Forse, ma per un’attività così destabilizzante dovremmo cercarci un’altra guida. Blackburn, infatti, professore di Filosofia all’Università di Cambridge, Research Professor di Filosofia all’Università del North Carolina, è stranamente distante dalla sua disciplina e condisce i venti brevi itinerari aperti dalle sue domande con rassicuranti esortazioni a non prendersi troppo sul serio, a rimpiazzare l’angoscioso interrogare filosofico con un po’ di sano buon senso.
«Come possiamo affrontare l’incubo dello scetticismo totale? È possibile che stia vivendo un sogno solitario?» si chiede, e risponde: «No. Si tratta di un’eventualità del tutto remota». Riusciamo a comprenderci a vicenda, o anche a comprendere quel che noi stessi abbiamo detto, considerando che non solo non ci bagniamo mai due volte nello stesso fiume ma forse una nostra parola non ha mai due volte lo stesso significato? «Naturalmente è essenziale allontanarsi da questo abisso, e come sempre la miglior difesa contro lo scetticismo è il ricorso a situazioni familiari». Quanto poi al fatto che c’è qualcosa piuttosto che nulla, «eccoci rimasti a bocca aperta, ma ce lo siamo meritati perché sapevamo già dalla struttura della domanda che non saremmo stati in grado di trovare una risposta».
Prima di Blackburn, a Cambridge c’era stato Wittgenstein, ed è a lui che risale l’atteggiamento dominante in questo libro: la filosofia stravolge gli usi comuni delle parole impegolandosi (e impegolandoci, se le diamo retta) in pseudoproblemi; occorre curarsi dalle distorsioni prospettiche che essa causa e ritornare alle regole ordinarie del gioco linguistico. Tale atteggiamento terapeutico poteva indicare la strada di una pace invano cercata da Wittgenstein, che alle distorsioni filosofiche e ai turbamenti che ne seguono dedicò tutta la sua esistenza; ma fa un effetto peregrino quando il suo successore, con l’aria tranquilla di un curato di campagna, invece di acquietare anime tormentate da quesiti impossibili solleva gli stessi quesiti in un libro presumibilmente rivolto al grande pubblico, che perlopiù (nonostante le sue dichiarazioni iniziali) non si è mai sognato di porseli, per concludere in fretta che non c’è niente di cui preoccuparsi.
Cambridge ha una lunga storia, e varrà la pena di tornarvi indietro un altro passo. Negli Anni Dieci del secolo scorso, vi lavorava Bertrand Russell, che però non ne fu nominato membro per il suo agnosticismo in materia religiosa e fu successivamente licenziato. Ce lo racconta lui stesso, nei Saggi scettici pubblicati originariamente nel 1928 e ripresentati in una nuova edizione da Longanesi (trad. di Sergio Grignone, intr. di Giulio Giorello, pp. 333, 19,60).
Il vecchio maestro non disdegna le piccole certezze della quotidianità, ma non ne trae generale conforto perché ovunque s’impongano scadenze decisive quelle certezze non hanno nulla da dirci e chi afferma altrimenti è un ipocrita. Sono dubbi, dunque, tutto ciò che Russell ha da offrire: non solo sulla religione ma sulla politica, sull’etica, sulla scienza, sulla psicologia, sull’economia, sul futuro e perfino sullo scetticismo! Con il coraggio e l’onestà intellettuali di chi è disposto a mettere davvero tutto in gioco e a lasciarcelo: di chi sa vivere l’inquietante anomalia filosofica fino in fondo.
"Il professor Blackburn ci rassicura, ma noi preferiamo Russell, uno scettico che aveva solo dubbi da offrire Riscoprire il metodo di Wittgenstein: «correggere» la filosofia ritornando alle regole del gioco linguistico"

La Stampa Tuttolibri 18.6.11
Autobiografia, tra idee e affetti
Severino e il ricordo degli eterni
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E’ il filosofo di Parmenide, il pensatore dell’Essere assoluto, che negava il divenire. Emanuele Severino ripercorre la sua esistenza in Il mio ricordo degli eterni (Rizzoli, pp. 163, 18,50). La famiglia d’origine (natali a Brescia nel 1929), gli studi, i maestri (allievo di Gustavo Bontadini, da cui si distaccherà), la controversia con la Chiesa che lo allontanò dalla cattedra alla Cattolica, la figura essenziale che è stata la moglie Esterina. Luoghi, volti, esperienze, alla luce della consapevolezza che «ciò che se ne va scompare per un poco. Ma poi, tutto ciò che è scomparso riappare». L’autore di Essenza del nichilismo sospeso tra vita e pensiero, via via lasciando intendere, come giunse a sostenere Bobbio, che procedendo negli anni a contare sono infine più gli affetti che i concetti.

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L´uomo e il suo doppio nel "Dottor Jekyll e Mr Hyde" di Robert Louis Stevenson

Repubblica 18.6.11
Ginevra
Omosessuali, passa la risoluzione Onu "Voto storico, tutti hanno pari dignità"


GINEVRA - Il Consiglio dei diritti umani dell´Onu ha approvato una risoluzione "storica" (23 sì, 19 no e 3 astensioni) che afferma la parità dei diritti per tutti gli esseri umani, indipendentemente dall´orientamento sessuale. «Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti e a ciascuno di loro spettano tutti i diritti e le libertà senza distinzione di alcun tipo», si legge nel testo.