«L´opposizione del Pd è a questo punto decisiva, se non allenta la propria tensione e non considera una disfatta la battaglia condotta per un governo vasto di responsabilità istituzionale»
Repubblica 15.12.10
Il profeta delle illusioni
di Barbara Spinelli
C´è chi dirà che l´iniziativa di sfiduciare Berlusconi era votata a fallire: non solo formalmente ma nella sostanza. Perché non esisteva una maggioranza alternativa, perché né Fini né Casini hanno avuto la prudenza di perseguire un obiettivo limpido, e hanno tremato davanti a una parola: ribaltone.
Parola che solo per la propaganda berlusconiana è un peccato che grida vendetta al cospetto della Costituzione. Hanno interiorizzato l´accusa di tradimento, e non se la sono sentita di dar vita, guardando lontano, a un´alleanza parlamentare diversa. Hanno ignorato l´articolo 67 della Costituzione, che pure parla chiaro: a partire dal momento in cui è eletto, ogni deputato è libero da vincoli di mandato e rappresenta l´insieme degli italiani. Non manca chi già celebra i funerali per Fini, convinto che la sua scommessa sia naufragata e che al dissidente non resti che rincantucciarsi e pentirsi.
Per chi vede le cose in questo modo Berlusconi ha certo vinto, anche se per 3 voti alla Camera e spettacolarmente indebolito. Il Premier ha avuto acume, nel comprendere che la sfiducia era una distruzione mal cucita, un tumulto più che una rivoluzione, simile al tumulto scoppiato ieri nelle strade di Roma. Neppure lontanamente gli oppositori si sono avvicinati alla sfiducia costruttiva della Costituzione tedesca, che impone a chi abbatte il Premier di presentarne subito un altro.
A ciò si aggiunga la disinvoltura con cui il capo del governo ha infranto l´etica pubblica, esasperando lo sporco spettacolo del mercato dei voti. Il mese in più concesso da Napolitano, lui l´ha usato ricorrendo a compravendite che prefigurano reati, mentre le opposizioni l´hanno sprecato senza neanche denunciare i reati (se si esclude Di Pietro). Eugenio Scalfari ha dovuto spiegare con laconica precisione, domenica, quel che dovrebbe esser ovvio e non lo è: non è la stessa cosa cambiar campo per convinzione o opportunismo, e cambiarlo perché ti assicurano stipendi fasulli, mutui pagati, poltrone.
Ma forse le cose non stanno così, e la vittoria del Cavaliere è in larga misura apparente. Non solo ha una maggioranza esile, ma è ora alle prese con due partiti di destra (Udc e Fli) che ufficialmente militano nell´opposizione. Il colpo finale è mancato ma la crisi continua, come un torrente che ogni tanto s´insabbia ma non cessa di scorrere. Quel che c´è, dietro l´apparenza, è la difficile ma visibile caduta del berlusconismo: caduta gestita da uomini che nel ´94 lo magnificarono, lo legittimarono. È un Termidoro, attuato come nella Francia rivoluzionaria quando furono i vecchi amici di Robespierre a preparare il parricidio. Non solo le rivoluzioni terminano spesso così ma anche i regimi autoritari: in Italia, la fine di Mussolini fu decretata prima da Dino Grandi, gerarca fascista, poi dal maresciallo Badoglio, che il 25 luglio 1943 fu incaricato dal re di formare un governo tecnico pur essendo stato membro del partito fascista, responsabile dell´uso di gas nella guerra d´Etiopia, firmatario del Manifesto della Razza nel ´38.
Un´uscita dal berlusconismo organizzata dal centro-destra non è necessariamente una maledizione, e comunque non è il tracollo di Fini. Domenica il presidente della Camera ha detto a Lucia Annunziata che dopo il voto di fiducia passerà all´opposizione: se le parole non sono vento, la sua battaglia non è finita. Sta per cominciare, per lui e per chiunque a destra voglia emanciparsi dall´anomalia di un boss televisivo divenuto boss politico, ancor oggi sospettato di oscuri investimenti in paradisi fiscali delle Antille. Il successo non è garantito e se si andrà alle elezioni, Berlusconi può perfino arrestare il proprio declino e candidarsi al Colle.
Non è garantita neppure la condotta del Vaticano, che ha pesato non poco in questi giorni, facendo capire che la sua preferenza va a un patto Berlusconi-Casini che isoli Fini, ritenuto troppo laico. A Berlusconi, che manipola i timori della Chiesa e promette addirittura di creare un Partito popolare italiano, Casini ha risposto seccamente, alla Camera: «La Chiesa si serve per convinzione, non per usi strumentali».
Resta che il futuro di una destra civile, laica o confessionale, si sta preparando ora.
È il motivo per cui non è malsano che la battaglia avvenga in un primo tempo dentro la destra. Sono evitati anni di inciuci, che rischiano di logorare la sinistra e non ricostruirebbero l´Italia, la legalità, le istituzioni. Il Pd sarebbe polverizzato, se la successione di Berlusconi fosse finta. Un governo stile Comitato di liberazione nazionale (Cln) sarebbe stato l´ideale, ma tutti avrebbero dovuto interiorizzarlo e l´interiorizzazione non c´è stata. Anche tra il ´43 e il ´44 fu lento il cammino che dai due governi Badoglio condusse prima al riconoscimento del Cln, poi al governo Bonomi, poi nel ´46 all´elezione dell´assemblea che avrebbe scritto la Costituzione.
Oggi non abbiamo alle spalle una guerra perduta, e questo complica le cose. Abbiamo di fronte una guerra d´altro genere – il rischio di uno Stato in bancarotta–e ne capiremo i pericoli solo se ci cadrà addosso. L´impreparazione del governo a un crollo economico e a pesanti misure di rigore diverrebbe palese. Anche la natura dei due regimi è diversa: esplicitamente dittatoriale quello di Mussolini, più insidiosamente autoritario quello di Berlusconi. Il suo potere d´insidia non è diminuito, soprattutto quando nuota nel mare delle campagne elettorali o quando mina le istituzioni. Subito dopo la fiducia, ieri, ha anticipato un giudizio di Napolitano («Il Quirinale vuole un governo solido») come se al Colle ci fosse già lui e non chi parla per conto proprio.
L´opposizione del Pd è a questo punto decisiva, se non allenta la propria tensione e non considera una disfatta la battaglia condotta per un governo vasto di responsabilità istituzionale. Anche se incerte, le due destre d´opposizione sanno che senza la sinistra non saranno in grado di compiere svolte cruciali. Un Termidoro fatto a destra è un vantaggio in ogni circostanza. Se il governo dovesse estendersi a Casini e Fini e riporterà l´equilibrio istituzionale che essi chiedono, la sinistra potrà dire di aver partecipato, con la sua pressione, alla restaurazione della legalità repubblicana. Il giorno del voto, potrà ricordare di aver agito non per ottenere poltrone, ma nell´interesse del Paese. Se la destra antiberlusconiana non si emanciperà, se inghiottirà nuove leggi ad personam, la sinistra potrà dire di aver avuto, sin dall´inizio, ragione. Con la sua costanza, avrà contribuito alla fine al berlusconismo. Potrà influenzare anche la natura, più o meno laica, della destra futura. Potrà prendere le nuove destre d´opposizione alla lettera ed esigere riforme della Rai, pluralismo dell´informazione, autonomia della magistratura, lotta all´evasione fiscale, leggi definitive sul conflitto d´interessi. Per questo il duello parlamentare di questi giorni è stato tutt´altro che ridicolo o provinciale.
I partiti di oggi non hanno la tenacia dei padri costituenti: proprio perché il passaggio è meno epocale, i compiti sono più ardui. Ma non sono diversi, se si pensa allo stato di rovina delle istituzioni. L´unico pericolo è cadere nello scoramento. È farsi ammaliare ancora una volta dal pernicioso pensiero positivo di Berlusconi. Quando le civiltà si cullano in simili illusioni ottimistiche la loro fine è prossima. Lo sapeva Machiavelli, quando scriveva che con i tiranni occorre scegliere: bisogna «o vezzeggiarli o spegnerli; perché si vendicano delle leggieri offese, ma delle gravi non possono». Lo sapeva Isaia, quando diceva dei figli bugiardi che si cullano nell´ozio: «Sono pronti a dire ai veggenti: ‘Non abbiate visioni´ e ai profeti: ‘Non fateci profezie sincere, diteci cose piacevoli, profetateci illusioni´».
Il profeta d´illusioni ha vinto solo un turno, nella storia che stiamo vivendo.
l’Unità 15.12.10
Un Paese sconfitto
di Concita De Gregorio
Da dove vogliamo cominciare? Dai leghisti in aula avvolti nel Tricolore o dalle auto in fiamme e i novanta feriti nel centro di Roma, dagli pseudo manifestanti che difendono l’idv «Scilipoti dallo strapotere delle banche» e plaudono al suo sostegno al governo e alla sua liberazione dal bisogno o da quegli altri (manifestanti?) che tranquillizzano proteggendolo col braccio il finanziere che in strada impugna la pistola? O forse dalla fine, dal bacio di Berlusconi a Casini e quel che racconta e promette?
Il governo ottiene la maggioranza alla Camera per tre voti 311 a 314 e da qualunque parte la si guardi, la giornata campale di ieri, da qualunque fotogramma si decida di partire è una giornata cupa, grottesca, ridicola, misera, a tratti tragica: in strada tragica. È la giornata della sconfitta: la giornata che segna la sconfitta della politica intesa come confronto di idee e di progetti, l’unico modo lecito di intenderla, la sconfitta di un paese che esibisce al mondo intero come successo la tenuta di un governo che compra col denaro e col ricatto i parlamentari che gli servono e una piazza che dice che la sfiducia è nelle strade, che siamo a un passo dall’irreparabile, che basterebbe niente, ma proprio niente, per trasformare la guerriglia urbana in guerra civile e a poco varrebbe dopo cercare i colpevoli. Dopo è sempre troppo tardi. La tensione sociale è altissima, la distanza tra le scene vissute per strada e quelle viste a Palazzo enorme: per uno Scilipoti o una Polidori che si garantiscono i favori del premier, accolti in saletta riservata per i ringraziamenti, ci sono fuori migliaia di manifestanti, i campani travolti dall’immondizia e gli aquilani dalle macerie, giovani esasperati a cui nessuno farà altrettanti favori, che siano o non siano strangolati dai tassi d’interesse delle banche come il deputato messinese eroe d’un giorno, o di quel giorno lapide.
Ha perso l’opposizione, di un soffio. Perché si possono fare in tanti modi i conti di poi ma non c’è nessun dubbio che se Razzi e Scilipoti, eletti con l’Italia dei Valori di Antonio di Pietro, avessero votato con il partito che li ha messi in lista sarebbe finita 313 a 312, il governo battuto. Ha perso Fini perché è altrettanto vero, scegliendo un altro conto del poi, che se le due deputate del suo gruppo Polidori e Siliquini avessero seguito le indicazioni di Futuro e libertà il risultato finale sarebbe stato lo stesso, nonostante i mutui estinti e le università private finanziate (promesse, poi vedremo) ai due idv. Ha perso il Pd e non tanto per Calearo, su cui tutti oggi si accaniscono ma che da tempo aveva traslocato all’Api di Rutelli prima, al gruppo misto poi e infine a quell’improbabile gruppetto di sedicente "responsabilità" si sapeva, di Calearo, e da molto: le sorprese sono state altre ma perché non è stato possibile, evidentemente e per ragioni che i mesi a venire diranno, chiudere un’intesa su una possibile legge elettorale che tenesse insieme una maggioranza alternativa. In questo gran parte ha avuto Casini, che con tutta evidenza baciato in pubblico dal premier non ha perso niente come è solito fare, non vince e non perde quasi mai. Una certa parte l’ha avuta anche la sinistra di Vendola che reclama elezioni, orizzonte del resto prima o dopo inevitabile e oltretutto davvero in queste condizioni salutare.
L’unico problema sembra essere che si andrà molto probabilmente a votare con questo stesso sistema elettorale: quello che ha prodotto i Razzi i Siliquini i Calearo che difficilmente sarebbero stati eletti se la scelta fosse davvero in mano agli elettori.
Ha perso persino colui che in serata con voce impastata vanta da Bruno Vespa di aver vinto: perché ha vinto, sì, ma ha vinto la sua convinzione fondatissima: purtoppo in questo B. ha ragione che si trova sempre qualcuno da corrompere, c’è sempre all’ultimo minuto qualcuno da convincere, con le buone o le cattive da comprare. Diceva Bossi, in aula, un momento prima del colpo di scena: tranquilli, abbiamo anche l’ultimo voto. Ce l’avevano, in effetti. È comparso sotto le spoglie gentili della deputata umbra Catia Polidori, futurista di cui nessuno aveva sino ad allora dubitato, salutata in aula da un applauso scrosciante a mani alte di La Russa e dei suoi sodali, causa di una rissa che fa sospendere la seduta, l’esperto Menia che divide i colluttanti, il grosso Corsetto che si frappone, Fini che sospende i lavori. Battutacce, fischi, applausi. Di Catia Polidori hanno scritto per settimane e in tempi non sospetti il Corriere la Repubblica e i massimi quotidiani finanziari che fosse parente stretta di Francesco Polidori, il signor Cepu, quello che aveva assicurato a Berlusconi una capillare campagna di porta a porta, quello che ha di recente ottenuto votato anche da Catia i favori di una legge che fa grande beneficio al suo istituto per studenti difficili di famiglie facoltose. Ieri in tarda serata, dopo che Luca Barbareschi aveva detto «è stata minacciata, le hanno giurato che avrebbero fatto chiudere la sua società», la deputata Polidori ha smentito di essere legata da parentela al suo omonimo: sono solo vicini di casa, ha detto, in una frazione di Città di Castello che conta 30 abitanti, evidentemente in maggioranza Polidori. Coincidenze.
Siamo sconfitti noi, tutti noi italiani che da settimane siamo costretti ad occuparci dei casi privati le prime mogli, le aziende, i mutui di deputati di terz’ordine ci cui nessuno fino ad oggi aveva sentito parlare e che all’improvviso diventano portatori di un immenso valore marginale, decisivi per le sorti del paese. Se il signor B resta in sella lo si deve a gente come Siliquini, Catone, Cesario, Razzi, Grassano, astenuti Moffa e Gaglione, qualcuno di voi sa dire in cosa si siano distinti finora, a parte forse le loro rispettive professioni? Alcuni di loro hanno tenuto ieri l’aula col fiato sospeso fino all’ultimo: mai nessuno, immaginiamo neppure in famiglia, aveva atteso l’arrivo di Scilipoti con tanta apprensione. Mai l’ingresso in aula di Giulia Cosenza, madre imminente, era stato salutato da tanto sollievo. Federica Mogherini e Giulia Bongiorno, le altre partorienti, accolte da applausi di metà emiciclo. Può un governo dirsi vittorioso a queste condizioni? Possono gli italiani riconoscersi in un simile sistema di rappresentanza? Si può sperare qualcosa di meglio con queste stesse regole, per l’avvenire?
Chi ha più soldi e più potere vince, è questa l’unica regola. Chi ha più soldi, chi può pagare di più e minacciare più forte, chi è più persuasivo. Non è più una questione di idee, la politica non c’entra: il gruppo dei finiani si è smarcato in nome di un’idea, ha cambiato posizione in nome di un dissenso. Ha provato a immaginare una destra possibile senza e dopo il signor B., senz’altro anche immaginando il proprio avvenire: politico, tuttavia. Il proprio avvenire politico. Non un’opposizione da sinistra: un’opposizione da destra. In questo caso ha prevalso l’immediata competizione interna che si scatena ad ogni latitudine fra aspiranti bracci destri del capo: Moffa e non è il solo a pensarlo ha chiesto le dimissioni di Bocchino, ieri. Troppo potere a Bocchino, troppo in vista, troppo favorito: perché lui sì e noi no?
Dentro questo: Melania Rizzoli avvolta al tricolore e l’avvocato Consolo fischiato per aver detto no, gesti dell’ombrello e cori, baci alle dame, favori al cavalieri. Fuori la guerriglia. Roma, in una giornata prenetalizia, deserta: mezzi pubblici sospesi e blindati a transennare le strade, passanti inconsapevoli e turisti sbigottiti. Poi le fiamme, auto bruciate e letame che vola, sampietrini petardi bastoni, agenti in borghese indistinguibili dai manifestanti, manifestanti resi irriconoscibili dai caschi. Studenti delle medie che riparano a casa degli amici per paura, insegnanti che chiamano casa dicendo i ragazzi li teniamo a scuola, fuori c’è pericolo.
Non è una capitale che abbia vinto niente, questa. Non è normale dissenso, non è un Italia in cui continuare a vivere, o per chi lo preferisca tirare a campare, sereni. Non si tira a campare così. Chissà cosa pensa davvero Bossi, che oggi all’improvviso dice con insolita indulgenza verso il detestato Casini che non c’è “nessuna preclusione verso l’Udc”. Chissà se davvero il morbido intervento del suo Giampero D’Alia prelude a una nuova intesa con gli ex democristiani oggi perno del terzo polo, se il terzo polo farà da terza gamba al governo Scilipoti. Ogni tempo ha i suoi trenta denari, diceva l’altra sera Casini in tv. Giuda era uno, però. Qui c’è la fila, col numero in mano. Quindici giorni di troppo, aveva detto Bersani quando la fiducia fu fissata al 14 dicembre con pausa di chiusura delle Camere. Aveva ragione. Due settimane di mercato di troppo. Ora, all’orizzonte, non resta altro che un vivacchiare scambiandosi di volta in volta il sacco dei denari. O il voto, certo.
l’Unità 15.12.10
Il segretario parla di «governo Scilipoti». Franceschini loda la compattezza dei 206 deputati Pd
D’Alema: «Berlusconi fattore di corrompimento». Confronto sulle alleanze, i malumori di Fioroni
Bersani: vittoria di Pirro «Di più non potevamo fare»
«Siamo al governo Scilipoti» ̧ è l’amaro commento del segretario del Pd. Si precipita verso il voto, sul piatto c’è il tema delle alleanze, Veltroni oggi riunisce gli esponenti di Movimento democratico. Fioroni si farà sentire.
di Simone Collini
Bersani si affida all’ironia, per quanto amara: «Siamo al governo Scilipoti». D’Alema, tagliente: «Berlusconi si conferma un fattore di corrompimento della vita pubblica». Franceschini sottolinea il voto unanime dei 206 deputati Pd e il fatto che la mozione di sfiducia
«sarebbe passata se non ci fossero stati i tradimenti di due deputati dell’Idv». Letta invita tutti a «non mollare» dopo questo «primo passo»: «Dobbiamo proseguire sulla linea del rapporto con Casini e Fini».
I dirigenti del Pd escono dall’Aula e via via si infilano nell’ufficio del segretario a Montecitorio, nella cosiddetta Galleria dei presidenti. Il risultato della votazione è stato dato da pochi minuti. Su un divanetto di fronte ai ritratti di Saragat e Terracini siede tutto sorridente Scilipoti, che mette il telefonino in modalità viva voce per far sentire al collaboratore che gli sta accanto che Berlusconi lo ha chiamato per ringraziarlo. Arrivano anche Bindi, Fassino, Marino, Fioroni, Gentiloni e Veltroni. Fi-
nocchiaro è bloccata al Senato per via degli scontri di piazza. Anche nel Transatlantico della Camera inizia ad arrivare l’odore di bruciato. Nella stanza di Bersani c’è un clima non proprio allegro. Di fronte agli altri seduti in circolo, il segretario definisce quella di Berlusconi una «vittoria di Pirro», difende la strategia seguita fin qui «abbiamo ottenuto il massimo possibile in questo momento, prima avevamo di fronte una maggioranza di un centinaio di voti, ora si sono ridotti a tre» ribadisce che nell’azione di contrasto al governo ci saranno «rapporti» anche con Fini e Casini e continua a insistere sulla necessità di dar vita a un «governo di responsabilità nazionale». Linea difesa da Franceschini, D’Alema, Bindi e non contestata da nessuno nel corso della riunione.
PERPLESSITÀ E CRITICHE
Ma Veltroni, che oggi riunisce gli esponenti di Movimento democratico e ha deciso di far slittare di una settimana il Lingotto 2, rimane convinto che adesso il Pd debba «investire su se stesso» evitando di impegnare tutte le energie nelle strategie parlamentari con le altre forze politiche. E Fioroni, che sta dando vita a una fondazione di ex-ppi (il nome potrebbe essere, parafrasando don Sturzo, «Liberi dai forti») evita di ripetere durante la riunione ristretta le critiche espresse di fronte ai suoi per la scelta degli interventi in aula: «D’Alema, Veltroni, Fassino, Bersani, manca Occhetto e hanno rifatto il Pds»).
Ma lasciando la stanza del segretario e arrivando in Transatlantico, Fioroni non nasconde le sue perplessità per il credito dato ai finiani: «L’avete ascoltato l’intervento di Bocchino? L’avete per caso sentir fare almeno un accenno al governo di responsabilità nazionale?». A un altro ex-popolare come Grassi non sono piaciuti neanche i riferimenti del capogruppo Fli all’Msi e Parisi, che pure era stato tra i primi a sollecitare la presentazione di una mozione di sfiducia, attacca: «Avrei preferito avessimo perso nel voto con le nostre ragioni, invece che all’inseguimento di un inesistente terzo polo. Quante altre sconfitte dovremo subire prima che il gruppo dirigente del Pd riveda la sua linea di condotta?». Per non parlare delle critiche proveniente dal fronte dei “rottamatori”, con Civati che constata che «la zona gianfranca, come temevamo, non ha retto» e con il sindaco di Firenze Renzi che critica apertamente la strategia seguita dai vertici Pd: «Fini in 30 anni non ha azzeccato una mossa, neanche per sbaglio. Penso a chi ha osannato Fini in questi 6 mesi, convinto fosse un “compagno” solido per il futuro».
Lo scenario
Veltroni oggi riunisce quelli di MoDem Dubbi su Fli e Casini
LE URNE E IL NODO ALLEANZE
Bersani per ora non si preoccupa, ma sa che presto potrebbe scatenarsi una discussione all’interno del Pd. Se è vero che anche dopo questo voto «non cambia nulla, il governo non ce la farà e la crisi politica ne esce drammatizzata», è anche vero che lo sbocco più verosimile in questo quadro sono le elezioni anticipate. Bersani rimane convinto che «per un Paese nei guai, pensare al voto è da irresponsabili», ma dice anche che il Pd non teme le urne. Il nodo delle alleanze è però ancora tutto da sciogliere. Non a caso alla riunione si è preferito evitare di impegnarsi in una discussione su questo punto.
Bersani punta a una coalizione in cui non rimangano fuori i centristi, e l’annuncio di Casini che in caso di voto l’Udc non si alleerà al Pd non ha fatto piacere. Un’alleanza ristretta a Pd-Idv-Sel avrebbe poche chance. Inoltre ha provocato non poca irritazione tra i Democratici, tra i lettiani ma non solo, il fatto che in una giornata come questa Vendola si aggirasse per la Camera dicendosi pronto a candidarsi a premier.
l’Unità 15.12.10
Vendola sorride e scalda i motori: «Si vota a marzo Adesso primarie»
Vendola “festeggia” il risultato della Camera: «Non partecipo col cuore alle vicende del palazzo, non c’è spazio per formule artificiali che non hanno fondamento. Si vota a marzo, subito le primarie e io sono pronto».
di A.C.
Scalda i motori, Nichi Vendola. E non fa nessuno sforzo per mostrarsi dispiaciuto della vittoria ai punti del Cavaliere. «Non partecipo col cuore alle vicende del Palazzo», sorride il governatore passeggiando per il Transatlantico, quando ormai la polvere degli scontri del mattino si è depositata. Non si era mai mostrato particolarmente entusiasta dell’asse del Pd con Fli e Udc, e che vedeva come il fumo negli occhi un governo di transizione che avrebbe allontanato le urne di vari mesi, forse di più. Anche se autorevolissimi dirigenti del Pd lo avevano chiamato per chiedergli fair play, «non sparare contro il nuovo governo, se puoi». E invece no. Alcuni deputati pugliesi del Pd ci scherzano su: «Nichi è sempre maledettamente fortunato...». E lui insiste: «Questa legislatura è finita, è evidente che non c’è spazio per costruire formule un po’ artificiali che non hanno fondamento qui, e soprattutto nella realtà». Ecco, appunto. Vendola, anche per ragioni oggettive, visto che non ha deputati, guarda fuori dai palazzi, alle primarie che (forse) verranno se si andrà alle urne a marzo, come lui stesso pronostica: «Sono pronto a candidarmi per fare il leader del centrosinistra», confida, poco prima che Fini proclami il risultato del voto di fiducia. «È l’Italia che sta sfiduciando Berlusconi, c’è un sentimento collettivo dilagante, tanta gente che non sopporta più questa scena. Il problema è tradurre questa rabbia in un processo positivo».
Sorride Vendola, anche perché non vede nel voto un successo del Cavaliere: «314 è un numero male-
detto, una vittoria provvisoria, la peggiore: è un attimo di euforia che due secondi dopo si trasforma in depressione». Primarie dunque. Da fare «in fretta». «E non lo dico da oggi, do semplicemente voce a una cosa che è nella realtà».
SEL: PRIMARIE A GENNAIO
Il governatore pugliese sintetizza la sua analisi sulle prossime fasi del governo: «Berlusconi tenterà di allargare la maggioranza alle forze centriste, ma penso che non troverà terreno fertile per un nuovo centrodestra». Ecco perchè si voterà presto, a marzo. E allora i gazebo «vanno convocati immediatamente», dice Gennaro Migliore, uno dei colonnelli di Vendola. «Si sono consumati tutti i margini per le manovre di palazzo, l’alleanza naturale che il nostro popolo si aspetta è Pd-Idv-Sel, per eventuali allargamenti si vedrà poi», dice Migliore. Che fissa a «fine gennaio-inizio febbraio» la data utile per le primarie. «Per noi si potrebbero anche fare insieme a quelle di Bologna e Napoli, il 23 gennaio». «Prendere altro tempo e rinviarle ancora sarebbe una beffa per gli elettori. Le primarie sono l’unica strada per mobilitare i nostri elettori, per vincere poi le elezioni vere». E l’alleanza del Pd con Casini? «Quella è sempre stata solo nella mente dei dirigenti del Pd, Casini ha già detto che alle urne si presenterà da solo», dice Migliore. «Ha ragione Parisi: quante altre sconfitte servono prima che il gruppo dirigente del Pd riveda la sua linea?».
l’Unità 15.12.10
Maroni: tutto ha funzionato Ma Bersani accusa: «Spieghi le infiltrazioni violente»
Polemica sulla sicurezza. Il ministro dell’Interno: gestione equilibrata delle forze dell’ordine. Il segretario del Pd punta il dito: «Nessuno ha impedito che si infiltrassero violenti». E Fini parla di «episodio ignobile».
«Se non c'erano i blindati li avremmo visti arrivare qui con i martelli e i picconi», prova a schermirsi Roberto Maroni con i deputati che gli raccontano quale impresa sia stata, ieri, conquistare l’ingresso in Parlamento. E più tardi il ministro dell’Interno affida al capo della Polizia Manganelli il messaggio per il questore di Roma e per tutte le forze dell’ordine, per apprezzare «l'equilibrio e l'oculata gestione dimostrata in tutte le fasi della manifestazione». Ma gli scontri in centro, per il segretario del Pd Pier Luigi Bersani mettono a nudo come qualcosa non abbia funzionato.
Quando si calma l’aria nelle strade, tutti sono d’accordo nell’esprimere solidarietà agli agenti feriti. Ma è polemica sugli incidenti e la violenza
di questa giornata di fuoco. Con un centrodestra che fa passare l’intero fronte delle mobilitazioni per un esercito di agitatori fino a un Maurizio Gasparri che guarda a sinistra e lancia accuse di complicità «con chi attua la violenza» e Pier Luigi Bersani che chiama in causa con più precisione Maroni: «È intollerabile che dentro le manifestazioni siano riusciti a inserirsi teppisti, violenti e black block ben riconoscibili, e che sia stato possibile produrre devastazioni in pieno centro a Roma. Maroni dovrà chiarire». Durissimo, intanto, il commento del ministro della Difesa, Ignazio La Russa, che sfila a piazza del Popolo per salutare la polizia dopo gli scontri: «C'è stato una sorta di raduno nazionale di tutti coloro che avevano l’obiettivo non di manifestare un'opinione, ma di attaccare le forze dell'ordine e impedire il legittimo percorso dell' attività parlamentare». Sulla stessa linea il ministro del Lavoro, Sacconi: «Una violenza vergognosa che merita solo repressione».
Corriere della Sera 15.12.10
Pd sconfitto, ma Bersani non cambia linea
di Maria Teresa Meli
ROMA — Lo hanno capito veramente solo un’oretta prima della votazione. Ma in realtà, tranne poche eccezioni, i dirigenti del Partito democratico non ci speravano troppo. Sapevano che i numeri erano ballerini. È stata una sconfitta, sì, anche se meno cocente di quella subita da Fli. E di fronte all’insuccesso, il partito deve mostrarsi unito e solidale. Perciò Pier Luigi Bersani ha convocato il caminetto con tutti i leader, da Veltroni a D’Alema, passando per Fioroni, Gentiloni, Fassino, Franceschini e Marini. Un incontro veloce che dura solo mezz’oretta e che avrà una coda oggi. La versione ufficiale è che tutto è filato liscio come l’olio e che non c’è nessuna divergenza. La accreditava anche la minoranza interna, perché la consegna è stata questa. Gli unici che hanno turbato la pseudo-quiete in casa democratica sono stati Matteo Renzi e Arturo Parisi. Il sindaco di Firenze ha preso in giro quelli che nel suo partito (quasi tutti praticamente) hanno «osannato Fini in questi sei mesi, convinti che fosse un compagno solido per il futuro» , lui che «in 30 anni non ha azzeccato una mossa, nemmeno per sbaglio» . Insomma, una critica, neanche troppo velata, alla linea Bersani-D’Alema. Renzi è fatto così, ama parlare pane al pane e vino al vino. Anche Parisi non è riuscito a fare finta di niente e a tacere: «Quante altre sconfitte dovremo subire prima che il gruppo dirigente riveda la sua linea di condotta?» . In realtà Renzi e Parisi non sono gli unici a pensarla così. Perché se è vero, come accreditano le versioni ufficiali, che non c’è stata nessuna lite nel caminetto è anche vero che in quella riunione sono emerse due posizioni molto diverse, se non addirittura opposte. Da una parte, Bersani: «La nostra linea non cambia di una virgola» . E D’Alema che ha ipotizzato la possibilità di varare ancora adesso un governo di transizione. Dall’altra, Veltroni, Fioroni e Gentiloni che hanno chiesto al segretario un momento non c’è stata nessuna lite nel caminetto è anche vero che in quella riunione sono emerse due posizioni molto diverse, se non addirittura opposte. Da una parte, Bersani: «La nostra linea non cambia di una virgola» . E D’Alema che ha ipotizzato la possibilità di varare ancora adesso un governo di transizione. Dall’altra, Veltroni, Fioroni e Gentiloni che hanno chiesto al segretario un momento di confronto nel partito sulla strategia da seguire, perché il Pd non può limitarsi a fare da comprimario a Fini e Casini. «È indispensabile riprendere in mano noi l’iniziativa» , è stata l’esortazione di Veltroni. Per dirla in poche parole, secondo l’ex segretario del Partito democratico «non è possibile fare finta di niente» : la linea strategica è da rivedere, assolutamente. Anche perché, ad avviso di Gentiloni, pur se meramente «tattico» il successo di Berlusconi non può essere derubricato come un «evento marginale» . Sulla stessa lunghezza d’onda Fioroni. Ma con una preoccupazione in più: «Siamo veramente così sicuri che Berlusconi e Casini non tornino a parlarsi in un futuro non più lontanissimo?» . Il rischio effettivamente c’è. Ed è presente a tutti. Proprio per questo secondo Enrico Letta «tattico» il successo di Berlusconi non può essere derubricato come un «evento marginale» . Sulla stessa lunghezza d’onda Fioroni. Ma con una preoccupazione in più: «Siamo veramente così sicuri che Berlusconi e Casini non tornino a parlarsi in un futuro non più lontanissimo?» . Il rischio effettivamente c’è. Ed è presente a tutti. Proprio per questo secondo Enrico Letta «non bisogna mollare proprio ora e si deve invece proseguire sulla linea del rapporto con Casini e Fini» . Opposta la posizione dell’ex ppi Giorgio Merlo, vice presidente della commissione di vigilanza Rai: «È bene che Fini, d’ora in poi, vada per conto suo e che non si continui a considerarlo un alleato decisivo» . Dunque, i problemi ci sono, nel Pd, anche se per il momento hanno deciso tutti di stabilire una tregua. Bersani ha convocato il caminetto a questo scopo: per capire se fosse possibile restare ancora uniti almeno fino a quando non si capirà come vanno a finire queste tormentate vicende politiche. E a questo proposito nessuno se la sente di escludere le elezioni. Comunque, finché regge la tregua interna, si va avanti seguendo l’indicazione di Bersani: «Sarà battaglia con le altre opposizioni contro il governo» . Avanti tutta con il tentativo di metter sotto Berlusconi alla Camera nelle votazioni che verranno: i prossimi appuntamenti potrebbero essere la mozione di sfiducia a Bondi e il decreto sui rifiuti.
Repubblica 15.12.10
Bersani tira dritto: "La linea è giusta" ma per la minoranza la rotta va corretta
Il leader pd: il governicchio cadrà. Renzi attacca
I veltroniani chiedono di cambiare linea: "Pensare meno alle alleanze"
di Giovanna Casadio
ROMA - Fino all´ultimo il Pd ha sperato di vincere la partita. Bersani lo ammette: eravamo a un passo dalla nuova fase. Invece, la doccia fredda. «Eccoci nel governo Scilipoti-Razzi», che svela la fragile vittoria di Berlusconi, «una vittoria di Pirro, una scandalosa compravendita dei voti che consegna al Paese un governo più debole e un´opposizione più ampia e un esecutivo nell´impossibilità di dare una rotta». Pochi minuti dopo la fiducia a Berlusconi, il segretario democratico riunisce i big nel suo ufficio a Montecitorio. «Grazie a noi la maggioranza non c´è più - esordisce - ci siamo mossi bene, l´opposizione si è allargata».
E la strategia Pd resta la stessa: no alle elezioni-iattura per il Paese («Chi pensa al voto è irresponsabile»); prestissimo il «governicchio» cadrà, la battaglia ora si fa dura; ci vuole «un governo di transizione». Ma, al di là delle rassicurazioni, per i Democratici, delusi e preoccupati, comincia una difficile scommessa: da un lato, ritrovare un´unità non di facciata come è stata la tregua in attesa della spallata; dall´altro attrezzarsi per affrontare le elezioni che restano uno spauracchio. Matteo Renzi, il "rottamatore" (messo sotto accusa nel partito per essere andato una settimana fa ad Arcore da Berlusconi), si toglie la soddisfazione di dire su Facebook quel che pensa di Fini e di chi si è fidato di lui: «Fini in trent´anni non ha mai azzeccato una mossa, neanche per sbaglio», e c´è stato chi «lo ha osannato in questi sei mesi, convinto fosse un compagno solido per il futuro».
Walter Veltroni e gli altri Modem chiedono al segretario di «cambiare linea», di «tornare a dare le carte e pensare meno alle alleanze». Rischia di essere il Pd troppo a rimorchio di Fini, in pratica. Lo dice Beppe Fioroni, l´ex popolare, che fa pesare la sua forza contando gli aderenti (48) alla Fondazione appena creata. Torna il mantra della scissione dei Modem e della creazione di gruppi autonomi. Smentita indignata: tutte balle. «I gruppi separati non li faranno mai - commenta Franco Marini, leader storico dei Popolari e bersaniano - Ma dove vanno? Rompono, anche se non hanno tutti i torti». Amara considerazione di Arturo Parisi, braccio destro di Prodi quando quel governo fu sfiduciato la prima volta: «Nel 1998 dissi che avevamo perso, ma non ci eravamo perduti; ora abbiamo perso e ci siamo perduti. Avrei preferito avessimo perso nel voto con le nostre ragioni e non all´inseguimento di un inesistente Terzo Polo. Quanto ci vuole prima che il Pd riveda la sua condotta?».
I Democratici non vogliono sentire parlare di resa dei conti. Già oggi dovrebbe tenersi un nuovo coordinamento; questa sera, assemblea di Modem. C´è irritazione per l´Opa lanciata da Berlusconi sui «democristiani» del Pd. Rosy Bindi, cattolico- democratica e presidente del partito, reagisce: «Berlusconi non punti le sue carte su chi viene dalla storia della sinistra dc. Lui è solo un´anatra azzoppata». Si apre un fronte di aspra polemica con i dipietristi. Dario Franceschini accusa: «Se non ci fossero stati due traditori dell´Idv, Scilipoti e Razzi, avremmo vinto: il Pd è stato compattissimo». Per Idv sono «affermazione sciacallesche». Il Pd sa che la battaglia per fare cadere il governo ora inizia davvero: ci sarà il Vietnam delle commissioni; il decreto-rifiuti; la mozione di sfiducia a Bondi. Nichi Vendola in Transatlantico ieri rilancia: «Se si vota, e le elezioni sono più vicine, sono pronto alla premiership del centrosinistra».
Repubblica 15.12.10
D´Alema: con questi numeri lo sbocco più naturale restano le elezioni
"Da cretini fare dietrofront il dialogo con Udc e Fli necessario alla transizione"
di Goffredo De Marchis
Fini ha fatto una battaglia vera contro Berlusconi. Gli va dato atto. Certo, non ha né i soldi né il potere del Cavaliere
Bel partito del cavolo ha fatto Di Pietro. Loro la vera opposi-zione? Figuriamoci. E qualcuno gli dà pure corda
ROMA - «Mentecatti». Così Massimo D´Alema definisce quelli che ora mettono in discussione il sogno democratico di un governo di responsabilità istituzionale e la strada del dialogo con il Terzo polo di Fini e Casini. «Credo che nessuno nel Pd sia così stupido da poter sollevare questa obiezione. Cosa dovevamo fare? Votare la fiducia a Berlusconi per non fare sponda con Fli e Udc? Roba da mentecatti, appunto. La politica non è fatta di scenari, è una scienza semplice, basta ragionare». Eppure intorno al Pd le voci critiche sulla linea non mancano. Da Renzi ai veltroniani, da Fioroni a Parisi. Naturalmente, il presidente del Copasir non fa nomi. «Cretini in giro ce ne sono sempre. Ma spero che nel Pd non vengano fuori».
La sconfitta del fronte di opposizione D´Alema non può negarla. «Partivano da più 70 deputati, sono arrivati a più 3. Prima o poi vinceremo noi», è il commento al voto sulla fiducia venato da una nota di amarezza più che di sarcasmo. «Ma Berlusconi può governare con questi numeri? Assolutamente no. Già domani (oggi per chi legge ndr) si vota alla Camera e si troverà davanti la stessa opposizione. Vale a dire un Parlamento diviso a metà». A questo punto D´Alema scommette tutto sulle elezioni. «È lo sbocco più logico, mi pare». Senza rinunciare però allo spiraglio di un altro governo, di un esecutivo di transizione. «La prospettiva di un´alleanza con Fini e Casini resta in piedi, il voto a Montecitorio non la esclude». La allontana, però. Il presidente della Camera si è indebolito, per esempio. «Fini ha fatto la sua battaglia contro il premier, una battaglia vera - risponde D´Alema -. Gli va dato atto. Certo, non ha né i soldi né il potere di Berlusconi. Questo conta». Per l´ex premier il Parlamento ha raggiunto il livello più basso di «degrado mai visto nella storia della Repubblica. Deputati comprati, deputati nascosti dietro le tende fino all´ultimo per proteggere la vergogna di un voltafaccia. Uno spettacolo indecente per le istituzioni, per la democrazia. Che dobbiamo in larghissima parte a Berlusconi, alla sua parabola politica. Motivo in più per togliercelo dalle scatole (non dice proprio scatole, ndr)».
Il Partito democratico, al pari di Fini, ha fatto la sua battaglia, con i compagni di strada giusti. «Non siamo in un angolo. E non è vero - spiega D´Alema - che ora dovremo lavorare in una cornice di alleanze che va da Vendola a Di Pietro e basta. Chi lo dice? Le altre porte restano aperte per noi». Sicuro? «Noi dobbiamo fare la nostra parte ma non possiamo rispondere anche per gli altri. Non decidiamo solo noi». L´Italia dei Valori, ancora di più dopo la diserzione di due suoi deputati, è un partner indigesto per il presidente del Copasir. «Bel partito del cavolo (non dice proprio cavolo) ha costruito Di Pietro. Sono gli stessi che mettono i manifesti con la scritta "la vera opposizione". Loro, la vera opposizione. Figuriamoci. E qualcuno gli dà pure corda, i giornali li esaltano, credono o vogliono credere che sia davvero così». Il Pd non è messo male, secondo D´Alema, perché «ha dimostrato di essere la forza centrale dell´opposizione. Ha portato 206 deputati su 206 a votare la sfiducia. E il suo lavoro è cominciato prima, con le battaglie parlamentari delle ultime settimane, con la manifestazione di piazza San Giovanni. C´è un gruppo dirigente unito, non isolato, che non ha perso il sostegno della sua gente».
Non abbandonare Fini, non consegnare Casini al centrodestra, semmai scaricare Di Pietro sembra lo schema seguito da D´Alema. Dire che il governo di responsabilità è «ancora in campo» significa prendere atto dei numeri difficili per il premier ma anche tenere insieme un´ipotesi di coalizione in vista delle elezioni anticipate. Certo, per realizzarla ora ci vorrà una nuova iniziativa del Pd. Magari l´offerta a Casini della candidatura a premier che scavalcherebbe Bersani ma darebbe sostanza alla strada di un accordo. «Vengo adesso da una riunione con il gruppo dirigente. Siamo uniti, nessuna spaccatura», dice. Il che non esclude divisioni nelle prossime ore, anche laceranti. Ma il presidente del Copasir sa che solo un Partito democratico compatto può condurre in porto operazioni difficili come una nuova alleanza che rompe vecchi rapporti, che ha più di un nemico tra i democratici, che deve convincere potenziali alleati dubbiosi. Altrimenti un centrosinistra limitato a Pd, Di Pietro e Vendola diventa inevitabile.
il Riformista 15.12.10
Al Pd che cerca alleati il Terzo Polo dice no
L’Udc si sfila,Vendola inizia il pressing: «Pronto a candidarmi a premier del centrosinistra». I democrat sempre più divisi sulla strategia da seguire
di Ettore Colombo
Repubblica 15.12.10
Se la Chiesa assolve il suicidio e non l’eutanasia
risponde Corrado Augias
Gentile Augias, grazie per aver pubblicato la mia lettera, anche se nella sua risposta trovo una affermazione parzialmente vera, e cioè «la Chiesa concede i suoi riti ai suicidi in base al sofisma: nell'ultimo nanosecondo potrebbe essersi pentito». Lei commenta «è una scappatoia un po' vile». In realtà la Chiesa aveva già manifestato in alcuni documenti conciliari la sua volontà di dialogare con le "scienze umane", in quanto ci permettono di considerare i possibili condizionamenti di ordine psichico-fisico o sociale che possono determinare una scelta. Tutto ciò che condiziona una scelta, la rende meno libera e responsabile. Ecco perché si è più prudenti, da qualche tempo, nel "giudicare" una scelta drammatica come quella di togliersi la vita, lasciando il Giudizio solo a Dio. È importante che la teologia, dialoghi con le scienze umane, in modo particolare con le neuroscienze, per una migliore conoscenza della persona umana e del complesso mondo che la circonda. Anche in questo caso fede e scienza, come continua tenacemente ad affermare Benedetto XVI, non sono in contrasto, non si escludono, ma possono dialogare.
Don Felice Bacco - Canosa di Puglia
Mi dispiace sinceramente, davanti alla cortesia di don Felice, dover insistere. Ma non vedo la differenza tra colui che scrive una lettera d'addio e si spara alla tempia e il povero Welby che, disperato, rifiuta di continuare ad essere prigioniero della sua carcassa immobile e implora di essere "liberato". Al primo la Chiesa concede il rito funebre, al secondo no. La mia ipotesi è che la differenza sia "politica": il diverso clamore delle vicende, il possibile valore esemplare della seconda, come accaduto anche per Monicelli. Più in generale noto che non esiste una vera spiegazione alle parole tante volte ripetute "fine naturale della vita" che se vengono analizzate rivelano di non avere molto senso. Mi scrive Elisa Merlo ( lisamer@ tiscali.it ): « Riguardo alla "morte naturale", spiacente per don Felice Bacco, la confusione resta. La Chiesa afferma che il "tramonto naturale" è stabilito da Dio (cf Catechismo , enciclica Evangelium vitae , ecc.). Ora, giacché la lunghezza della vita è cambiata nel corso dei secoli, e cambia secondo il luogo dove si nasce, vien fatto di chiedersi se Dio cambi idea, stabilendo che generazioni di sue creature "tramontino naturalmente" per esempio a quarant'anni, altre invece a settanta. La somministrazione di medicinali o l'intervento di una macchina della tecnologia clinica può determinare l'ora della "morte naturale". Tutto stabilito da Dio?». Infatti la questione non si scioglie. Siamo di fronte a una di quelle espressioni che suonano benevole e rassicuranti ma prive di vera sostanza logica e assai deboli anche dal punto di vista teologico.
l’Unità 15.12.10
Il partigiano e l’ultimo Rom di Auschwitz
Mirko, Amilcare e la memoria dell’Italia
di Dijana Pavlovic
In questi ultimi giorni sono morti Mirko Levak, rom kalderash di Marghera, l’ultimo rom sopravvissuto ad Auschwitz, e Amilcare Debar, detto «Taro», sinto piemontese, staffetta e partigiano combattente (col nome di «Corsaro») nella 48 ̊ Brigata Garibaldi «Dante Di Nanni», comandata da Napoleone Colajanni, «Barbato». È stato ferito nella battaglia delle Langhe. ̆Nel dopoguerra è stato rappresentante del suo popolo alle Nazioni Unite a Ginevra; ha ricevuto il diploma di partigiano combattente dalle mani del Presidente Sandro Pertini.
Queste due figure fanno parte della storia dimenticata di rom e sinti nel nostro Paese.
Mirko Levak testimonia lo sterminio programmato dai nazisti per il popolo zigano sulla stessa base dello sterminio degli ebrei: il genocidio etnico, sterminare una razza impura. Due parole, l’Olocausto per gli ebrei, il Porrajmos per i rom e i sinti, indicano lo stesso destino ma non hanno lo stesso riconoscimento e lo stessa significato nella coscienza collettiva.
Il popolo rom e sinto ha subito nei secoli discriminazioni e persecuzioni come è accaduto agli ebrei e insieme hanno condiviso lo stesso destino nelle camere a gas e nei forni crematori di Auschwitz. Ma ancora oggi mentre la parola «Olocausto» esprime la colpa collettiva nei confronti di tutto il popolo ebreo, «Porrajmos» è una parola sconosciuta ai più, esattamente come lo è lo sterminio razziale degli “zingari”.
Amilcare Debar, come il rom istriano Giuseppe Levakovic, che combatté nella «Osoppo», Rubino Bonora, partigiano della Divisione «Nannetti» in Friuli, Walter Catter, fucilato a Vicenza l’11 novembre 1944, suo cugino ventenne Giuseppe Catter, fucilato dai brigatisti neri nell’Imperiese, testimonia la partecipazione di rom e sinti italiani alla guerra di liberazione dai nazifascisti.
Il silenzio che circonda queste storie, anche nelle ricorrenze ufficiali come la giornata della Memoria e il XXV Aprile, non solo segna il destino di marginalità che viene assegnato al popolo rom, ma indirettamente contribuisce alla sua emarginazione sociale, alla costante discriminazione nei suoi confronti e al ruolo di capro espiatorio per chi fa la propria fortuna elettorale sulla caccia allo zingaro. Per queste ragioni, se la memoria della nostra storia ci aiuta a essere orgogliosi della nostra identità troppo spesso negata, vogliamo che questa memoria sia occasione e motivo per restituirci la dignità che ancora oggi ci viene negata nel paese dove sono vissuti e morti uomini come Mirko e Amilcare.
dijana.pavlovic@fastwebnet.it
l'Unità 15.12.10
«Non piangete la mia morte» dell’anarchico condannato a morte negli Usa con Nicola Sacco
Il volume in uscita per Nova Delphi ripropone lo storico caso attraverso testi scritti in carcere
Signor giudice sono innocente. L’ultima arringa di Vanzetti
Ecco l’ultima arringa di Bartolomeo Vanzetti al processo che lo porterà sulla sedia elettrica insieme a Nicola Sacco. Il brano è tratto da «Non piangete la mia morte», in uscita presso i tipi di Nova Delphi.
di Bartolomeo Vanzetti
Il 9 aprile 1927 la Corte superiore di Dedham, presieduta dal giudice Webster Thayer, si riunì per notificare la sentenza di morte a Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti. Prima che la sentenza fosse emessa, i due imputati ricevettero però l’invito a pronunciare la dichiarazione di rito.
«Bartolomeo Vanzetti, avete qualcosa da dire perché la sentenza di morte non sia pronunciata contro di voi?»
«Sì. Quel che ho da dire è che sono innocente, non soltanto del delitto di Braintree, ma anche di quello di Bridgewater. Che non soltanto sono innocente di questi due delitti, ma che in tutta la mia vita non ho mai rubato né ucciso né versato una goccia di sangue. Questo è ciò che voglio dire. E non è tutto. Non soltanto sono innocente di questi due delitti, non soltanto in tutta la mia vita non ho rubato né ucciso né versato una goccia di sangue, ma ho combattuto anzi tutta la vita, da quando ho avuto l'età della ragione, per eliminare il delitto dalla terra.
Queste due braccia sanno molto bene che non avevo bisogno di andare in mezzo alla strada a uccidere un uomo, per avere del denaro. Sono in grado di vivere, con le mie due braccia, e di vivere bene. Anzi, potrei vivere anche senza lavorare, senza mettere il mio braccio al servizio degli altri. Ho avuto molte possibilità di rendermi indipendente e di vivere una vita che di solito si pensa sia migliore che non guadagnarsi il pane col sudore della fronte.
Mio padre in Italia è in buone condizioni economiche. Potevo tornare in Italia ed egli mi avrebbe sempre accolto con gioia, a braccia aperte. Anche se fossi tornato senza un centesimo in tasca, mio padre avrebbe potuto occuparmi nella sua proprietà, non a faticare ma a commerciare, o a sovraintendere alla terra che possiede. Egli mi ha scritto molte lettere in questo senso, e altre me ne hanno scritte i parenti, lettere che sono in grado di produrre. (...)
Vorrei giungere perciò a un'altra conclusione, ed è questa: non soltanto non è stata provata la mia partecipazione alla rapina di Bridgewater, non soltanto non è stata provata la mia partecipazione alla rapina e agli omicidi di Braintree né è stato provato che io abbia mai rubato né ucciso né versato una goccia di sangue in tutta la mia vita; non soltanto ho lottato strenuamente contro ogni delitto, ma ho rifiutato io stesso i beni e le glorie della vita, i vantaggi di una buona posizione, perché considero ingiusto lo sfruttamento dell'uomo. Ho rifiutato di mettermi negli affari perché comprendo che essi sono una speculazione ai danni degli altri: non credo che questo sia giusto e perciò mi rifiuto di farlo.
Vorrei dire, dunque, che non soltanto sono innocente di tutte le accuse che mi sono state mosse, non soltanto non ho mai commesso un delitto nella mia vita degli errori forse, ma non dei delitti non soltanto ho combattuto tutta la vita per eliminare i delitti, i crimini che la legge ufficiale e la morale ufficiale condannano, ma anche il delitto che la morale ufficiale e la legge ufficiale ammettono e santificano: lo sfruttamento dell'uomo da parte dell'uomo. E se c'è una ragione per cui io sono qui imputato, se c'è una ragione per cui potete condannarmi in pochi minuti, ebbene, la ragione è questa e nessun'altra. (...)È possibile che soltanto alcuni membri della giuria, soltanto due o tre uomini che condannerebbero la loro madre, se facesse comodo ai loro egoistici interessi o alla fortuna del loro mondo; è possibile che abbiano il diritto di emettere una condanna che il mondo, tutto il mondo, giudica una ingiustizia, una condanna che io so essere una ingiustizia? Se c'è qualcuno che può sapere se essa è giusta o ingiusta, siamo io e Nicola Sacco. Lei ci vede, giudice Thayer: sono sette anni che siamo chiusi in carcere. Ciò che abbiamo sofferto, in questi sette anni, nessuna lingua umana può dirlo, eppure lei lo vede davanti a lei non tremo lei lo vede la guardo dritto negli occhi, non arrossisco, non cambio colore, non mi vergogno e non ho paura. (...)
Questo è ciò che volevo dire. Non augurerei a un cane o a un serpente, alla più miserevole e sfortunata creatura della terra, ciò che ho avuto a soffrire per colpe che non ho commesso. Ma la mia convinzione è un'altra: che ho sofferto per colpe che ho effettivamente commesso. Sto soffrendo perché sono un radicale, e in effetti io sono un radicale; ho sofferto perché sono un italiano, e in effetti io sono un italiano; ho sofferto di più per la mia famiglia e per i miei cari che per me stesso; ma sono tanto convinto di essere nel giusto che se voi aveste il potere di ammazzarmi due volte, e per due volte io potessi rinascere, vivrei di nuovo per fare esattamente ciò che ho fatto finora. Ho finito. Grazie».
Corriere della Sera 15.12.10
La corsa di Darwin: così riuscì a beffare il collega più giovane
Accelerò la pubblicazione e cambiò le scienze
di Telmo Pievani
L’ opera alla quale stava lavorando da anni avrebbe dovuto assumere i contorni di un trattato in più volumi, ma l’imbarazzante circostanza di un collega più giovane che era giunto dopo di lui alle stesse conclusioni lo aveva indotto a stenderne in tutta fretta una sintesi. Nei tredici mesi di lavorazione la moglie Emma aveva letto le bozze, trovandovi un certo eccesso di punteggiatura. Infine giovedì 24 novembre 1859, negli uffici di Albermarle Street, John Murray, l’editore londinese delle guide turistiche per vittoriani, annunciò l’uscita del nuovo libro del naturalista e geologo inglese Charles Darwin, dal titolo L’origine delle specie per selezione naturale. L’autore era nello Yorkshire per le cure di «idroterapia» e ostentò serenità: «Sono infinitamente compiaciuto e fiero dell’aspetto della mia creatura» . Amato e odiato in pari misura, quel testo peculiare — pieno di citazioni di sconosciuti allevatori, di collezionisti dilettanti, di agronomi, viaggiatori e giardinieri— era in procinto di innescare una delle più accese discussioni scientifiche e filosofiche di tutti i tempi, incidendo in modo irreversibile sulla storia del pensiero e della cultura moderna. Spesso si dimentica che non fu l’opera di un giovedì 24 novembre 1859, negli uffici di Albermarle Street, John Murray, l’editore londinese delle guide turistiche per vittoriani, annunciò l’uscita del nuovo libro del naturalista e geologo inglese Charles Darwin, dal titolo L’origine delle specie per selezione naturale. L’autore era nello Yorkshire per le cure di «idroterapia» e ostentò serenità: «Sono infinitamente compiaciuto e fiero dell’aspetto della mia creatura» . Amato e odiato in pari misura, quel testo peculiare — pieno di citazioni di sconosciuti allevatori, di collezionisti dilettanti, di agronomi, viaggiatori e giardinieri— era in procinto di innescare una delle più accese discussioni scientifiche e filosofiche di tutti i tempi, incidendo in modo irreversibile sulla storia del pensiero e della cultura moderna. Spesso si dimentica che non fu l’opera di un esordiente, bensì di un cinquantenne ben affermato nella comunità scientifica britannica, Royal Medal per i suoi studi monumentali sui cirripedi, già noto al di fuori della cerchia accademica per quel Viaggio di un naturalista intorno al mondo definito «eccellente» da chi di esplorazioni si intendeva, Alexander von Humboldt. Non fu dunque una pubblicazione per la carriera, ma una sofferta gestazione dopo venti anni di osservazioni meticolose, di sperimentazioni e di congetture teoriche, tenute in gran parte segrete. A quelle idee, che ben presto diverranno evidenze corroborate — e cioè la trasformazione incessante delle specie biologiche per «discendenza con modificazioni» nel corso di milioni di anni e la parentela fra tutti gli esseri viventi sulla Terra, specie umana compresa— il naturalista stava infatti lavorando già dal 1838, quando iniziò a mettere nel cassetto i suoi Taccuini della trasmutazione. Ma l’attualità di Darwin non sta soltanto nell’affermazione dell’evoluzione come fatto assodato, quanto nella solida longevità del «lungo ragionamento» con il quale spiegò cause e meccanismi dei processi evolutivi. Benché nel libro non vi potesse essere traccia dell’ereditarietà, il nucleo centrale della teoria dell’evoluzione continua oggi a essere, pur con le opportune revisioni ed estensioni, quello darwiniano: variazione nelle popolazioni e selezione naturale. Non solo, la sesta e ultima edizione del 1872 venne riscritta da Darwin integrando le risposte alle critiche. In quelle pagine si trovano ipotesi aggiuntive, come quella della cooptazione funzionale di strutture già esistenti, che sono state persino rivalutate in tempi recenti. La storia delle specie veniva per la prima volta efficacemente descritta come un processo interamente naturale, colmo di imperfezioni e di contingenza, senza più il bisogno di ricorrere a cause finali e a creazioni speciali. Da lì i difensori della nuova visione evoluzionistica seppero promuovere una vera e propria politica culturale ed educativa a favore della rivoluzione darwiniana. Nell’Autobiografia, con uno strappo alla solita modestia, Darwin scriverà: «Ha avuto fin dall’inizio un grande successo» . Un successo al quale non sono estranee l’efficacia argomentativa e la prosa suggestiva con cui L’origine, né saggio specialistico né libro divulgativo, fu composto. A farne un classico della letteratura scientifica fu anche, come notò lo scrittore armeno Osip Mandel’štam nel 1932, lo stile affabile del naturalista vittoriano: «Non è una sonata, né una sinfonia... ma piuttosto una suite. L’energia dell’argomentazione si scarica in "quanti", in fasci. Accumulo e resa, inspirazione ed espirazione, flussi e riflussi» . Il «bel tempo scientifico di Darwin» splende quando «raggruppa il dissimile, il contrastante, il diversamente colorato» della natura. Mentre da ogni pagina sventola «la bandiera della flotta britannica» , si assapora il gusto di un’amabile conversazione fra gentiluomini di campagna.
Repubblica 15.12.10
Una giornata di studio per i 90 anni dello storico
Due decenni fa il suo "Una guerra civile", un saggio che sfidava pigrizie intellettuali
Claudio Pavone e i tabù infranti
di Guido Crainz
Raramente un libro ha avuto forza e capacità di persuasione nel rompere tabù e pigrizie intellettuali come Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità della Resistenza (Bollati Boringhieri), il lavoro più impegnativo di Claudio Pavone. E la giornata di studi dedicata a Pavone per i suoi novant´anni, alla presenza del presidente della Repubblica e in un Archivio del Quirinale gremito di studiosi, si è inserita nella discussione sui 150 anni di vicenda unitaria. Non solo perché ad essa rimandavano le relazioni di Sabino Cassese, Enzo Collotti e Stefano Rodotà, ma perché quel tema è un filo di continuità nel lavoro di uno storico che ha segnato stagioni di studi con autorevolezza e capacità innovativa, rigore e freschezza.
A vent´anni da quel libro appare chiaramente non solo il carattere di cesura che esso ha avuto negli studi sulla crisi italiana del 1943-´45 ma anche la lezione più generale che ha rappresentato. In primo luogo, per la capacità di cogliere in quella crisi il riemergere di «fratture, risentimenti, concezioni antagonistiche dell´uomo italiano e della nazione italiana di più ampio respiro». Attraverso una mole enorme di fonti, vengono scandagliati i differenti modi di "essere italiani" sedimentati in una vicenda lunga. E balzano i diversi percorsi attraverso cui, sulle rovine del fascismo e nella catastrofe della guerra, prese corpo un senso nuovo di patria. Appare oggi altrettanto prezioso un altro asse centrale, l´intensa riflessione etica sul nesso fra scelte individuali e vicende collettive: non vi può essere un grande affresco storico che non sia una riflessione sull´individuo, rigorosa e capace di imporre a se stessa compiti e limiti. Introducendo un capitolo chiave, che ha al centro il rischio di perdere la propria vita e di toglierla ad altri, Pavone annotava: lo storico deve analizzare il contesto in cui i conflitti si collocano ma non può mai dimenticare che esiste un problema della vita e della morte che non compete a lui risolvere. Sta qui il nodo più denso del tema della "scelta", e Una guerra civile disegna con grande finezza il prender corpo delle differenti opzioni che dopo l´8 settembre del 1943 iniziano a mettere in discussione la «rassegnata stanchezza indomita del popolo italiano», per dirla con Ada Gobetti. Vengono a dar vita a un conflitto che è lotta di liberazione nazionale e guerra civile.
Proprio sul tema della "guerra civile" Pavone incontrò le reazioni più aspre. Quella categoria era stata utilizzata da una pubblicistica neofascista volta a metter sullo stesso piano le opposte parti. Ma il libro poneva alle origini della Repubblica un irto groviglio di questioni, e impediva di rimuovere la corposa presenza del fascismo nella storia nazionale. Costringeva a non appannare limiti e tragedie della Resistenza, a riflettere sul convivere di alto impegno etico e rischio di totalizzazione in una guerra partigiana contro un nemico che aveva tutti i requisiti per essere qualificato come nemico totale. Spingeva a interrogarsi su «quella zona di confine che in ciascun uomo si colloca fra il territorio del bene e il territorio del male, che se lo contendono». Rileggendo questi passaggi si comprende meglio non solo quanto pesanti fossero i tabù che venivano infranti ma anche quanti stimoli ne vennero. Ne venne un interrogarsi sulla nostra storia capace di contrastare quelle volgarizzazioni e svalutazioni complessive di essa che riprendevano vigore in quel periodo, proprio in relazione alla Repubblica e alle sue origini.
Avvenire 15.12.10
L’islam secondo Tommaso
di Jean-Louis Bruguès
Nella maggior parte delle società dell’Europa occidentale diventa sempre più visibile e più forte la presenza di popolazioni islamiche. In Francia, Olanda e Germania la religione islamica è ormai diventata la seconda religione dopo il cristianesimo. Questa potenza accresciuta dell’islam sta provocando cambiamenti profondi nella percezione del fenomeno religioso da parte di un’opinione pubblica fortemente secolarizzata. In negativo, si potrebbe dire, che questa stessa opinione ha sempre più la tendenza ad associare religione e violenza, a tal punto che alcuni Paesi stanno considerando la possibilità di proibire ogni insegnamento confessionale nelle scuole, ritenendolo una fonte di divisione sociale, sostituendolo invece con una scoperta fredda del fatto religioso. In positivo, la presenza massiccia dell’islam obbliga a riconsiderare il ruolo propriamente sociale di queste stesse religioni e le pratiche spesso molto antiche della laicità. Se l’islam si considera una religione squisitamente comunitaria, e quindi sociale, al punto che il termine comunità è quello che più la caratterizza, è sempre più difficile relegare il fenomeno religioso nel privato, cioè nello spazio ristretto della coscienza individuale. Così è nato il concetto, inatteso, della laicità positiva, per coloro che credevano di aver chiuso con il religioso.
Nel 2000, nel rendere pubblica la Dichiarazione Dominus Jesus sull’unicità e universalità salvifica di Gesù Cristo e della Chiesa, il magistero ha proposto una Carta dello sviluppo legittimo della teologia cattolica delle religioni. È dunque all’interno di questa «carta» che conviene formulare le seguenti domande: come capire l’Islam? Qual è il valore delle sue dottrine e istituzioni culturali? Qual è il suo posto in ciò che noi chiamiamo l’economia della salvezza? La domanda è nuova in quanto viene posta nel contesto della mondializzazione e del pluralismo culturale che, come è stato ricordato sopra, sono caratteristiche tipiche della società del nostro tempo. Si tratta anche di una domanda molto tradizionale, nel senso che da molto tempo, in verità fin dalla sua nascita, durante l’impero romano, il cristianesimo si è interrogato con personalità forti come san Giustino sulla possibilità della salvezza personale per gli «infedeli in buona fede». È necessario, dunque, rifarsi agli antichi. Non è impossibile, dopotutto, che questi antichi riescano a illuminarci su problematiche nuove o almeno riproposte. Cosa direbbe Tommaso d’Aquino?
Vale la pena ricordare prima di tutto una proposizione teologica audace, relativa alla salvezza personale degli infedeli, che non è sicuro sia condivisa oggi da tutti i teologi. Tommaso insegna che non si può essere salvati senza la fede in Cristo, ma che non è necessario che questa fede sia per tutti così esplicita come presso coloro che hanno avuto la fortuna di ricevere il Vangelo. Già per sant’Agostino o Gregorio il Grande, la Chiesa vera che supera di molto i confini istituzionali visibili, raccoglie i giusti di tutti i tempi. «Dio vuole salvare le persone di ogni categoria», scrive il domenicano, «uomini e donne, giudei e gentili, piccoli e grandi; ma non necessariamente tutte le persone di ogni categoria», cioè non quelle che si sono escluse da sé conducendo una esistenza contraria alle prescrizioni L’Aquinate ci offre una strada da seguire nel dialogo coi musulmani: inutile parlare di Sacre Scritture, perché non ne riconoscono l’autorità.
Ma lo scambio di idee può riguardare la «ragione naturale», come fece lui criticando Avicenna e Averroè della legge naturale.
Tommaso conosceva due tipi di non-cristiani: i musulmani, a cui si sta facendo riferimento, e soprattutto i giudei, più vicini perché vivono all’interno del mondo cristiano. Può darsi che egli avesse sentito parlare dei Mongoli e dei Tartari, ma, salvo errore da parte nostra, egli non vi fa alcun riferimento particolare; Marco Polo non aveva ancora fatto uscire il racconto dei suoi viaggi in Estremo Oriente.
Per quanto riguarda i maomettani, o i saraceni (a volte egli usa l’espressione i mori), Tommaso d’Aquino ci offre tre intuizioni che noi avremmo certamente interesse ad approfondire. In primo luogo, poiché questi non riconoscono alcuna autorità alle Sacre Scritture, è inutile portare la discussione su questo terreno; gli argomenti di scambio non possono che riguardare la ragione naturale. Notiamo di passaggio che, anche se egli li combatte vigorosamente, Tommaso riconosce il valore intellettuale dei migliori rappresentanti della filosofia araba, Avicenna o Averroè. In effetti, egli stesso non ha mai letto il Corano, anche se ai suoi tempi c’erano due traduzioni in latino. In secondo luogo, il loro Dio non è sicuramente quella trinità di persone, che fa apparire il cristianesimo ai loro occhi come una specie di politeismo – e si sa che questo punto costituisce uno degli ostacoli più grandi nello scambio teologico –, ma egli è comunque una sola persona: «La natura di Dio, come è in sé, non la conosce né il cattolico né il pagano; ma l’uno e l’altro la conoscono secondo una certa ragione di casualità, o d’eminenza, o di negazione».
Si può pensare che Tommaso d’Aquino, per i due motivi appena menzionati, non si sarebbe aspettato di ottenere grandi risultati da uno scambio propriamente teologico tra le due religioni (sarebbe andato sicuramente in modo diverso per uno scambio filosofico). È l’opinione della maggioranza dei teologi ancora oggi. Per contro, i cristiani dei nostri tempi si chiedono quale atteggiamento adottare nei confronti dei musulmani. Di fatto la Dichiarazione Nostra aetate incoraggia i cristiani a promuovere insieme con i musulmani «la giustizia sociale, i valori morali, la pace e la libertà» per tutti gli uomini.
Sicuramente il Dottore della Chiesa non ha mai avuto una conoscenza diretta di questo ambiente. Egli propone una riflessione squisitamente teologica. Affrontando la questione da un punto molto elevato, ci offre un prezioso filone di ricerca. Egli ricorda che nella sua onnipotenza Dio permette il verificarsi dei mali nel mondo, per timore che eliminandoli siano impediti dei beni ancora più grandi. Non afferma che la pratica di un culto pagano sia un bene in sé, ma non conclude neanche che tutte le azioni di questi stessi pagani costituiscano dei peccati. Alcuni tra loro, come il centurione Cornelio degli Atti degli Apostoli, possono anche non essere infedeli nel senso spirituale del termine. In ogni caso, i pagani non devono mai essere costretti ad abbracciare la fede in Cristo; non abbiamo il diritto di battezzare dei bambini non cristiani contro la volontà dei loro genitori. Tommaso va oltre: i Príncipi infedeli possono legittimamente esercitare la loro autorità su soggetti cristiani, perché il diritto divino della grazia della fede non sopprime la sovranità né l’autorità del diritto umano che emana dalla legge naturale.