giovedì 16 dicembre 2010

Agi 10.12.10
Libri: A Firenze “Storie di Amore e Psiche”
Firenze, 10 dic. - Il segreto di un'identita' invisibile, i cui protagonisti sono da sempre ragazze e ragazzi innamorati, di ogni civilta', pervade gli strati della storia, appartiene a tutte le zone del mondo, e definisce un filone narrativo senza confini: e' la favola universale dello sconosciuto che la fanciulla puo' amare soltanto di notte. Dopo averne tradito il mistero, istigata da parenti invidiosi, deve poi superare ardue prove per riconquistarlo. Un'affascinante testimonianza del vagabondare attraverso l'antichita' di questa arcaica trama, talmente diffusa da poterla considerare "la storia d'amore piu' antica del mondo", si scopre in "Storie di Amore e Psiche", a cura di Annamaria Zesi, studiosa di storia della letteratura di tradizione orale, uscito nelle librerie di tutta Italia per i tipi de L'Asino d'oro edizioni, e che verra' presentato a Firenze domenica 12 dicembre 2010 presso la Libreria Melbookstore. Interverranno insieme all'autrice Cecilia Iannaco, Saverio Sani, Federico Masini e Romina Krieger. Il volume raccoglie diciannove "varianti" della favola - una delle quali, intitolata "'U Re d'Amuri" e' stata riscritta in siciliano per l'occasione da Andrea Camilleri -, che dall'Hindustan alla Scandinavia, dalla Persia alle coste Berbere del Mediterraneo, fino alla Russia passando per l'Italia, ripropongono in modo diverso il "plot" della favola di "Amore e Psiche". Sintesi di una ricerca che Annamaria Zesi svolge da lungo tempo, inseguendo tra biblioteche e racconti degli anziani ai mercati mediorientali, le tracce di un ciclo narrativo orale che dall'Anatolia e dall'Iran, attraverso il Caucaso, assume origine letteraria nell'India del II millennio a.C., per giungere poi sotto molteplici vesti (Dracula, La Bella e la Bestia, Biancaneve), fino ai giorni nostri. Il racconto che nel II sec. a.C Apuleio traspose nella prima forma letteraria conosciuta, identifica un vero proprio genere, le cui fila la studiosa ha ricostruito con estrema sensibilita' filologica, riportando alla luce e donando un senso a date, traduzioni e documenti a volte incongruenti. E' il sogno del principe azzurro, l'immagine ideale di ogni adolescente, che segna il passaggio all'eta' adulta. Che si chiami Urvasi, come la ragazza indoiranica protagonista di un inno vedico (Rgveda) di quattromila anni fa, oppure si chiami Tulisa, figlia di falegname e amica degli scoiattoli o sia la bellissima Sguardo Amoroso (Mer Niga), la persiana o la misteriosa berbera Yamina, o Parmetella la napoletana, oppure si chiami Rusiddra, protagonista siciliana della fiaba di Camilleri, tradotta da un racconto del Pitre', l'immagine di Psiche attraversa le epoche e ripropone forse il fascino di "una creazione collettiva", come adombra nella introduzione Annamaria Zesi, indagando con sapienza l'origine semantica del nome psyche': dall'omerico vita e respiro, fino all'iconografia etrusca che trasforma la parola in farfalla. E lo sconosciuto sposo, animale di giorno e bel giovane, aitante, di notte? Nella fantasia degli aedi che portavano per il mondo conosciuto le favole dei popoli senza scrittura, diventa a volte serpente, altre volte enorme aragosta oppure un cammello, che al buio si sveste della pelle selvatica e diventa umano. Tra i motivi che tornano in tutti i racconti, assieme a quello del divieto di guardare il volto dell'amante o di conoscerne il nome ("la gioia e lo smarrimento del misterioso abbraccio notturno, commenta Calvino", ricorda Annamaria Zesi nell'introduzione), ci sono l'invidia dei parenti che tramano inganni, e le difficili prove per riconquistare il bene perduto. Quasi che si trattasse di un "apprendistato della ragazza verso l'eta' adulta", afferma la Zesi, che cita nell'introduzione il professore Massimo Fagioli, autore dell'originale disegno di copertina di "Storie di Amore e Psiche", che in una lezione di psicologia parla di Psiche come di "una protagonista, che attraverso tutto il percorso della storia realizza la sua piena identita' di donna". (AGI) Sep qui
 un comunicato di  Giovanni Senatore

l’Unità 16.12.10
Il Pd vede un governo che durerà poche settimane. «In quattro commissioni è in minoranza»
«Serve una convergenza ampia». Fassina: «Fisicamente presenti nei posti di sofferenza»
Bersani riparte: «Ora in viaggio nell’Italia che vuole cambiare»
Il segretario del Pd convoca la Direzione e vede Veltroni. «Con i cambi di casacca si è solo accelerato verso le elezioni». Il governo sarà paralizzato anche nelle commissioni parlamentari, dove Fli è all’opposizione.
di Simone Collini


Bersani prepara un «Viaggio nell’Italia che vuole cambiare». Il leader del Pd non si rassegna all’«idea da irresponsabili» di andare alle urne, e al Nazareno spiegano che non sta pianificando questa serie di incontri con lavoratori di aziende in crisi, studenti e docenti di diverse scuole e università, imprenditori e sindacalisti, come l’avvio della campagna elettorale. Ma di fronte ai membri della segreteria che incontra di buon mattino e con i quali concorda di convocare la Direzione per giovedì, Bersani non esclude affatto tra le ipotesi il voto anticipato.
Il governo ha evitato la sfiducia per tre voti, è il suo ragionamento, ma anche se potrà ora «comprare qualche voto qua e là», con una maggioranza così risicata potrà al massimo «vivacchiare», rimanendo invece impotente di fronte ai gravi problemi che ha di fronte al paese. «Non riusciranno a prendere nessuna decisione importante», è la previsione del leader del Pd, che con i suoi ha ragionato non solo sui numeri ristretti su cui possono contare Pdl e Lega nell’aula di Montecitorio, ma anche sul fatto che ora che il Fli è organicamente all’opposizione, in quattro commissioni parlamentari il centrodestra è in minoranza (Affari costituzionali, Esteri, Difesa e Cultura), mentre c’è una situazione di parità alla Bilancio,
alla quale devono passare tutti i provvedimenti che necessitano di copertura finanziaria. Per questo Bersani pensa che nonostante le «cose invereconde» che hanno assicurato al governo la «sopravvivenza», il voto di quelli che hanno cambiato casacca ha solo «accelerato verso le elezioni».
Al quartier generale del Pd smentiscono però che il viaggio di Bersani attraverso i luoghi della crisi sia il via della loro campagna elettorale. Spiega Stefano Fassina, membro della segreteria e responsabile Economia del partito: «L’Italia ha profondi problemi che questo governo si è dimostrato incapace di affrontare. Il Pd vuole evitare che si allarghi la distanza tra politica, istituzioni e società. Per questo oltre all’elaborazione programmatica saremo presenti fisicamente nelle situazioni di maggiore disagio sociale».
ALLEANZA COSTITUENTE
Bersani ritiene che questa sia una «situazione straordinaria» e propone una «convergenza ampia» di forze politiche, economiche e sociali interessate a realizzare a una riforma istituzionale e a dar vita a un’«alleanza per la crescita e il lavoro». Per ora nell’ottica di un governo di responsabilità nazionale, ipotesi che per il leader del Pd non è definitivamente tramontata. Ma se la situazione dovesse precipitare e si andasse alle urne, questa alleanza “costituente” di cui il Pd sarebbe «perno centrale», potrebbe essere riproposta nella sfida elettorale.
Per quanto riguarda le forze politiche, sia Letta che D’Alema sottolineano la necessità di lavorare insieme al Terzo polo di Fini e Casini. Per il vicesegretario bisogna «ragionare» con loro di «un’alternativa di governo». E anche il presidente del Copasir definisce la
componente moderata «un interlocutore necessario».
Ma prima di tutto Bersani vuole assicurarsi che il partito dia di sé un’immagine unitaria. Per questo ha convocato per giovedì la Direzione del partito, come luogo in cui affrontare ogni possibile discussione, e per questo già ieri ha incontrato Veltroni. Bersani ha assicurato che vuole lavorare per rilanciare il Pd come «perno dell’alternativa», con il suo profilo e le sue proposte, e che sta alle altre forze decidere se unirsi o meno in questa battaglia. La pax democratica regge, ma questo non esclude che qualche battitore libero come Chiamparino vada all’attacco. «Col voto di martedì hanno perso sia il governo che l’opposizione perché pare che non si intraveda la piattaforma su cui si può chiamare gli italiani ad esprimere l’alternativa a Berlusconi», dice il sindaco di Torino, per il quale Vendola invece «sta facendo un lavoro utile perché sta restituendo identità e rappresentanza a spezzoni di una sinistra che ne erano privi e divisi».

Repubblica 16.12.10
Bersani: "Patto con tutte le opposizioni"
Il leader pd vede Veltroni. D´Alema: terzo polo necessario. Il 23 la direzione
Scoppia il caso Fioroni: pronto a passare nel Pdl? L´ex ministro "Balle spaziali"
di Giovanna Casadio


ROMA - «Prepariamoci alle elezioni che si avvicinano a grandi passi. Abbiamo sfiorato il traguardo di mandare a casa Berlusconi, non ci siamo riusciti, ma la partita è tutta aperta: il premier è sopravvissuto, il governo non c´è e può solo vivacchiare». Bersani apre la segreteria del "day after", rilanciando la strategia delle alleanze e chiedendo di abbassare la litigiosità interna: «Ci vuole unità». Propone, il segretario, un "patto costituzionale" di tutte le opposizioni, dalla sinistra al Polo della nazione di Casini-Fini-Rutelli per la svolta: «È una fase straordinaria che richiede risposte fuori dall´ordinario». D´Alema rincara: «Il Terzo Polo è una componente moderata importante che sta nell´opposizione ed è un interlocutore necessario per il Pd».
Nella riunione mattutina al Nazareno si decide di convocare una direzione per l´anti vigilia di Natale, il 23. La minoranza chiede infatti un dibattito a stretto giro di posta: non si può rinviare. Stefano Fassina in segreteria mette sul tavolo anche la questione primarie: «Vanno "registrate" - dice - perché complicano sia la vita interna che il rapporto con gli alleati». Insomma occorrerà rimettere mano allo statuto del partito per cambiare il meccanismo: prima si decidono le coalizioni e poi il candidato, e non viceversa. Ma ieri nel Pd è una giornata di colloqui: Bersani a Montecitorio ha un faccia a faccia di quaranta minuti con Veltroni, il leader della minoranza di Modem ed ex segretario; sente Di Pietro (tensione dopo lo scambio di accuse sui transfughi Scilipoti e Razzi) e Casini e Fini. L´intervista a Repubblica in cui D´Alema dà del "mentecatti" e "cretini" a chi dissente dalla strategia seguita finora dai Democratici, provoca qualche reazione.
Insorgono i prodiani Sandra Zampa e Mario Barbi («Non credo che dando del cretino si va lontano»). Sul piede di guerra è anche Beppe Fioroni, ex Popolare e uno dei leader di Modem, che deve difendersi dalle voci che lo vogliono in uscita verso il Terzo Polo o addirittura verso il Pdl, convinto da Bonanni e da Sacconi. Lo riporta la "Velina rossa". «Una balla spaziale - si scalda Fioroni - qualcuno provoca perché vuole che me ne vada, è lo stesso assalto fatto alla Cisl». E sui cretini: «I cretini si valutano dai risultati, se sono efficaci o meno». Bonanni e Fioroni si sono telefonati; entrambi la giudicano un´aggressione ai loro danni.
Freddi invece sarebbero i rapporti tra Veltroni e Fioroni, che si è ritagliato uno spazio tutto suo con una fondazione ad hoc. Comunque Modem si riunisce lunedì e prepara il "Lingotto 2" di Torino fissato il 22 gennaio, mentre il Pd ha convocato a Napoli la sua seconda conferenza programmatica, il 29 gennaio. Tutto aperto il fronte a sinistra e l´alleanza con Vendola.
"Sinistra ecologia e libertà" convoca un vertice ieri. Vendola attacca: «Il centrosinistra deve cambiare strada, l´idea di uscire dal ciclo del berlusconismo attraverso strade ingarbugliate, confuse e tutte interne al palazzo del Potere, non ha avuto grande fortuna». Per il leader di Sel bisogna dire «basta con le acrobazie alleanzistiche, con le furbizie, con le reticenze. I professionisti della sconfitta facciano un passo indietro». Irritati i Democratici. In segreteria, Vendola che nel giorno della sfiducia fallita a Berlusconi parlava a Montecitorio della premiership del centrosinistra è stato paragonato a «un falco» che approfitta della situazione.

l’Unità 16.12.10
Libia e Malta, l’inferno dei migranti in fuga da guerre e disperazione
Il libro nero di Amnesty sui profughi intercettati e mandati nelle prigioni La somala Farah Anam: meglio morire in mare che tornare in quelle celle
di Umberto De Giovannangeli


Le sue parole valgono più di mille trattati nel mettere in luce una tragedia annunciata. E da molti, troppi, colpevolmente dimenticata: «È meglio morire in mare che tornare in Libia». A pronunciarle è Farah Anam, una donna somala arrivata a Malta nel luglio 2010 attraverso la Libia. I migranti, i rifugiati e i richiedenti asilo in fuga dalla persecuzione e dai conflitti armati vanno incontro alla tortura e al carcere a tempo indeterminato nel loro tentativo di arrivare in Europa attraverso la Libia.
A denunciarlo è Amnesty International in un nuovo rapporto dal titolo «Cercare salvezza, trovare paura: rifugiati, richiedenti asilo e migranti in Libia e a Malta». Il rapporto mette in luce la sofferenza di quanti cercano di raggiungere l’Unione europea, molti in cerca di asilo e protezione, e le violazioni dei diritti umani che subiscono in Libia e a Malta. «In Libia i cittadini stranieri, compresi i rifugiati, i richiedenti asilo e i migranti, si trovano in una condizione di particolare vulnerabilità e vivono nella costante paura di essere arrestati e detenuti per lunghi periodo di tempo, torturati e sottoposti a ulteriori violazioni» rimarca Malcolm Smart, direttore del programma Medio Oriente e Africa del Nord di Amnesty International. «Inoltre, molti di essi temono di essere espulsi verso i Paesi di origine, senza alcuna considerazione per il concreto rischio di subire persecuzioni una volta fatti rientrare».
Per le autorità di Tripoli, vi sono oltre tre milioni di «migranti irregolari» in Libia. Molti provengono da altre parti dell’Africa eppure le autorità locali continuano a dire che nessuno di essi sia un rifugiato. Decine di migliaia di persone lasciano la Somalia ogni anno per iniziare un lungo e pericoloso viaggio attraverso nazioni quali la Libia per fuggire al conflitto che sta devastando il loro Paese dal 1991. Molte spendono tutti i loro risparmi per intraprendere una pericolosa traversata del Mediterraneo. I rifugiati e i richiedenti asilo in Libia vivono in un limbo legale che non tiene conto del loro bisogno di protezione. La Libia non ha firmato la Convenzione Onu sullo status di rifugiato del 1951 e non ha un sistema d’asilo in vigore. Quest’anno a novembre il governo ha pubblicamente respinto la raccomandazione di ratificare la Convenzione e sottoscrivere un memorandum d’intesa con l’agenzia dell’Onu per i rifugiati, l’Unhcr, per consentire a quest’ultima di assistere i rifugiati e i richiedenti asilo in Libia. «I richiedenti asilo e i rifugiati in Libia non hanno nessuno cui chiedere aiuto e sono diventati ancora più vulnerabili da quando, a giugno, le autorità di Tripoli hanno ordinato all’Unhcr di sospendere le attività. Il minimo che il governo libico dovrebbe fare invece è proteggere dagli arresti, dalla violenza e dagli abusi coloro che fuggono da persecuzione e conflitti e garantire che non siano rinviati in luoghi dove potranno correre il rischio concreto di subire gravi danni e persecuzione», afferma Smart. È l’odissea di Ahmed Mahmoud e Miriam Hussein, una coppia somala fuggita dal loro Paese in Libia: hanno vissuto nel costante pericolo di essere arrestati, non hanno potuto trovare un lavoro e sono stati rapinati ripetutamente, fino a quando hanno deciso di tentare di raggiungere l’Europa via mare. Miriam era incinta di sette mesi.
Il 17 luglio di quest’anno i due, facenti parte di un gruppo di 55 somali a bordo di un’imbarcazione in avaria, sono stati intercettati e soccorsi da vascelli libici e maltesi. Miriam Hussein e altre 26 persone sono state immediatamente riportate in Libia mentre le altre 28, compreso Ahmed Mahmoud, sono state condotte a Malta. In Libia, il gruppo di cui faceva parte Miriam Hussein è stato immediatamente portato in carcere. Gli uomini hanno fatto sapere di essere stati picchiati e torturati con scosse elettriche. Due mesi dopo, Miriam Hussein ha partorito un feto morto. Torture e altre violazioni ai danni di rifugiati, richiedenti asilo e migranti sono un fatto sistematico in Libia. I guardiani delle carceri prendono spesso a pugni i detenuti o li colpiscono con tubi di metallo o bastoni. Chi osa protestare per le condizioni di detenzione o chiede assistenza medica rischia di subire ulteriori aggressioni o punizioni. Ciò nonostante, a ottobre, la Commissione europea ha sottoscritto con le autorità libiche una «agenda per la cooperazione» sulla «gestione dei flussi migratori» e sul «controllo alle frontiere», valida fino al 2013 e in base alla quale l’Ue metterà a disposizione della Libia 50 milioni di euro. Nel frattempo, Unione europea e Libia stanno negoziando un più ampio «Accordo quadro» che consentirebbe, tra l’altro, la «riammissione’ in Libia di cittadini provenienti da “Paesi terzi” entrati in Europa dopo aver transitato in Libia. «La cooperazione tra Ue e Libia deve avere al centro i diritti umani e la condivisione delle responsabilità, ovvero i principi fondamentali della protezione internazionale. Mentre cercano la cooperazione con la Libia per contrastare l’arrivo di persone dall’Africa, l’Unione europea e i suoi Stati membri non devono chiudere gli occhi di fronte alle costanti violazioni dei diritti umani in Libia», ammonisce Smart.
Tra il 2002 e il 2009 si stima che 13.000 persone siano arrivate a Malta dalla Libia. Malta, tuttavia, non si è rivelata il rifugio sicuro che speravano di raggiungere. Sulla base delle leggi maltese, ogni persona che arriva per la prima volta sul territorio, compresi i richiedenti asilo, viene considerata «migrante proibito» e rischia la detenzione obbligatoria a tempo indeterminato, in pratica fino a 18 mesi. I rimedi legali esistenti per opporsi alla detenzione sono stati giudicati «inefficaci» dalla Corte europea dei diritti umani. «Le autorità maltesi devono garantire che le operazioni d’intercettazione e di soccorso in mare non determinino il rinvio forzato o l’espulsione di persone già in condizioni di vulnerabilità verso la Libia o verso altri Stati dove si troverebbero nel rischio concreto di subire gravi violazioni dei diritti umani», rileva Smart. Amnesty ha lanciato un appello alla Commissione europea e all’Italia chiedendo che i diritti umani e le garanzie per i rifugiati, richiedenti asilo e migranti siano al centro della cooperazione con la Libia. Farlo vorrebbe dire entrare in rotta di collisione con il Raìs di Tripoli, Muammar Gheddafi. Il grande amico di Silvio Berlusconi.

il Fatto 16.12.10
Movimento spaccato
Gli studenti divisi sugli incidenti: molte condanne ma c’è chi giustifica
di Caterina Perniconi


Nella cittadella universitaria regna la quiete dopo la tempesta. Sotto la statua della Minerva de La Sapienza a Roma ci sono gruppi di ragazzi che studiano al leggero tepore del sole di dicembre. La manifestazione di ieri è l’argomento del giorno. Ne parlano tutti. A Radio Sapienza se ne discute già la mattina presto. Davanti a una rassegna stampa che per lo più tratta di facinorosi e black bloc, gli speaker trasaliscono. Che qualche ragazzo proveniente dai centri sociali facesse parte della manifestazione è indubbio, ma che negli   scontri siano coinvolti per lo più frange studentesche estremiste e non esterni a loro è chiaro. Come ai ragazzi raccolti nelle assemblee delle varie facoltà a La Sapienza. È da qui che è partito il corteo di martedì e anche molti dei giovani coinvolti negli scontri.
NELLE AULE occupate, infatti, non sono pochi quelli che rivendicano la violenza come strumento di lotta politica ed espressione del disagio sociale. “È l’unico metodo col quale possiamo portare in piazza la rabbia e l’esasperazione – spiega Roberta, studentessa di Sociologia – io martedì ho dovuto lasciare il   corteo in anticipo e non ho visto gli scontri di piazza del Popolo, ma non li condanno. Sono solo contraria alle devastazioni gratuite, quelle non servono”.
Pareri simili sono emersi anche durante l’assemblea di Giurisprudenza. Ma c’è una maggioranza che non la pensa così, e che ieri è andata all’Università agguerrita per dimostrare il proprio dissenso: “Quello che è successo martedì è la dimostrazione della peggiore realtà del movimento – dichiara Cosimo – in un pomeriggio sono riusciti a cancellare il lavoro di un anno. Avevamo alzato la voce e la politica ci aveva sentito. Ora penseranno che siamo tutti studenti   esaltati”. Di certo, fanno notare, c’erano diverse componenti tra i violenti. Quelli che spaccano i bancomat, per intendersi, sono giovani legati alle realtà dei centri sociali. Mentre tra coloro che hanno tentato di forzare i blocchi, scontrandosi con la polizia, gli studenti sono la maggioranza. Agli infiltrati danno poca importanza: “Ci siamo accorti che   i ragazzi dei centri sociali ogni tanto non riconoscevano alcune persone nei loro gruppi, ma non abbiamo pensato a un piano studiato, anche se qualcuno ci poteva essere”. I testimoni dei momenti di massima tensione lamentano la disorganizzazione delle forze dell’ordine rispetto a una manifestazione molto più ampia del previsto:   “Se non avessero perso la testa i poliziotti – raccontano gli universitari – probabilmente anche i ragazzi non sarebbero arrivati a tanto”.
Il punto, però, è capire dove vogliono arrivare i contestatori. “Sicuramente non cercano il dialogo – spiega ancora Cosimo – ma non ho sentito nemmeno parlare di alternative percorribili, come per esempio il referendum   dopo l’approvazione della legge Gelmini. E allora, con una giornata come ieri nella quale non hanno ottenuto nulla, cosa vogliono davvero?”.
PER CLAUDIO Riccio, del coordinamento universitario Link, il problema è proprio quello della rappresentanza e del futuro: “Siamo stati lasciati soli in troppe battaglie, adesso dobbiamo capire come produrre il cambiamento. Questa classe dirigente non funziona e noi dobbiamo costruire il consenso intorno a noi. La sensazione di martedì, dopo la fiducia a Berlusconi, era quella di una sconfitta, ma non abbiamo perso. Ci siamo fatti sentire. Ora la domanda che ci dobbiamo porre è: al di là della reazione istintiva, come proseguiamo?”.
E la rivendicazione studentesca degli scontri è arrivata anche da Torino: “Ma quali infiltrati e facinorosi? In strada a Roma come a Torino c’erano soltanto studenti arrabbiati che hanno voluto esprimere il loro dissenso”.   Le parole di Dana Lauriola, leader del movimento studentesco autonomo di Torino, chiariscono la posizione dei manifestanti: “Chi divide i contestatori tra buoni e cattivi non capisce che in piazza è andata semplicemente la rabbia collettiva e diffusa che per una volta è riuscita a organizzarsi”.

Repubblica  16.12.10
Ho visto esplodere la rabbia è una rivolta generazionale"
Uno dei leader anti-Gelmini: si rischia la deriva
I giovani sanno che per loro l´ascensore sociale sta andando al contrario, la disperazione è sempre più forte
di Maria Novella De Luca


ROMA - «Ero lì, tra i ragazzi, nel corteo. E quello che mi ha colpito di più è stato vedere la rabbia che cresceva, e centinaia di studenti unirsi ai gruppi che fronteggiavano la polizia e provavano a sfondare i blindati. Sbaglia chi pensa che si tratti soltanto di frange organizzate. Martedì nel corteo è esplosa una rabbia generazionale, la frustrazione di chi sa di non essere ascoltato. E questo è pericoloso e preoccupante». Gianni Piazza ha 47 anni, insegna Scienze Politiche all´università di Catania, ed è uno dei ricercatori della "Rete 29 aprile" che da un mese "occupa" il tetto della facoltà di Architettura di Roma.
Piazza, perché parla di rabbia generazionale? E che cosa sta succedendo nel movimento?
«Si sapeva fin dall´inizio che ci sarebbero stati gruppi che avrebbero provato a violare la cosiddetta zona rossa. Era già successo in alcune manifestazioni precedenti. Ma erano rimasti episodi limitati. Anche perché questo movimento non ha alcuna matrice ideologica di violenza, e martedì erano davvero pochi quelli arrivati alla manifestazione con l´intenzione di mettere a ferro e fuoco la città».
Però è accaduto…
«Infatti, e invece di indietreggiare, di isolare i violenti, una buona parte di manifestanti si è buttata negli scontri. Come se, soprattutto dopo la notizia della fiducia a Berlusconi, il senso di frustrazione, di essere centomila in piazza ma nessuno per il governo, avesse avuto il sopravvento».
Voi ricercatori siete la parte "adulta" della protesta. Si può ancora in qualche modo fermare la deriva violenta?
«Mi auguro di sì, perché ripeto questo movimento universitario che si è collegato con le grandi aree di disagio sociale del paese, finora ha mostrato lucidità e anche resistenza. Ma se continuerà ad esserci questa chiusura totale da parte del governo, la situazione può diventare ingestibile».
Ma lei, tra i suoi studenti, ha percepito la tentazione di una svolta verso forme di protesta più estreme?
«No, direi di no. Però la disperazione è forte. E riguarda anche le fasce più adulte, i ricercatori. I giovani sanno che stanno prendendo l´ascensore sociale al contrario, studiano ma sono consapevoli di non avere futuro, la loro sfiducia adesso si è trasformata in rabbia, e questo può portare ad una escalation di violenze».
Lei ha scritto diversi libri sui movimenti studenteschi, di cui l´ultimo sull´Onda. Oggi però le similitudini più forti sembrano essere quelle con gli anni Settanta.
«Forse nelle modalità degli scontri, o nella protesta sociale. Ma per fortuna nell´università, come nella società, non ci sono modelli di gruppi armati e soprattutto non ci sono ideologie. Non siamo negli anni Settanta, però da martedì qualcosa è cambiato, e adesso le reazioni di questo movimento fino ad ora pacifico sono diventate imprevedibili. Per questo credo che sia gravissima la decisione del Governo di voler approvare la legge Gelmini il 22 dicembre, rischiando un´altra giornata di guerra».
Proprio il 22 dicembre sarà un mese che siete sul tetto di Architettura.
«Sì, e fa molto freddo, ma quel tetto è diventato davvero un simbolo importante. E da come vanno le cose rischiamo di restarci ancora a lungo».

Corriere della Sera 16.12.10
Quei due incappucciati e il giallo del doppio fermo
Usano transenne, manette e manganelli. Studenti o provocatori?
di Fiorenza Sarzanini


ROMA — Il sospetto è nato esaminando foto e filmati degli scontri avvenuti ieri a Roma. E si è concentrato sull’atteggiamento di due giovani, entrambi con il cappuccio in testa e la sciarpa a coprire il volto, che si confondono tra i manifestanti ma si comportano come se appartenessero alle Forze dell’ordine. «Infiltrati in piazza» , denuncia il Partito democratico. In realtà i politici del centrosinistra guidati da Anna Finocchiaro sembra vogliano alludere alla presenza nel corteo di veri e propri agenti provocatori. In serata la questura respinge in maniera netta l’accusa con una nota ufficiale e dichiara che uno dei due è stato in realtà «identificato, è minorenne ed è attualmente ricercato» . Dopo un’ora arriva la notizia che la polizia lo ha arrestato. Rimane il mistero del doppio fermo, perché sono proprio le immagini a dimostrare come il ragazzo fosse già stato portato via durante gli scontri. Per ricostruire quanto accaduto si torna dunque in via del Corso, nei momenti concitati di quella guerriglia urbana andata avanti per oltre tre ore. Si nota un uomo con i jeans, le scarpe da ginnastica e un giubbotto beige che in altre immagini compare con una pala in mano mentre colpisce un blindato della Guardia di finanza che fa marcia indietro per sfuggire alla furia dei dimostranti. Accanto a lui c’è sempre un altro uomo, più corpulento che indossa jeans, felpa grigia e giubbotto blu. Le telecamere li inquadrano mentre sono vicinissimi al finanziere che, dopo essere stato aggredito, ha impugnato la pistola. Quello vestito di blu gli cinge il collo quasi a sorreggerlo, come se volesse proteggerlo e aiutarlo a risollevarsi; l’altro osserva la scena dal marciapiede. Nelle mani ha un paio di manette e un manganello. I video lo inquadrano mentre lo agita senza però colpire nessuno. In un’altra sequenza si accanisce su un finanziere mentre è a terra. Ci sono poi le immagini scattate davanti all’hotel Plaza. I due giovani trasportano insieme una transenna al fianco di un uomo che si protegge con lo scudo della Guardia di finanza. Chi è? Sembra un agente in borghese, però non si preoccupa di quei due che stanno alzando un muro di protezione contro le "cariche"e li lascia fare in indisturbati. Si tratta dunque di un manifestante che ha rubato lo scudo? A questo punto bisogna andare avanti con il film della giornata e giungere fino al momento del fermo. È un video girato da "Youreporter"visibile sul sito internet del Corriere della Sera a mostrare quanto accade. Il giovane viene portato via da due poliziotti e mentre un terzo si avvicina comincia a gridare: «Sono minorenne» . Non se ne sa più nulla fino a ieri, quando si scopre che è ricercato per l’aggressione al finanziere. Perché non è stato trattenuto subito? Per quale motivo, nonostante gli scontri così violenti, si è deciso di lasciarlo andare. In questura spiegano che in realtà inizialmente non c’erano accuse specifiche e soltanto la visione delle immagini ha consentito di accertare il suo coinvolgimento nell’aggressione al finanziere. E poi fanno sapere che «ha 16 anni, una militanza nell’estrema sinistra e alcuni precedenti all’hotel Plaza. I due giovani trasportano insieme una transenna al fianco di un uomo che si protegge con lo scudo della Guardia di finanza. Chi è? Sembra un agente in borghese, però non si preoccupa di quei due che stanno alzando un muro di protezione contro le "cariche"e li lascia fare in indisturbati. Si tratta dunque di un manifestante che ha rubato lo scudo? A questo punto bisogna andare avanti con il film della giornata e giungere fino al momento del fermo. È un video girato da "Youreporter"visibile sul sito internet del Corriere della Sera a mostrare quanto accade. Il giovane viene portato via da due poliziotti e mentre un terzo si avvicina comincia a gridare: «Sono minorenne» . Non se ne sa più nulla fino a ieri, quando si scopre che è ricercato per l’aggressione al finanziere. Perché non è stato trattenuto subito? Per quale motivo, nonostante gli scontri così violenti, si è deciso di lasciarlo andare. In questura spiegano che in realtà inizialmente non c’erano accuse specifiche e soltanto la visione delle immagini ha consentito di accertare il suo coinvolgimento nell’aggressione al finanziere. E poi fanno sapere che «ha 16 anni, una militanza nell’estrema sinistra e alcuni precedenti » . Dettagli resi pubblici per smentire con decisione che possa trattarsi di un «infiltrato» . Nulla si sa invece dell’uomo con il giubbotto blu che ha prestato soccorso al finanziere prima che i suoi colleghi in divisa lo portassero via con la testa sanguinante e lo sguardo perso, visibilmente sotto choc. Durante i cortei è prevista la presenza in piazza di poliziotti e carabinieri in borghese che hanno il compito di «monitorare» per quanto possibile i manifestanti cercando di scongiurare pericolose degenerazioni. Si tratta di un’attività che viene affidata agli specialisti della Digos e del Ros proprio per le loro capacità particolari di gestire anche le situazioni di massima criticità. In questo caso i sospetti rilanciati dal Partito democratico riguardano la possibilità che tra quei giovani ci fossero veri e propri provocatori, appartenenti alle Forze dell’ordine travestiti da contestatori per «agitare» il clima e far salire la tensione. Ma è una circostanza che gli stessi promotori della protesta si affrettano a negare. Lo dice senza mezzi termini Andrea Alzetta, di Action che ammette come «la situazione sia sfuggita di mano anche a noi organizzatori perché in piazza c’erano ragazzini tra i 20 e i 25 anni e addirittura molto più piccoli, che hanno colto l’occasione per scatenare la propria rabbia. Ma se il Pd si inventa la presenza degli infiltrati vuol dire che non ha capito che cosa sta accadendo e soprattutto non conosce questa realtà giovanile, è distante dalle loro dinamiche e sta cercando un capro espiatorio» . Nicola Tanzi, segretario del sindacato di polizia Sap, chiarisce che «queste tecniche non sono più usate in ordine pubblico da almeno trent’anni e dunque ritengo si stia cercando di strumentalizzare la situazione, mentre sarebbe opportuno ricercare le radici di questo disagio e condannare con fermezza l’azione dei violenti» . Ancor più chiaro è Claudio Giardullo del Silp-Cgil, secondo il quale «l’arresto del manifestante vestito di beige dovrebbe mettere fine alle illazioni. Non c’è alcun elemento per parlare di infiltrati e credo che in casi come questi ci voglia estrema prudenza» .

il Fatto 16.12.10
L’economia secondo Vendola
di Sandro Brusco
, Stony Brook University, New York

Le quotazioni di Nichi Vendola sono in costante crescita ed è giunto il momento di esplorare, al di là degli slogan e delle dichiarazioni altisonanti, qual è la sua effettiva proposta di politica economica. La sua esperienza come governatore della Puglia non è di particolare aiuto. L’Italia non è un paese federale e la politica economica che si può attuare a livello regionale sulla variabili che contano, in particolare le decisioni di tassazione e spesa pubblica, ha ben poco a che vedere con le decisioni intraprese a livello centrale. Il giudizio, necessariamente provvisorio, sulla proposta economica di Vendola deve quindi basarsi sulle sue (poche) uscite pubbliche sul tema. Baserò la mia analisi su due interviste che Vendola ha rilasciato al Sole 24 Ore, una lo scorso 27 ottobre e l’altra il 21 agosto. Il materiale è limitato, ma alcune idee risultano abbastanza chiare. 
 Lo Stato e la crisi
I CARDINI di qualunque organica di politica economica dovrebbero essere due. Primo, dato che l’Italia manifesta da più di un decennio un drammatico problema di crescita del reddito e della produttività, occorre un’analisi delle ragioni di tale crisi e una proposta per riattivare il processo di crescita. Secondo, dato che l’Italia resta un paese con un altissimo debito pubblico occorre spiegare come si intende ripagare tale debito. La prima questione è normalmente ignorata nel dibattito politico. Il centrodestra ha propagato l’assurda favola del paese in cui va tutto bene, facendo finta che i problemi non esistano. Il centrosinistra oscilla tra timide proposte di liberalizzazione e difesa dello status quo. La seconda questione è invece normalmente affrontata in modo sostanzialmente simile nei due schieramenti: il debito si paga tassando in modo massiccio gli italiani e senza toccare la spesa pubblica. Sto parlando dell’azione concreta di governo, non dei proclami retorici. In questo quadro, qual è la novità della proposta di Vendola? Direi nessuna.
Spero di non far troppa violenza al pensiero di Vendola se dico che le risposte che appaiono dai suoi interventi sono: 1) la produttività è bassa perché le imprese non investono e non innovano; 2) la soluzione è un attivo intervento dello Stato che dovrebbe investire direttamente e finanziare le imprese nei settori più utili alla crescita della produttività. Vendola quindi pensa che i politici siano più bravi degli imprenditori a scegliere gli investimenti e le industrie giuste. Questo è quello che pensano e fanno anche Berlusconi e Tremonti, per esempio dirigendo l’operazione Alitalia o sussidiando l’acquisto di motori fuoribordo e altri aggeggi i cui produttori stanno simpatici al governo. Se decenni di partecipazioni statali, interventi straordinari, cattedrali nel deserto e altri simpatici frutti degli “investimenti strategici” guidati dalla mano pubblica non sono stati sufficienti a convincere che sia una cattiva idea presumere che i politici sappiano   meglio degli altri come investire i soldi (sempre degli altri), dubito che niente possa esserlo. Anche su spesa pubblica e tassazione la posizione di Vendolamanifesta una sostanziale continuità con il pensiero unico delle classi dirigenti politico-economiche italiane. Per esempio, nel-l’intervista di agosto, Vendola afferma che “occorre sostenere la domanda interna, dare ossigeno ai ceti medio-bassi, aumentare l'area di consumo, sbloccare la spesa degli enti locali ibernata dalle ridicole penalità delle norme sul patto di stabilità”. Andando al sodo, Vendola propone di sussidiare i consumi privati e aumentare la spesa pubblica locale. Questo può sembrare diverso da ciò che sta facendo Tremonti ma non lo è affatto. Per esempio, appena insediato, Tremonti si sbracciava affermando la necessità   di ''sostegno della domanda'', che poi voleva dire abolire l'Ici.E quando gi unge l'ora, la faccia dura del Tremonti rigorista si trasforma sempre nel sorriso compiacente del distributore di mancette, basta guardare l'ultimo maxi-emendamento alla legge finanziaria, in cui tra le altre cose si viene incontro esattamente alla richiesta vendoliana di allentare il patto di stabilità per i comuni.
Un giorno al governo
SE MAI ANDASSE al governo Vendola, che ha più volte dato prova di pragmatismo, dovrebbe prendere atto dei vincoli imposti dalla presenza di un debito pubblico che naviga al momento verso il 120 per cento del Pil. Il governo non può allentare i cordoni della Borsa. Se i mercati si convincessero che il tempo della responsabilità   è passato, i tassi sul debito schizzerebbero immediatamente a livelli greci o irlandesi. Vendola lo sa, e sa anche che più di tanto le tasse non si possono aumentare. Ne segue che grandi programmi di aumento della spesa pubblica, indipendentemente dal giudizio sulla loro desiderabilità   , semplicemente non sono possibili. Per cui tutte le menate sull'allargamento dell'area del consumo e sulla spesa degli enti locali non possono che ridursi, in perfetta continuità con la linea seguita finora, in interventi cosmetici e necessariamente di entità ridotta. In altre parole, cose come la detassazione dei premi di produzione e gli “incentivi” per motori fuoribordo, probabilmente con un twist di sinistra. Poca roba, comunque. Nel frattempo, la pressione fiscale verrà mantenuta agli attuali, insopportabili, livelli. Una volta esclusa la possibilità di una riduzione della spesa pubblica questa è infatti l’unicaalternativa che resta alla crisi finanziaria. 
Non sono in grado di esprimere un giudizio globale sulla proposta politica di Vendola. Per ciò che riguarda la politica economica, che è l’unica area in cui posso esprimere un giudizio informato, mi pare che non ci sia alcuna novità. Mi aspetto quindi che, se Vendola si trovasse un giorno a Palazzo Chigi, la stagnazione italiana continuerebbe, più o meno con le stesse modalità con cui è continuata sotto i governi di centrodestra.

il Fatto 16.12.10
Saltano le teste dell’informazione francese
Cacciato il direttore di “Le Monde”, la regina della tv rischia il posto
di Gianni Marsilli


Parigi. Tempi duri per le teste coronate della stampa francese. Una è rotolata ieri sul selciato di boulevard Blanqui, davanti alla sede parigina di Le Monde. Era quella del direttore Eric Fottorino, entrato in rotta   di collisione a tempo di record con i nuovi padroni del giornale: il trio composto da Pierre Bergé, Xavier Niel e Mathieu Pigasse l’ha congedato appena un mese dopo aver formalizzato l’acquisto del quotidiano. Era stata la redazione a scegliere con un voto i propri “salvatori” (c’erano altri candidati),   che lo stesso Fottorino aveva salutato con grande favore. I tre sono decisamente targati a sinistra: Pierre Bergé, per esempio, ha finanziato diverse campagne elettorali dei socialisti, non ultima quella di Ségolène Royal. La leggendaria indipendenza del giornale, si disse, era salva, garantita dall’ampiezza di mezzi   degli acquirenti e dagli impegni solennemente assunti. Tutto ciò non ha impedito il varo immediato di un piano di riduzione dei costi, il blocco del rinnovo dei contratti dei precari, nuovi criteri per viaggi e note spese, l’apertura di uno sportello per incoraggiare le dimissioni e negoziare le buonuscite, e soprattutto l’arrivo di un nuovo management. È quest’ultimo che ha fatto saltare i nervi a Fottorino, che già un paio di settimane fa aveva inviato ai nuovi   proprietari una lettera nella quale denunciava, tra l’altro, “molestie morali” nei suoi confronti: i nuovi padroni, in sostanza, facevano come se lui non esistesse. Fottorino ipotizzava: “Lo scopo di tutto ciò è disgustare il management e costringerlo alla porta evitando di versargli le indennità di licenziamento”   . Il divorzio era dunque nell’aria: da ieri “le funzioni manageriali e editoriali sono ormai separate”, come recita il comunicato del Consiglio di sorveglianza. Fottorino rimane ancora per qualche settimana alla guida del quotidiano (non più del gruppo), il tempo di trovargli un successore. L’altra illustre   testa ieri in bilico era quella di Christine Ockrent, 66 anni, notissima anchor woman della tv francese nonché direttore generale di Aef, che raggruppa tutto ciò che il servizio pubblico produce per l’estero: France 24 (nelle intenzioni una Cnn francofona), Rfi (Radio France Internationale) e Tv5. I 500 e passa dipendenti del gruppo in serata erano chiamati a votare o meno una mozione di sfiducia nei suoi confronti. Appena venerdì scorso, inoltre, quasi tutti i direttori   e i vicedirettori del gruppo avevano annunciato che non avrebbero più partecipato ad alcuna riunione nella quale fosse presente la celebre Christine, essendo venuto a mancare “il legame di fiducia” necessario.
LA OCKRENT è accusata nientemeno che di spionaggio interno. Avrebbe affidato alla sua più fedele collaboratrice, Candice Marchal, il compito di spiare, sapere e riferire. La fedele Marchal si è allora procurata tutte le password necessarie per leggere le mail di direttori e redattori. A consegnarle i codici è stato proprio il responsabile della “sicurezza” del gruppo, un vecchio amico della Ockrent. Purtroppo per quest’ultima, esistono le mail che si scambiava con la Marchal, il cui senso appare inequivocabile: questo pensa male di te, l’altro è troppo ambizioso, e via di questo passo. La Ockrent, peraltro moglie di Bernard Kouchner, ex socialista, fino ad un mese fa ministro degli Esteri di Sarkozy,   nega tutto ferocemente, si considera disonorata ed è passata alle vie legali. Ha però già subito una severa ramanzina da parte del ministro della Cultura, Frederic Mitterrand, che non fa presagire nulla di buono sul suo futuro.

Corriere della Sera 16.12.10
I tre nuovi azionisti alla testa di Le Monde silurano il direttore
Scontro sulla gestione del quotidiano
di  Stefano Montefiori


Si avvia alla conclusione l’esperienza di Eric Fottorino alla testa di Le Monde, il quotidiano francese da poche settimane in mano alla nuova proprietà del trio «Bnp» (Pierre Bergé, Xavier Niel e Matthieu Pigasse). L’azienda ha evocato una «divergenza di vedute» per estrometterlo, da ieri, dalla gestione manageriale del gruppo (era presidente del direttorio) e per trovare entro i primi giorni del 2011 un suo sostituto alla direzione giornalistica del quotidiano. Un nuovo scossone nella tormentata vicenda del giornale, dopo la fine dell’era Colombani, durata 13 anni, nell’estate del 2007. Fottorino, cinquantenne nato a Nizza, giornalista e scrittore («Piccolo elogio della biciletta» , Excelsior 1981), ha provato a risolvere i problemi economici del gruppo abbandonando la politica delle acquisizioni e concentrando gli sforzi su Le Monde, appoggiando poi la cordata di Bergé, Niel e Pigasse in contrapposizione a quella Perdriel-Orange-Prisa giudicata vicina all’Eliseo. Ma l’affermazione del trio composto dal mecenate e compagno di Yves Saint Laurent (Bergé), il fondatore del provider Free (Niel) e il banchiere di Lazard (Pigasse) non gli ha portato fortuna. La nuova proprietà si è subito lanciata in una politica di risparmi e tagli agli sprechi, estromettendo Fottorino che ai primi di dicembre ha inviato una dura lettera: «Sono vittima di una persecuzione morale manageriale — scriveva Fottorino a Louis Dreyfus, che Da metà novembre nessuno di questi impegni è stato rispettato, mi sento deluso e tradito». Il fatto è che il trio Bnp ha preferito delegare Michaël Boukobza, un uomo di Niel, alla riduzione degli sprechi nel giornale, dopo avere scoperto l’esistenza di 46 auto blu a disposizione del giornale. Non è piaciuto neppure un durissimo intervento di Fottorino che, usando le colonne del suo giornale, si è scagliato contro le scelte sbagliate del suo predecessore Colombani. Che si è difeso qualche giorno dopo ricordando come Fottorino fosse al corrente di quelle scelte e le avesse condivise, in quanto già parte del gruppo dirigente del giornale. Settantatré giornalisti del Monde avevano allora espresso pubblicamente la loro solidarietà a Colombani, indebolendo il direttore in carica. Fottorino, dopo avere rifiutato di dimettersi, avrebbe chiesto di restare nel quotidiano come semplice giornalista, ma non è detto che Bergé, Niel e Pigasse lo accontentino. Il 2011 sarà l’anno decisivo per Le Monde: il primo obiettivo è il pareggio di bilancio, e bisognerà decidere se trasformarlo da giornale del pomeriggio a quotidiano del mattino.

Corriere della Sera 16.12.10
L’Italia che si è fatta da sé, senza ideologie
Dall’Unità ad oggi nazionalismo, statalismo, comunismo sono sempre state etichette vuote
di Giuseppe De Rita


Pur essendo stato partecipe per molti anni del percorso intellettuale di Aldo Bonomi, ho letto con nuovo interesse il suo ultimo libro, pubblicato da Feltrinelli con il titolo Sotto la pelle dello Stato. E mi sono trovato a domandarmi il perché di tale nuovo interesse. In fondo so tutto delle convinzioni dell’autore sul valore del territorio, sulle dinamiche dell’egoismo localistico, sull’intreccio fra radicamento nei luoghi e impegno sui flussi globali, sulla centralità del capitalismo personale, figlio del postfordismo, sulla crisi della società di mezzo e dei soggetti collettivi in essa operanti, sulla non-nascita (o sul fallimento) di una neoborghesia nazionale, sul pericoloso scivolamento delle masse verso l’essere moltitudine e conseguentemente del potere verso il populismo. Sono tematiche che Bonomi ha approfondito con grande accanimento professionale e che fa bene a metterle in sequenza ordinata. Ed anche convincente visto che ad ogni verifica su quei percorsi di analisi e di riflessione ha sempre avuto ragione lui, spesso anche in rabbioso contrasto con le forze politiche a lui vicine, che parlano molto di territorio, di populismo, di post fordismo e quant’altro, ma non si comportano di conseguenza. Il fatto è che, contrariamente a loro, egli questa società l’ha abitata nel profondo, prima ancora di pensarla e descriverla. Non basterebbe comunque questo riassunto di cose viste dal di dentro, e non con pensieri di sorvolo, per suscitare il senso di nuovo (di nuovo anche per me) avvertibile in quest’ultimo lungo racconto, un senso di nuovo che sorge da tre constatazioni. La prima è che dalle riflessioni di Bonomi esce con chiarezza che l’Italia «si è fatta da sé» , senza alcun riferimento a paradigmi predefiniti. Ce ne son stati proposti tanti di paradigmi in questi 150 anni di unità politica, dal patriottismo risorgimentale al nazionalismo fascista, dal liberalismo il perché di tale nuovo interesse. In fondo so tutto delle convinzioni dell’autore sul valore del territorio, sulle dinamiche dell’egoismo localistico, sull’intreccio fra radicamento nei luoghi e impegno sui flussi globali, sulla centralità del capitalismo personale, figlio del postfordismo, sulla crisi della società di mezzo e dei soggetti collettivi in essa operanti, sulla non-nascita (o sul fallimento) di una neoborghesia fordismo e quant’altro, ma non si comportano di conseguenza. Il fatto è che, contrariamente a loro, egli questa società l’ha abitata nel profondo, prima ancora di pensarla e descriverla. Non basterebbe comunque questo riassunto di cose viste dal di dentro, e non con pensieri di sorvolo, per suscitare il senso di nuovo (di nuovo anche per me) avvertibile in quest’ultimo lungo racconto, un senso di nuovo che sorge da tre constatazioni. La prima è che dalle riflessioni di Bonomi esce con chiarezza che l’Italia «si è fatta da sé» , senza alcun riferimento a paradigmi predefiniti. Ce ne son stati proposti tanti di paradigmi in questi 150 anni di unità politica, dal patriottismo risorgimentale al nazionalismo fascista, dal liberalismo nazionale, sul pericoloso scivolamento delle masse verso l’essere moltitudine e conseguentemente del potere verso il populismo. Sono tematiche che Bonomi ha approfondito con grande accanimento professionale e che fa bene a metterle in sequenza ordinata. Ed anche convincente visto che ad ogni verifica su quei percorsi di analisi e di riflessione ha sempre avuto ragione lui, spesso anche in rabbioso contrasto con le forze politiche a lui vicine, che parlano molto di territorio, di populismo, di post ottocentesco allo statalismo del secondo dopoguerra, dal comunismo al berlusconismo, con una continua rincorsa della politica a progetti e disegni sempre vanificati dai comportamenti dei tanti nostri soggetti economici e sociali, la cui vitalità ha via via cambiato questo Paese, ha in fondo creato un modello. La seconda constatazione è molto politica: non c’è dialettica fra l’Italia che fa da sé, con tutti gli impulsi positivi e tutti i rancori che in essa si esprimono, e chi fa politica in termini sempre più autoreferenziali. Spesso mi ritrovo a domandarmi perché la politica non riesca ad incorporare nella sua azione tutte le suggestioni che Bonomi impone da anni e che ripete in questo libro, e mi rispondo che il torto non è dell’inascoltato raccontatore degli eventi ma nella sordità ormai cronica di chi dovrebbe ascoltarli e decifrarli. E la terza conseguente constatazione è che il disallineamento fra realtà sociale e pensiero politico porta ad una crescente tentazione della società a disegnarsi ulteriori traguardi, a far da sola; è una tentazione che spesso aleggia ai vertici di alcune rappresentanze sociali (basta pensare ad alcune dichiarazioni di Emma Marcegaglia nelle ultime settimane) ma che più ancora si avverte mettendo l’orecchio a terra, sulle dinamiche territoriali emergenti. E in questo Bonomi, specialmente nell’ultimo capitolo del libro, è molto chiaro: la società tende ad organizzarsi in termini comunitari, a svilupparsi «assumendo come luoghi del pensare e dell’agire le parole chiave del territorio e della comunità» ; si tratti di fronteggiare le comunità del rancore, disattivandone i meccanismi più perfidi del rattrappimento aggressivo; si tratti di sviluppare le comunità di cura che si vanno moltiplicando in una solidarietà che si fa sempre più tessuto sociale; si tratti di accompagnare le tante antiche e nuove comunità operose che restano il vero patrimonio socioeconomico dell’Italia di oggi. Tre linee di lavoro che non vanno certo nella riscoperta delle teorie olivettiane o nella nostalgica riproposizione dei più tradizionali luoghi di microsocializzazione, ma che indicano una strada nuova, tutta da tentare: la strada di un’Italia comunitaria, costruita nell’abitare e gestire i processi in atto. A qualcuno può sembrare un esito flebile rispetto ai «drammatici problemi» che ci vengono riproposti ogni giorno dalla comunicazione di massa, ma è un esito da non scartare a cuor leggero se non si vuole, in alternativa, continuare a sobbollire nel brodo della moltitudine e del populismo, solo a parole governato da soggetti presuntivamente di governo — si parli di una presunta neoborghesia o di un presunto nuovo e accentrato potere politico. Ed è la coscienza di questo vuoto che fa pensare che Bonomi continui il suo racconto, da partigiano interprete della società che nel bene e nel male si fa da sé.

Repubblica 16.12.10
Se una nazione non sa più riconoscersi
Sappiamo tutto sul nostro carattere, ma da mezzo secolo nell´autobiografia collettiva manca una riflessione su chi siamo
Chi annoveriamo nella categoria? E quali sono i criteri per scegliere quelli più rappresentativi?
Oggi un convegno alla Treccani avvia una riflessione che ha un risvolto anche politico
di Simonetta Fiori


La domanda è "semplice", ma come tante domande "semplici" non ha una riposta. O, meglio, ne ha più di una. Chi sono gli italiani? Chi includiamo nella categoria di italianità? Gli abitanti della penisola dall´anno Mille, come fece Giuliano Procacci in una delle sue opere più famose? O i nostri connazionali all´indomani dell´unità d´Italia, quindi non prima di un secolo e mezzo fa, come sollecitava Croce? La questione non è accademica – come ci ricorda in questa pagina lo storico Andrea Graziosi – investendo anche la sfera della politica oltre che quella culturale, e dunque una nozione inclusiva o esclusiva della nostra identità.
In Italia siamo maestri nel coltivare l´italianologia, ossia quella "disciplina" che consiste nel percuotersi il petto sulle infinite magagne del nostro carattere nazionale. Però da circa mezzo secolo non ci domandiamo più chi siamo. Sappiamo come siamo fatti – molto male, almeno così parrebbe dal suggestivo filone dell´antitalianità – ma abbiamo trascurato di interrogarci su cosa intendiamo quando parliamo di italiani. L´hanno fatto singolarmente gli studiosi – storici, linguisti, letterati – ma non c´è stata una riflessione collettiva in quella che è la principale autobiografia nazionale, il Dizionario Biografico degli Italiani, opera fondamentale riconosciuta dalla comunità intellettuale di tutto il mondo, però ancora ferma ai criteri fissati negli anni Cinquanta del secolo scorso.
La riflessione su chi siano gli italiani – e su quali siano degni di figurare nella fotografia di gruppo più rappresentativa – sarà avviata oggi e domani all´Istituto dell´Enciclopedia Italiana, nel corso di un convegno al quale parteciperanno il giurista Mario Caravale, il vecchio direttore che con rigore ha guidato il Biografico per vent´anni, e lo storico Raffaele Romanelli, appena nominato alla guida del Dizionario. A Romanelli abbiamo chiesto com´è cambiata la nozione di "italiani illustri" nel corso di questi decenni, mentre Anna Bravo si concentra sulle "italiane illustri e invisibili", che sono ancora di più.
Il convegno cade in un momento molto particolare della vicenda italiana, che precede di poco il suo centocinquantesimo compleanno. L´Italia s´è persa, il suo mondo culturale rischia di andare a pezzi e anche alla Treccani soffia vento di crisi, come sta a indicare lo sciopero indetto in questi giorni e dettato dall´incertezza sul futuro dell´Istituto dell´Enciclopedia. Non rimane che ripartire dagli italiani, rubando l´esergo scelto da Procacci per la sua Storia. «Professore», domanda un personaggio di Cesare Pavese in La casa in collina, «voi amate l´Italia?». «No – dissi adagio – non l´Italia. Gli italiani».

Repubblica 16.12.10
È sbagliato credere che questa pratica sia talmente radicata da risultare immodificabile. Ma dalla società provengono parecchi segni di insofferenza. E la storia insegna che i cambiamenti sono spesso inevitabili
Perché il favoritismo si diffonde senza limiti
Gli interessi prima di tutto
di Paul Ginsborg


Con impressionante ostinazione il tema del familismo si ripropone a intervalli regolari nella storia della Repubblica, non importa se la Prima, la Seconda o addirittura la Terza, come l´etichettano con disinvoltura i politici, i giornalisti e i politologi. I meccanismi di fondo sono rimasti sostanzialmente gli stessi da più di sessantacinque anni.
Nel lontano febbraio del 1945 l´allora Governatore della Banca d´Italia, Luigi Einaudi, annotò nel suo diario l´esistenza di «parecchi clan» nella Banca e «numerose interferenze di parentela tra gli impiegati, con diramazioni varie». Più recentemente, nel 2008, le attività varie del clan di Clemente Mastella nella sfera pubblica campana, regolarmente denunciate dalla magistratura, portarono alle sue dimissioni dalla carica di Ministro della Giustizia (in ogni caso non la poltrona più adatta a lui) e addirittura alle dimissioni del Presidente del Consiglio, Romano Prodi. Adesso scopriamo un´estesa e numerosissima rete di favoritismi parentali e clientelari nel governo municipale di Roma. Si vede da questi e tanti altri esempi che il delicato rapporto tra famiglia e stato è luogo di fortissime tensioni nella storia della nostra Repubblica.
Cos´è il familismo? Il termine è alquanto controverso ma vorrei suggerire una definizione che mette l´accento sui rapporti che esistono tra famiglia, società (e dove esiste, società civile) e lo stato. Il familismo è una forma squilibrata di questi rapporti in cui i valori e gli interessi della famiglia prendono il sopravvento su tutti gli altri. Il familismo esiste quando trionfano forme esasperate di privatismo familiare, di perseguimento esclusivo degli interessi familiari, di cecità o sordità verso i bisogni di gruppi più estesi della ristretta cerchia familiare e amicale, di rifiuto di un rapporto con lo Stato democratico basato sull´uguaglianza dei cittadini e sull´obbligo reciproco. Ma le responsabilità non sono solo delle famiglie. Lo stato, invece di costituirsi storicamente come una sfera pubblica forte, con le sue regole e codici di comportamento, con i suoi servizi efficienti e il suo comportamento trasparente, ha delegato alle famiglie tutta una serie di responsabilità e di oneri che avrebbe dovuto assumersi in proprio. Stato inefficiente e famiglie prepotenti vengono così a legarsi in un patto scellerato di lunga durata.
Nei lunghi anni del Berlusconismo nulla è stato fatto per mitigare gli effetti del familismo. Al contrario, le forme squilibrate di rapporti tra famiglia, società e stato sono state rafforzate: dal trash televisivo, dall´incoraggiamento alla passività e al consumismo delle famiglie, dal miscuglio micidiale tra privato e pubblico, con un presidente del consiglio "Papi" che non esita a ricompensare le sue amichette con cariche nel partito e nello Stato. Viene la tentazione di concludere che il familismo è talmente radicato da risultare immodificabile. Sarebbe un errore perché se la storia ci insegna qualcosa, è proprio la possibilità, anzi l´inevitabilità del cambiamento nel tempo. Nulla è fisso, nulla è predeterminato. Già dalla società civile vengono molti segnali di insofferenza. Per invertire la tendenza però, ci vorrebbe un riconoscimento teorico e pratico del problema, un´analisi approfondita dei gemelli terribili – il familismo e il clientelismo – e soprattutto una forza politica lungimirante, decisa ad agire in modo diverso.

Corriere della Sera 16.12.10
«Benito mi ha lasciata col bambino»
Ida Dalser chiese aiuto a Luigi Albertini per il figlio avuto da Mussolini

di Dino Messina

«Giovane Dottoressa. Vedova, con piccino, cerca posto presso distintissima, buona ricca persona. Non esige stipendio purché volessero accettarla col pargoletto. Offre serietà, documenti, ottime cure a persona sofferente» . Il 16 gennaio 1916 un allibito Luigi Albertini riceve questa richiesta di inserzione assieme a una lettera firmata da Ida Dalser, in realtà non una dottoressa ma una massaggiatrice, che spiega al direttore del «Corriere della Sera» l’origine dei suoi guai: la relazione con Benito Mussolini che dopo averla «lasciata in mezzo alla strada prima di dare alla luce il suo piccino, oggi è partito nuovamente per il fronte» , lasciandola sola, «vestita d’estate col conto da pagare dell’Albergo, il piccino mezzo nudo» . Comincia così una corrispondenza a senso unico che durerà sino al 1925. Albertini non risponderà mai alla donna anche se le farà scrivere dal fratello Alberto o dal segretario di redazione Andrea Marchiori cui darà l’incarico di aiutarla con piccole somme di danaro. Quelle lettere, custodite in parte presso l’Archivio storico del «Corriere della Sera» , in parte presso il Fondo Albertini dell’Archivio di Stato a Roma, sono state ora raccolte a cura di Lorenzo Benadusi nel volume edito dalla Fondazione Corriere della Sera con il titolo Mussolini ha deciso di internarmi col piccino (pagine 141, e 10). È un capitolo inedito del dramma che già milioni di italiani conoscono grazie al documentario di Fabrizio Laurenti e Gianfranco Norelli trasmesso su Rai Tre il 14 gennaio 2005 (Il segreto di Mussolini) e al bel film di Marco Bellocchio, Vincere. Ida Dalser conobbe Mussolini nel 1909, ne divenne l’amante e forse lo sposò in chiesa, ma di questo non si sono trovate prove. Di certo ebbe da lui un figlio, Benito Albino, nato l’ 11 novembre 1915, che Mussolini riconobbe solo per poter esercitare la patria potestà e inviarlo in un brefotrofio. Mussolini il 16 dicembre del ’ 15 si sposò civilmente con Rachele Guidi da cui aveva avuto nel 1910 Edda. Ida chiese per tutta la vita di vedere riconosciuti i suoi diritti. Una lotta impari che si concluse con l’internamento di madre e figlio in due manicomi diversi e con la morte nel 1937 della donna e nel 1942 del ventisettenne Albino. Cosa aggiunge di nuovo questa testimonianza a quello che si sa già e che è stato scritto in molti libri, a cominciare dai saggi di Alfredo Pieroni, Il figlio segreto del duce (Garzanti), e di Sergio Luzzatto, «La demente Dalser» inserito nel volume Sangue d’Italia (manifestolibri)? Come spiega Benadusi nell’introduzione, queste lettere oltre a restituirci la voce di una donna coraggiosa e moderna, pur se fragile e con tratti maniacali, ci aiutano a leggere la biografia di Mussolini e la nascita del suo mito, la dialettica fra sesso e potere, i costumi di inizio Novecento e i rapporti che uomini come Albertini e lo stesso Francesco Saverio Nitti tenevano con l’astro nascente della nuova politica. I testi della Dalser ci dicono innanzitutto che il mito dell’uomo Mussolini, la fronte ampia, il collo taurino, il fisico forte, le labbra sensuali, nasce ben prima della conquista del potere. Benito M. è il prototipo della nuova bellezza, nervosa e spregiudicata, e la povera Ida ne sarà una delle prime vittime. Il fatto poi che Albertini non abbia risposto mai all’ex amante di Mussolini ci dice non soltanto che forse non credeva alla sua promessa di documenti scottanti sui finanziamenti francesi al «Popolo d’Italia» e di altre prove contro l’ex socialista interventista, ma anche che il direttore del «Corriere» , uno dei maggiori promotori dell’intervento nella prima guerra mondiale, non voleva inimicarsi l’uomo espulso dal Partito socialista proprio per il suo interventismo. Così più avanti il presidente del Consiglio Nitti avrebbe chiuso un occhio sui peccati privati del politico rampante per guadagnare un atteggiamento meno aggressivo in parlamento. Una volta al potere il capo del fascismo riesce letteralmente a seppellire le prove del suo scomodo passato privato. Ida sente la morsa e il 14 agosto 1925 nell’ultima lettera ad Albertini scrive: «Mani unghiate mi opprimono mi soffocano (...). Le mie lettere sono intercettate mandatemi vostre nuove a mezzo persone fidate» . Sembra un delirio, era la realtà.

Corriere 16.12.10
Il misticismo vive in tutte le culture
di Giovanni Reale


Il termine «misticismo» esprime una esperienza spirituale che congiunge il soggetto con l’oggetto, e in particolare l’unione o identificazione spirituale dell’anima con Dio. Il misticismo è ritenuto in genere connesso quasi esclusivamente con la religione cristiana. Ma, in realtà, si tratta di un fenomeno a vasto raggio che si estende non solo a tutte le grandi religioni, ma anche alla filosofia, e proprio a partire da quella classica. La prima testimonianza di tale esperienza si ha nel Simposio di Platone, nel finale del discorso che Socrate fa sull’Eros (come hanno riconosciuto non pochi studiosi: P. Natorp, A. E. Taylor, G. Krüger, K. Richter). Si tratta di quel momento della vita «che più di ogni altro merita di essere vissuto» , in cui si contempla il Bello in-sé, e ci si sente pronti «pur di vedere l’amato e stare sempre insieme a lui, a non mangiare e bere se fosse possibile, ma contemplarlo solo e stare con lui» e in cui diventiamo immortali. Nell’ambito del pensiero greco l'esperienza mistica si ritrova solo in Plotino (e nei neoplatonici), con approfondimenti paradigmatici. Nelle Enneadi leggiamo: «Questo è il fine dell’Anima: aver contatto con la luce di Lui e vedere la luce con la luce, ma non con la luce di qualcos’altro. Egli infatti è la stessa luce grazie alla quale essa può vedere (...). Ma come può avvenire questo? Spogliati di tutto!» (traduzione di R. Radice, Mondadori). Cerca di congiungerti «solo con Lui solo» . In epoca moderna Hegel ha ripreso la figura della mistica addirittura come espressione metaforica del concetto di «speculativo» come unità inclusiva del soggettivo e dell’oggettivo, e dice: «Si deve ricordare che per speculativo si va inteso quello che in altri tempi, soprattutto in relazione alla coscienza religiosa e al suo contenuto, soleva essere definito mistico» . L’esperienza mistica è comunque per sua natura connessa con il religioso, come viene mostrato nel bel libro di Marco Vannini, La mistica delle religioni (Le Lettere, pp. 389, e 20) in questi giorni in libreria. Vannini — uno dei massimi esperti in materia a livello nazionale e internazionale — analizza in modo dettagliato questa esperienza spirituale nell’induismo, nel buddismo, nell’ebraismo, nell’islamismo leggiamo: «Questo è il fine dell’Anima: aver contatto con la luce di Lui e vedere la luce con la luce, ma non con la luce di qualcos’altro. Egli infatti è la stessa luce grazie alla quale essa può vedere (...). Ma come può avvenire questo? Spogliati di tutto!» (traduzione di R. Radice, Mondadori). Cerca di congiungerti «solo con Lui solo» . In epoca moderna Hegel ha ripreso la figura della mistica addirittura come espressione metaforica del concetto di «speculativo» come unità inclusiva del soggettivo e dell’oggettivo, e dice: «Si deve ricordare che per speculativo si va inteso quello che in altri tempi, soprattutto in relazione alla coscienza religiosa e al suo contenuto, soleva essere definito mistico» . L’esperienza mistica è comunque per sua natura connessa con il religioso, come viene mostrato nel bel libro di Marco Vannini, La mistica delle religioni (Le Lettere, pp. 389, e 20) in questi giorni in libreria. Vannini — uno dei massimi esperti in materia a livello nazionale e internazionale — analizza in modo dettagliato questa esperienza spirituale nell’induismo, nel buddismo, nell’ebraismo, nell’islamismo e nel cristianesimo. La tesi di fondo del libro è che il misticismo si connette soprattutto con il cristianesimo, che si incentra su Cristo come Dio fatto uomo: «Ciò equivale a dire che il cristianesimo è religione mistica per eccellenza, e non nel senso che al suo interno la mistica può svilupparsi e fiorire (...) nel senso che "mistica"è l’essenza stessa del cristianesimo, il quale, senza la mistica, resta mera "credenza", non diversamente dalle altre religioni» . Fra le altre religioni quella che ha connessioni con il misticismo in maniera meno lontana dal cristianesimo è l’induismo: «Nella religione classica dell’India, a partire dai Veda e dalle Upanishad, è innanzitutto presente il concetto dell’unità essenziale di Dio e uomo: "questo sei tu", dice appunto la parola sacra delle Upanishad, rivelando all’uomo la sua realtà divina» . In questi giorni il lettore troverà nelle librerie la nuova edizione (con testo sanscrito a fronte) delle Upanishad a cura di Raphael (Bompiani, pp. 1.237, e 20), dove si legge: «Colui che ha realizzato il senza misura è beato e senza dualità» ; «Si cerchi con estremo impegno di purificare la mente (...). Si diviene ciò che si pensa» . Vannini ritiene che il maggiore dei mistici cristiani sia Meister Eckhart (1260-1327/8), e dal punto di vista teoretico ha ragione; tuttavia, per l’afflato poetico Giovanni della Croce (1542-1591), del quale è in libreria dal primo dicembre l’opera omnia (con testo spagnolo a fronte) a cura di Pierluigi Boracco (Bompiani, pp. 2.450, e 45), non è da meno. È un’opera accuratissima, che presenta gli scritti del santo a partire da quelli minori che contengono in nuce concetti sviluppati nelle successive grandi opere, la Salita del Monte Carmelo e la Notte oscura. L’uomo deve (come diceva Plotino) spogliarsi di tutto per poter congiungersi con Dio. Scrive Boracco: «Il libro della Salita del Monte Carmelo e il commento alla Notte oscura sono totalmente dedicati alla radicale spogliazione di sé, al vero e proprio denudamento che l’uomo deve saper operare in vista di questo coniugium (l’unione coniugale), dove Dio si consegnerà nudo e senza veli come già l’Uomo posto sulla Croce» . Per chi si accinge alla lettura di libri come questi vale, in ogni caso, ciò che Taylor diceva: «Se non abbiamo in noi quel tanto di misticismo necessario per considerare l’annullarsi e il rinnovarsi dell’anima come il compito essenziale della vita, il discorso non avrà per noi un valore reale e non potremo fare altro che considerarlo un "bel sogno"mitologico» .

Corriere della Sera 16.12.10
Russia postcomunista, manuale per arricchirsi
risponde Sergio Romano


Non ho mai letto sui giornali, salvo le recenti «rivelazioni» sullo Stato-mafia, la spiegazione di un fatto tanto evidente quanto sorprendente. Nel 1991 finisce il comunismo sovietico. Vladimir Putin ha sui 35 anni e gli altri magnati ancora meno. La proprietà era tutta statale. Come hanno fatto questi giovanotti a diventare miliardari in dollari? La risposta è semplice. Hanno spartito la roba di tutti e se la sono presa gratis. Il servizio segreto ha fatto il servizio in segreto ai poveri russi che, o zarismo, o bolscevismo, o oligarchismo, sono secoli che vengono calpestati. Perché non si dice? Per quattro motivi: paura, gas, petrolio, mercato. Vorrei comunque il suo parere: la Russia la conosce bene.
Pietro Di Muccio de Quattro dimucciodequattro@alice. it

Caro Di Muccio de Quattro,
Dopo il crollo dell’Unione Sovietica e la morte del comunismo, la Russia aveva industrie vecchie, infrastrutture insufficienti e dirigenti aziendali privi di qualsiasi nozione sul funzionamento dell’economia di mercato. I medici occidentali accorsi al capezzale del malato prescrivevano ricette diverse, ma generalmente fondate sulla tesi che occorresse privatizzare e liberalizzare. Un ministro, Anatolij Chubajs, raccolse la sfida e decise la pubblica distribuzione di voucher (noi diremmo buoni o coupon), ciascuno dei quali corrispondeva a una piccolissima percentuale della proprietà di un’industria di Stato. Per diventarne proprietari occorreva naturalmente fare incetta di voucher sul mercato. È questo il momento in cui entrano in scena i personaggi che verranno successivamente chiamati oligarchi. Sono giovani, intelligenti, ambiziosi, quasi sempre provenienti da ottime scuole tecniche e scientifiche e già noti per la loro intraprendenza nelle organizzazioni giovanili del partito comunista. Il denaro di cui hanno bisogno per comprare voucher è nelle Casse di risparmio, enormi salvadanai in cui il cittadino sovietico deposita il denaro che non riesce a spendere nei negozi semivuoti del Paese. Grazie alle loro amicizie nell’apparato politico amministrativo dello Stato, questi giovani intraprendenti ottengono prestiti di favore, usano il denaro per comprare i voucher e lo restituiscono quando l’inflazione a due cifre ha drasticamente ridotto l’ammontare del debito. Il resto della storia è meglio noto. Quando l’azienda comprata gestisce risorse naturali (gas, petrolio, legno, minerali) l’oligarca esporta le ricchezze della Russia, trattiene all’estero gran parte del ricavato, evade il fisco e unge tutte le ruote necessarie al buon funzionamento della sua macchina. Non basta. Per meglio consolidare il suo potere crea una banca che gli permette di gestire segretamente i suoi flussi di denaro e compra giornali o canali televisivi che gli coprono le spalle e possono all’occorrenza condizionare il potere politico. La storia di Vladimir Putin è alquanto diversa. Quando torna a Leningrado dopo la fine del suo incarico in Germania, l’ex colonnello del Kgb ritrova il suo vecchio professore della facoltà di giurisprudenza, Anatolij Sobchak, uomo di grandi qualità morali e intellettuali. E quando Sobchak è eletto sindaco della città, Putin diventa il suo più stretto collaboratore sino al giorno in cui sarà chiamato a Mosca per assumere funzioni sempre più importanti nella cerchia di Eltsin. Putin, quindi, non è un oligarca. Sarà anzi il maggior nemico degli oligarchi, l’uomo che restituirà allo Stato il controllo delle risorse svendute nel decennio precedente e non esiterà a punire duramente quelli che gli oppongono resistenza. Con gli altri, tuttavia, sarà più tollerante e conciliante. Gli oligarchi, quindi, non sono interamente scomparsi. Quelli che obbediscono allo Stato (o, per meglio dire, a Putin) hanno ancora il diritto di conservare i loro tesori e di accrescerli.

Repubblica 16.12.10
Meno stress in sala operatoria e guarigioni più veloci. Sono gli effetti che può avere l´ascolto di una melodia La rivista scientifica Lancet ne fornisce le prove, fino agli studi più recenti effettuati nelle corsie di ospedale
Mozart più forte del dolore così la musica aiuta la medicina
Prima degli interventi facilita la sedazione, subito dopo riduce i farmaci necessari
di Elena Dusi


Non solo pillole e cerotti. Nei kit degli ospedali andrebbe inclusa anche una cuffia per la musica. Tanto grande – e per molti versi misterioso – è il potere della melodia nel curare sia la mente che il corpo, che il professore di Harvard Claudius Conrad ha proposto un suo uso regolare nei reparti di ospedale.
In un editoriale sulla rivista scientifica The Lancet, il medico (e pianista) americano ripercorre la storia dell´abbraccio fra medicina e musica dai tempi di Esculapio (non a caso figlio di Apollo) fino agli studi più recenti, che stanno descrivendo nei dettagli la risposta degli ormoni all´ascolto di brani celebri di musica classica.
La riflessione di Conrad si concentra sui due luoghi più duri di un ospedale: la sala operatoria e il reparto di rianimazione. «Ascoltando brani lenti di Mozart, alcuni pazienti molto gravi ricoverati in rianimazione hanno reagito con un calo degli ormoni che indicano il grado di stress» scrive il ricercatore nella sua pubblicazione. Epinefrina e Interleuchina-6 (i due ormoni misurati) sono diminuiti in alcuni pazienti anche del 20 per cento. «Abbiamo poi osservato un aumento dell´ormone della crescita nel sangue», che secondo Conrad è uno degli indici della guarigione in corso.
Prima degli interventi chirurgici, l´ascolto della musica facilita la sedazione. Subito dopo, riduce la quantità di farmaci necessari a sopportare il dolore. Qualche anno fa un medico italiano, Luciano Bernardi, dimostrò al San Matteo di Pavia che l´ascolto di qualunque brano di musica – inclusa rap e techno – fa momentaneamente accelerare il ritmo del cuore, ma dopo l´ultima nota produce uno stato di relax in cui i battiti rallentano, la pressione sanguigna diminuisce, il respiro si fa meno frequente e più profondo.
«Nessuno ha mai capito a cosa serva la musica dal punto di vista biologico» prosegue Conrad. «Eppure già Esculapio la raccomandava come terapia». Ma se i benefici delle melodie sono noti da tempo e la musica ci accompagna da 40mila anni (a tanto tempo fa risale il primo flauto ritrovato dagli archeologi in Germania), la strada che le note seguono all´interno dell´organismo per apportargli benessere e migliorare l´umore sono ancora al centro della ricerca scientifica. «Solo oggi – prosegue il medico musicista – cominciamo a capire qualcosa degli effetti sul sistema ormonale e immunitario». Quei dentisti ricordati da Lancet che il secolo scorso alzavano al massimo il volume per cercare di distrarre i loro pazienti agivano in nome del più puro empirismo. Ma oggi vedono confermate dalla scienza le loro intuizioni, con una riduzione del bisogno di analgesici nei pazienti con dolore cronico che ascoltano regolarmente i loro brani preferiti.
Usata per cercare di alleviare depressione, Alzheimer, autismo e disturbi del linguaggio, la musica viene sperimentata ora anche nella riabilitazione dopo un ictus. A luglio una pubblicazione sulla rivista Cochrane Systematic Review ha dimostrato che gli esercizi accompagnati da brani di musica molto ritmici venivano eseguiti meglio dai pazienti: con passi più lunghi, movimenti più ampi delle braccia e del bacino. Ascoltare un brano senza ballare, si è dimostrato, è una tentazione a cui gambe e braccia sanno resistere solo a prezzo di uno sforzo di autocontrollo. E allora, invita Conrad, è ora che il nostro istinto musicale inizi a essere sfruttato anche nella terapia.

Repubblica 16.12.10
Einstein, aforismi di un genio
La politica. La ricerca Il maccartismo. La bomba atomica. La condizione degli ebrei. Dagli archivi di Princeton emergono gli appunti inediti dello scienziato
di Gabriele Pantucci


n Albert Einstein privato, ben lontano dall´immagine paludata e seriosa dello scienziato accademico. Un uomo che guarda e giudica con distacco tutti gli aspetti della quotidianità, dell´attualità politica mondiale, e che ci tiene a chiarire la sua estraneità alla creazione e all´uso dell´arma atomica.
Questo è il personaggio che emerge dal nuovo volume The Ultimate Quotable Einstein, appena pubblicato da Princeton University Press. Il libro, curato da Alice Calaprice, aggiunge a quelli apparsi in passato 400 nuove citazioni dello scienziato. Lettere e documenti vari emersi dal suo archivio, che è conservato a Princeton dove occupò dal 1933 la cattedra di studi avanzati di fisica.
La voce dello scienziato - in forma di dichiarazioni o di scritti - percorre in questa antologia la sua intera vita. Dopo la scomparsa delle persone che amministravano l´archivio Einstein di Princeton, avevano lavorato con lui ed erano riuscite sempre a mantenere un controllo rigido della sua immagine, viene alla luce la personalità più autentica del geniale studioso.
Quando Einstein sviluppò la celebre teoria della relatività che avrebbe di fatto segnato l´inizio dell´era atomica non aveva alcuna premonizione delle conseguenze che ne sarebbero derivate. In una lettera del 1946 che indirizza a suo figlio Hans Albert, il grande fisico si dissocia dalla creazione della terribile arma atomica: il suo coinvolgimento sarebbe stato soltanto molto indiretto.
Nel libro si trovano note di rammarico per gli obblighi della celebrità, che lo costringono a esibirsi «come un bue che ha vinto un premio ad un concorso agricolo», il suo sdegno per la Svizzera - di cui era cittadino - che non era intervenuta quando Hitler confiscò le sue proprietà in Germania, le sue considerazioni sul giudaismo e la forma che avrebbe dovuto prendere la patria ebraica in Palestina.
Non mancano le opinioni politicamente scorrette a proposito dell´America maccartista, su capitalismo e socialismo, sull´Unione Sovietica. In occasione della commemorazione di Sacco e Vanzetti (i due anarchici italiani giustiziati dopo un controverso e clamoroso processo) scrisse queste righe: «Anche le più perfette istituzioni democratiche non sono migliori delle persone che agiscono in loro nome».

Uomini e donne
La sfortuna si adatta incommensurabilmente bene al genere umano: meglio del successo. (1919)

Le persone sono come le biciclette: riescono a mantenere l´equilibrio soltanto se continuano a muoversi. (1930)

L´uomo e´ nato per odiare in misura quasi maggiore d´amare: e l´odio non si stanca d´afferrare qualsiasi situazione disponibile. (1946)

Sono le donne... che dominano tutta la vita americana. Gli uomini non sono interessati a nulla; lavorano, lavorano come non ho mai visto nessuno lavorare in nessun altro posto. Per il resto sono come dei cagnolini di pezza per le loro mogli, che spendono il danaro nel modo più eccessivo e che si nascondono in un velo di stravaganza. (1921)

Da Chaplin a Freud
Persino Chaplin mi guarda come se fossi una specie di creatura esotica e non sapesse che fare di me. Nella mia stanza s´è comportato come se l´avessero portato in un tempio. (1931?)

Comprendo le nozioni vaghe e imprecise di Jung, ma non le considero d´alcun valore; molte parole senza una chiara direzione. Se si deve scegliere uno psichiatra, preferirei Freud. Non credo in lui, ma mi piace molto il suo stile conciso e la sua mente originale, sebbene piuttosto stravagante. (1931)

Kant è una specie di autostrada con tante, tante pietre miliari. Poi arrivano tutti i cagnolini e ognuno deposita il suo contributo alle pietre miliari. (1919)

Cos´è il capitalismo
Cos´è uno Stato capitalista? E´ uno Stato in cui i principali mezzi di produzione, quali la terra coltivabile, la proprietà immobiliare nelle città, la fornitura dell´acqua, gas ed elettricità, trasporti pubblici, oltre che i più grandi impianti industriali, sono posseduti da una minoranza dei cittadini. La produzione è strutturata verso la creazione di un profitto per i proprietari piuttosto che a provvedere la popolazione con una distribuzione uniforme di beni essenziali... (1945)

Credo pure che il capitalismo o, dovremmo dire, il sistema della libera impresa, si dimostrerà incapace di controllare la disoccupazione, che diverrà crescentemente cronica a causa del progresso tecnologico ed incapace di mantenere un sano equilibrio fra produzione e potere d´acquisto della gente. (1947)

Il socialismo come tale non può essere considerato una soluzione a tutti i problemi sociali ma semplicemente una cornice in cui tale soluzione sia possibile. (1947)

Sono convinto che la degenerazione segue qualsiasi sistema autocratico di violenza, poiché la violenza attrae i moralmente inferiori. Il tempo ha provato che i tiranni illustri vengono succeduti dai furfanti. (1930)

Ebrei e arabi
La parola "ebreo" ha due significati. Ha a che vedere: 1) con la nazionalità e la discendenza; 2) con la religione. Sono un ebreo nel primo senso ma non nel secondo. (1921)

Preferirei vedere un ragionevole accordo con gli arabi sulla base di vivere insieme in pace piuttosto della creazione di uno Stato ebraico.... Non siamo più gli ebrei dell´era dei maccabei. (1938)

Tutti i bambini ebrei [in Palestina] dovrebbero essere obbligati a imparare l´arabo. (1929)

Non sono mai stato favorevole ad uno Stato. L´idea di uno Stato [ebraico] non s´accorda al mio cuore. Non posso comprendere perché sia necessario. E´ collegato con molte difficoltà e ristrettezza mentale. Credo sia un male. (1946)

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