martedì 7 febbraio 2006

Corriere della Sera – Salute, 06.02.06
Quella nebbia è calata sull'anima
La depressione non è la tristezza o la sottile malinconia che possono provare tutti nella vita. È una malattia come le altre. E come queste va accettata e curata, con prontezza e senza vergogna.


■ Come riconoscerla per individuare con precisione quali sono i suoi veri segnali e le sue conseguenze, imparando a distinguerla dalla normale tristezza, dalla malinconia o dall'ansia

■ Come capirla per sapere che va accetata e trattata come una qualsiasi altra malattia, da affrontare con tempestività, coraggio e fiducia, senza nessuna vergogna, paura o senso di colpa

■ Come curarla con l'aiuto dei farmaci e delle altre terapie a disposizione, che possono fare uscire da questo tunnel buio dell'anima nel 70-80 percento dei casi

A tutti può capitare di alzarsi alla mattina già stanchi, senza voglia di affrontare la giornata. Oppure di essere malinconici, di attraversare un momento di pessimismo o di tristezza.
Sono stati d’animo normali, che possono capitare a chiunque in momenti difficili della vita. Se però questi stati d’animo non accennano a finire, sono sproporzionati rispetto agli eventi che li hanno provocati, o non sono riconducibili a nessun evento particolare, occorre valutarli diversamente. Soprattutto se, oltre a prolungarsi nel tempo, si accompagnano alla perdita di ogni interesse per attività che prima si trovavano piacevoli, per il cibo, per il sesso: allora è possibile che invece che a normale tristezza ci si trovi di fronte a una delle varie forme possibili di depressione.

Il sospetto, a maggior ragione, è giustificato qualora, contemporaneamente a un calo dell’umore che dura troppo a lungo, si verificano cambiamenti anche in alcune funzioni naturali: per esempio non si riesce più a dormire bene, oppure si dorme fin troppo, si perde l’appetito o, al contrario, si cercano in continuazione, con insistenza, sempre gli stessi cibi. Infine, ultimo e probabilmente più importante segnale: è legittimo sospettare una depressione soprattutto se, pur nello sconforto, nell’abbattimento, non si riesce a conservare nemmeno un po’ di ottimismo, un germe di sensazione che, comunque, le cose prima o poi andranno meglio.

Al Dipartimento di Scienze Psichiatriche e Medicina Psicologica dell'Università La Sapienza di Roma hanno messo a punto un indice semplicissimo per individuare la depressione e per quantificarne la gravità: l'indice di attitudine al riso.

Quando si é depressi cambia la nostra disposizione a confrontrarci con la risata delle altre persone e sarebbe possibile correlare il livello d'incapacità di ridere col livello di gravità della malattia.
La depressione, intesa come malattia, è una condizione in cui la tristezza si è adagiata sulla vita, come una nebbia che non lascia intravedere nessuno spiraglio di luce.

È quindi diversa dai comuni cambiamenti d'umore che possono derivare da circostanze sfavorevoli della vita, non tanto per la sua intensità, quanto, soprattutto, per la sua persistenza e la scarsa capacità di reagire che insinua nelle persone che colpisce.
La differenza tra depressione-malattia e normale malinconia, dicono gli esperti, sta nella capacità della depressione di produrre derangement, parola inglese che significa modificazione, turbamento, mentre la malinconia non riesce a cambiare la nostra vita.

E' un po' come la differenza che corre tra una polmonite e un banale raffreddore. Ma se un tempo per la polmonite non si poteva fare nulla, oggi basta semplicemente una terapia adeguata. E lo stesso vale per la depressione, che può essere efficacemente trattata nel 70-80% dei casi, evitando lunghe e inutili sofferenze.
Ma questo non lo sanno in molti.

Avrebbero voluto saperlo, e farne esperienza, molti grandi personaggi del passato che, secondo diversi storici della medicina, hanno sofferto di depressione.
Per esempio Mozart, forse il genio musicale che meglio ha saputo rompere gli schemi con le sue note particolarmente “brillanti”.
E così Baudelaire, Kierkegaard, Leopardi, probabilmente Lincoln, forse Michelangelo.

Evidentemente invece lo sapevano e hanno potuto sperimentarlo personaggi contemporanei come gli attori Vittorio Gassman e Sandra Mondaini o il giornalista Indro Montanelli, famosi anche per la loro comunicatività tutt’altro che “grigia” e “spenta”.
Insomma tutt’altro che personaggi “grigi”, “spenti”. Tanto per chiarire che la depressione non è un tratto del carattere, ma una vera malattia, che può coinvolgere tutti, anche le personalità più di spicco, le intelligenze più vivaci.
È importante sottolinearlo, perché chi soffre di depressione spesso si sente in colpa: pensa di non riuscire a reagire per pigrizia o incapacità, crede di non essere contento di nulla perché “è viziato”. E pretende, quindi, di farcela da solo, non accettando l’idea di essere malato. È convinto di essere solo un “buono a nulla”, “un incapace”. Ed è proprio questo uno dei motivi che spesso induce chi è depresso a rinunciare alle cure, pensando che tanto per lui non ne valga nemmeno la pena.
Riuscire invece a prendere coscienza del fatto che si tratta di una malattia come tante altre è il primo passo per accettare di farsi aiutare: chi ha una polmonite non pensa certo di poter guarire da solo.
E, ancora, chi soffre di questo problema o ha qualche familiare che ne è colpito, non deve pensare di essere solo.
Sono in molti a condividere le stesse sofferenze.


È molto diffusa
La depressione, infatti, non è una malattia rara, che interessa pochi sfortunati “ai margini” della società dei felici.
È invece un disturbo piuttosto comune, con il quale sono in tanti a trovarsi a fare i conti: nelle nazioni occidentali colpisce, in media, una persona su cinque/sei, almeno una volta nel corso dell’esistenza (secondo l’Oms, nel nostro Paese ci sono almeno cinque milioni di depressi).
Tuttavia, è bene saperlo, la depressione qualche preferenza ce l’ha.

Più donne che uomini
Per esempio preferisce le donne.
Ogni tre persone depresse due sono donne e ogni anno due donne su cento si ammalano, mentre per gli uomini l’incidenza è la metà.
Tuttavia va considerato che probabilmente questi dati sono in parte influenzati dal fatto che le donne vanno più facilmente dal medico, mentre gli uomini hanno più difficoltà ad ammettere questo genere di problemi.
Inoltre, bisogna aggiungere, la predilezione della depressione per le donne vale molto meno tra gli anziani e tra i bambini: in queste fasce d'età, infatti, ambo i sessi sono colpiti più o meno nella medesima percentuale. Le differenze tra i sessi sembrano attenuarsi non soltanto per l'aumentare degli anni, ma anche con il progressivo livellamento dei ruoli sociali.

Soprattutto giovani, ma non solo
Fra le preferenze della depressione c’è anche quella per i giovani e i giovani-adulti.
La vulnerabilità dei giovani, tra l’altro, sembra aumentata negli ultimi anni, probabilmente anche a causa dei molti cambiamenti intervenuti nella struttura familiare, sociale e occupazionale, che, rispetto al passato, hanno comportato la perdita di punti di riferimento sicuri, prospettive più instabili e la necessità di un continuo confronto con una realtà che muta a velocità molto maggiore rispetto a solo pochi anni fa.
Nell'età matura, fino a 65 anni, l’incidenza della depressione diminuisce, (anche se possono essere più frequenti altri disturbi dell’umore) per poi tornare ad aumentare soprattutto nei maschi, spesso in relazione al pensionamento.
In passato c'erano meno anziani depressi: la popolazione anziana era più ridotta, ma soprattutto c’erano altri valori e un altro stile di vita.
L’anziano restava sempre il perno della famiglia, un vedovo non restava mai da solo e poteva contare su un nucleo familiare, su parenti che potevano accoglierlo.
La sua progressiva emarginazione, in una società in cui tutto si misura in base alle performance, l'ha portato a perdere sempre di più il suo ruolo.
Oggi la depressione interessa il 15% degli anziani, ma la percentuale sale fino al 40% fra quelli che si trovano in una Casa di Riposo.
Spesso sono quelli con una malattia cronica e disabili a correre più rischi, senza contare la maggior fragilità emotiva legata al progressivo invecchiamento cerebrale che aumenta la precarietà del loro equilibrio psicologico.


Famiglie predisposte
Una particolare categoria di persone più vulnerabile alla depressione è rappresentata da chi avuto altri casi di depressione in famiglia soprattutto quando si tratta di uno o di entrambi i genitori.
In questi casi, infatti, il rischio di depressione è maggiore rispetto alla popolazione normale, anche se ciò non significa che la malattia sia ereditaria in senso stretto.

Nessuna distinzione di censo e di cultura
Se i sintomi della malattia possono essere parzialmente diversi da caso a caso in base al sesso o all'età, nessuna differenza si riscontra invece in funzione del livello culturale e del ceto sociale. La depressione è una malattia molto “democratica”: colpisce tanto i ricchi quanto i poveri, sia gli scienziati sia chi non ha avuto la possibilità di studiare.
Per un certo tempo si è pensato che le persone con una minore istruzione, oppure appartenenti a classi sociali meno abbienti tendessero a manifestare i sintomi "fisici" della depressione con maggiore frequenza rispetto ai pazienti degli strati sociali più elevati.
Poi, invece, si è visto che sintomi quali la “mancanza di energia”, le variazioni di peso, il “sentirsi deboli e a pezzi”, vengono riferiti dai depressi di qualsiasi classe sociale.
Non solo: la depressione non fa nemmeno distinzioni fra i popoli.
Secondo la maggior parte degli studiosi, infatti, analizzando i sintomi con cui i disturbi dell’umore si presentano nelle diverse culture, si trovano più somiglianze che differenze.


Va accettata e curata
Giovani, donne, adulti, bambini o anziani che siano, le persone colpite da depressione, comunque, possono trovare cure efficaci. Ma a una condizione: che riconoscano la depressione e non la trascurino scambiandola per malinconia passeggera, e che ammettano con sé stesse di essere malate, di doversi far aiutare. Queste forme di “mancato riconoscimento”, infatti, fanno sì che - secondo molti studi - soltanto un caso di depressione su quattro venga correttamente riconosciuto e adeguatamente trattato. E ciò è particolarmente grave non soltanto perché prolunga inutilmente le sofferenze di chi è investito dal problema e dei suoi familiari, ma anche perché una depressione non riconosciuta e/o non curata adeguatamente può provocare guai spesso gravi: per esempio, nei giovani una depressione lasciata a sé stessa può diventare una porta aperta verso la tossidodipendenza. Senza contare che, secondo le stime più recenti, oltre il 15% dei depressi si suicida.

COME RICONOSCERLA

Come riconoscere i segni della depressione

Esistono criteri precisi per diagnosticare la depressione. I sintomi più importanti sono calo dell’umore e perdita di interessi. Ma ne servono anche altri per essere certi di avere a che fare con questa malattia


I sintomi più ricorrenti della depressione sono perdita di interesse, tristezza cronica, ecc. Tuttavia non si può rimanere così nel vago. A tale scopo gli esperti concordano sul fatto che per parlare “veramente” di depressione occorre che si presentino contemporaneamente e in modo persistente (per almeno due settimane) cinque o più di nove sintomi (e almeno uno dei due cosiddetti sintomi cardine “rivelatori”). È una specie di test che usano i medici, ma che può essere utile anche a chi sospetta di essere depresso, o ai suoi familiari, per controllare se nei sintomi che lo riguardano si possono riconoscere i tratti di questa malattia. Qualora il timore venisse confermato vale la pena di rivolgersi a un medico. Ecco i sintomi, seguiti da una breve spiegazione e da qualche esempio sui modi e sulle parole con cui si traducono nel “vissuto” di chi è colpito da depressione. Sia i sintomi del primo gruppo sia quelli del secondo, per essere significativi, devono essere presenti per due settimane ogni giorno o quasi ogni giorno.

Sintomi cardine rivelatori

Questi due sintomi sono ritenuti i più importanti per la diagnosi di depressione.

1)Umore depresso
“Non ho più speranza”, “Nessuno mi può aiutare”, “Tutto è inutile”, “Neppure il pianto mi consola”. Queste sono alcune delle frasi che è più facile sentir pronunciare da chi soffre di depressione. Ma l’umore depresso può manifestarsi anche con aumento dell’irritabilità (soprattutto nei bambini e negli adolescenti), con facilità a lasciarsi andare a veri e propri accessi di rabbia oppure a un incongruo senso di frustrazione.

2) Diminuito interesse o piacere per tutte, o quasi, le attività precedentemente ritenute piacevoli
“I miei hobby non mi interessano più”, “Non provo più piacere per nulla”, “Non mi interessa più niente del sesso”, “Non sono più capace di far niente”. Un piccolo segnale rivelatore di questo sintomo è accorgersi di cercare sempre scuse per non accettare inviti, per evitare di partecipare a eventi sociali.

Sintomi associati

I sette sintomi che seguono possono anche non essere presenti tutti contemporaneamente. Sono indice di depressione solo se associati ai due sintomi cardine rivelatori.

3) Perdita o aumento significativi del peso o dell’appetito
Chi è depresso può anche non avere meno appetito del solito, può anche soltanto non apprezzare più come prima il cibo, non sentire i gusti con la stessa intensità. Ma, attenzione, è possibile anche il contrario: una bramosia per determinati alimenti (soprattutto i dolci). Un indice abbastanza evidente in questi casi sono i chili in più o in meno che segna la bilancia, spesso parecchi anche in poche settimane.

4) Insonnia o ipersonnia
L’insonnia è uno dei più comuni sintomi nella depressione. Ma questo non vuol dire che i depressi non riescano più a dormire, ma solo che possono avere alterazioni del loro normale ritmo di sonno, dormendo di più o di meno rispetto al solito.
È facile per esempio che riferiscano di svegliarsi spesso durante la notte, oppure di destarsi più presto al mattino rispetto a come erano abituati a fare prima.
La conseguenza è avere continuamente sonno durante il giorno.
Anche in questo caso, però, attenzione: un depresso può avere sonnolenza diurna anche se dorme molto di notte. Altro disturbo possibile, infatti, è la cosiddetta ipersonnia, cioè la tendenza a dormire molto di più di prima, col desiderio di non svegliarsi mai la mattina, quasi a cercare rifugio nel sonno per non affrontare la vita.

5) Rallentamento o agitazione psicomotoria
Chi soffre di depressione spesso parla con voce bassa e monotona, ha pochi argomenti di conversazione e si muove anche più lentamente. Non è insolito, però, nemmeno l’opposto: per esempio, spesso, i depressi si tormentano continuamente le mani, non riescono mai a stare seduti.

6) Affaticamento o perdita di energia
“Sono sempre stanco“, “Ci metto il doppio di prima a fare le stesse cose”, “Mi sento prostrato”. Ai depressi mancano le energie, tutto riesce più faticoso, anche attività di minimo impegno, come per esempio il vestirsi, richiedono molto più tempo ed energia del normale.
Chi è depresso, non di rado, non pensa nemmeno a lavarsi, ad avere cura del proprio corpo e del proprio aspetto e, in maniera abbastanza tipica (ma non necessariamente), veste in modo “grigio” e piuttosto trascurato.

7) Sentimenti di autosvalutazione o di colpa eccessivi o inappropriati
“Non valgo niente”, “non sono capace”. I depressi si sentono insicuri e questo li porta spesso a pensare che la prostrazione che provano continuamente sia colpa loro (e per tale motivo non accettano di farsi aiutare).

8) Diminuita capacità di pensare o di concentrarsi, indecisione
“Non riesco più a ricordare niente”, “non riesco a concentrarmi”. Il depresso si distrae facilmente, non riesce più a ricordare con la facilità di prima, non riesce a concentrarsi. Molto significativa è la difficoltà a prendere decisioni.

9) Ricorrenti pensieri di morte, ricorrenti idee di suicidio
Per il paziente questo si traduce in idee del tipo: “La morte è l’unica cosa che mi può aiutare” quando non in pensieri o veri progetti di commettere suicidio. Ovviamente questo è in assoluto il segnale più preoccupante e pericoloso.

Disturbi depressivi dell’umore

Finora abbiamo parlato di depressione intendendo quella che i medici chiamano in linguaggio scientifico depressione maggiore.
Infatti la depressione fa parte di un gruppo di disturbi che hanno diversi punti in comune e come caratteristica dominante l’alterazione dell’umore. Nei disturbi depressivi dell’umore rientrano:

- la distimia (umore cronicamente depresso per la maggior parte del giorno per almeno due anni, ma con intensità minore rispetto alla depressione maggiore);

- la depressione maggiore, che, tra tutti i disturbi dell’umore, è il più frequente e rilevante;

- i disturbi bipolari, che consistono nell’alternarsi di periodi di euforia e di depressione (la cosiddetta sindrome maniaco-depressiva). Chi soffre di questa particolare forma di depressione passa da un estremo all’altro. Nei periodi in cui è “giù” presenta i sintomi classici della depressione,mentre in quelli in cui è “su” diventa iperattivo, si sente benissimo, ha mille idee che gli si accavallano nella mente.
Questa condizione può generare non pochi problemi perché durante le fasi di euforia può perdere in parte la percezione della realtà assumendo comportamenti eccessivi, quando non addirittura pericolosi.
Per esempio fa spese al di sopra delle sue possibilità, acquista automobili o gioielli che non si potrebbe mai permettere, sorretto da un incontrastabile ottimismo. Miete idee in continuazione, fa mille progetti, parla rapidamente, è fin troppo brillante, è infaticabile, veste in modo appariscente e incongruo. Classicamente rifiuta di farsi curare (pensa che sia il medico ad aver bisogno di aiuto, non lui, che sta benissimo). Salvo passare, improvvisamente, senza alcun preavviso, dalla fase “su”, alla fase “giù”, piombando nel pessimismo più nero e ritrovandosi a volte anche in circostanze drammatiche in conseguenza delle azioni intraprese nella fase maniacale. Le persone affette da disturbi bipolari sono chiamate maniaci-depressivi ma i loro alti e i loro bassi sono “più alti” e “più bassi” di quelli che hanno le persone normali. La durata e il ritmo di alternanza di questi periodi sono imprevedibili: possono durare mesi come giorni e fra gli alti e bassi si interpongono periodi di normale benessere dalla durata altrettanto imprevedibile.
Il rischio, in media, è di avere 3-4 episodi l’anno, ognuno della durata di vari mesi. Questo disturbo, tuttavia, se diagnosticato in modo adeguato può essere trattato con efficacia.
Recentemente c'è stata un'ulteriore conferma dell'importanza di un precoce riconoscimento diagnostico del disturbo bipolare: infatti, più tardi s'interviene con un corretto trattamento, più i periodi di benessere fra un ciclo di alterazione dell'umore e l'altro si accorciano, fino ad arrivare addirittura alla loro scomparsa, con pazienti che continuano ad oscillare direttamente fra mania e depressione, senza mai un attimo di tregua con umore normale.
Inoltre l'intervallo libero fra un episodio e l'altro è spesso segnato da sintomi sottosoglia che possono minare la qualità di vita, restando a lungo inosservati nei molti casi in cui non si verifica una completa remissione dagli episodi acuti di umore alterato.
In mancanza di un adeguato trattamento, con ogni nuovo episodio di mania e depressione il rischio di recidive aumenta, ma fortunatamente si sta dimostrando sempre più promettente l'uso di farmaci nati per altri scopi che a dosaggi diversi sono efficaci anche in questo disturbo: l'antiepilettico lamotrigina o l'antipsicotico olanzapina, che sembra, fra l'altro, anche quello che tiene più a lungo lontane le recidive.
La precocità del trattamento appare sempre più importante, soprattutto al primo episodio quando ancora la malattia non ha cominciato la sua esponenziale progressione, perché si va facendo strada l'idea di disturbo bipolare anche nell'adolescente, dove rischia di essere confuso con altre condizioni, prima fra tutte l'ADHD (il disturbo da inattenzione e iperattività) o altre manifestazioni spesso superficialmente ascritte alle comuni "paturnie" giovanili.
A differenza di queste, però, il disturbo bipolare giovanile può gravemente compromettere la carriera scolastica e lo sviluppo sociale ed emotivo dei ragazzi, sfociando a volte addirittura nel suicidio (30 volte più frequente che nella popolazione generale), ma che un corretto trattamento riduce drasticamente.


COME CAPIRLA

Tutte le cause del male

La malattia depressiva può sopraggiungere senza una ragione apparente oppure a seguito di periodi difficili della vita. Ma anche malattie, farmaci o eventi naturali, come il parto, possono innescarla


Quando arriva la depressione? E perché? Quali ne sono le sue cause? Le risposte possono essere molte e molto diverse, ma la depressione è sempre sinonimo di perdita: perdita della tranquillità (stress), perdita dell'autonomia (malattia), perdita di uno status quo fisiologico (mestruazioni, parto, menopausa) o psichico (lutto, licenziamento, divorzio, ecc) .
Ecco alcune tra le situazioni più ricorrenti.

Stress
La depressione può essere scatenata da situazioni difficili o stressanti come lutti, separazioni, delusioni, isolamento sociale, affettivo, frustrazione. Può essere provocata anche da problemi di salute, da disabilità, dalla vecchiaia stessa. Questo vale per chiunque, ma soprattutto per chi è più vulnerabile a questa malattia, come coloro che hanno già avuto casi in famiglia.

Ciclo mestruale
Talvolta i caratteri della depressione possono contrassegnare anche normali eventi fisiologici. Per esempio molte donne hanno sintomi depressivi in occasione del ciclo mestruale.

Parto
Molte madri possono soffrire di depressione dopo il parto. Questa forma di depressione si sviluppa più spesso entro le prime quattro settimane dopo la nascita del bambino (ma anche fino a 12 mesi dopo) e in taluni casi da una forma transitoria e moderata può trasformarsi in una grave psicosi col pericolo di suicidio e di soppressione del minore.

Menopausa
Per molte donne la menopausa può essere un momento critico. I cambiamenti fisici e psichici che avvengono in questo periodo sono un terreno favorevole per l’instaurarsi di episodi depressivi di varia entità.

Farmaci
La depressione può essere causata, in soggetti predisposti, anche da alcuni farmaci. Queste persone dovrebbero essere caute soprattutto nel prendere:
- alcune medicine contro la pressione alta (antiipertensivi, bloccanti l’adrenalina),
- anti-Parkinson (dopaminergici),
- cortisonici,
- estroprogestinici,
- determinati antitumorali,
- alcuni farmaci per il sistema nervoso (per esempio i neurolettici).

Malattie
Oltre all’alcolismo di cui è ormai certa la relazione con i disturbi depressivi, esistono diverse patologie che possono occasionalmente scatenare depressione. Per esempio:
- malattie della tiroide,
- disturbi neurologici (malattia di Parkinson, sclerosi multipla e demenza di Alzheimer spesso determinano anche sintomi depressivi),
- patologie autoimmuni (come il Lupus eritematoso sistemico) o infettive (AIDS),
- tumori.
Ma anche malattie “insospettabili” come tubercolosi, polmonite, artriti, diabete e più generalmente tutte le malattie croniche possono favorire la depressione.

- Diabete
Questa malattia viene presa spesso come esempio di disturbo cronico in cui la disabilità si associa a depressione, anche se molti medici, preoccupati più degli altri sintomi, non se ne curano abbastanza: secondo uno studio condotto dalla Washington University su oltre 20mila diabetici sia insulino che non-insulino dipendenti, in 1 caso su 3 il medico non si preoccupa di trattare la contemporanea depressione che invece affligge il 28% delle donne e il 18% degli uomini.

Parkinson e cefalea
Secondo uno studio comparso su Clinical Neuropharmacology anche il 40% dei parkinsoniani soffre d'ansia e la metà di depressione.
Ma forse l'esempio più limpido è il mal di testa.
Oltre alla cefalea tensiva e alle algie atipiche, dove quest'associazione è ormai certa, anche la più nota emicrania non sembra esserne esente.
In uno studio pubblicato l'anno scorso su Neurological Sciences, 52 neurologi italiani hanno esaminato centinaia di pazienti affetti da questo mal di testa e, usando specifici criteri di valutazione psicologica, hanno verificato che la depressione é una reazione quasi obbligata al continuo stress psicofisico correlato alla gravità del dolore e alla frequenza degli attacchi, con una grave compromissione del benessere che fa decadere enormemente la qualità di vita.

Cardiopatie e ictus

La depressione influenza anche i rischi legati alle malattie cardiovascolari: dopo un infarto spesso si sviluppa depressione e, se non viene curata, in 3 casi su 4 é significativamente associata a reinfarto.
In maniera simile, anche nello stroke il trattamento di una concomitante depressione ottiene una riduzione dei casi, indipendentemente dai fattori di rischio cardiovascolare "classici".

Dolore e depressione

Sono comunque soprattutto le malattie che comportano dolore cronico ad associarsi a depressione e molti sintomi spesso superficialmente giudicati come puramente fisici testimoniano come il corpo possa "accorgersene" per primo quando ancora noi non ci rendiamo conto di esserci ammalati di depressione o, come dicono in America: your body may know you're depressed before you do, dal titolo dato alla campagna di sensibilizzazione avviata negli Stati Uniti (www.paindepressionlink.com) per insegnare alla gente come riconoscere questo importante aspetto della depressione rimasto finora sempre in ombra.
Non ci si rende infatti abbastanza conto di quanto sia frequente l'associazione fra dolore fisico e depressione e di come sintomi fisici ed emotivi siano strettamente correlati: le più recenti ricerche indicano che solo quando anche i disturbi fisici vengono eliminati, il male di vivere può essere vinto.
Quando si sta curando una depressione, un qualsiasi dolore cronico, (ad esempio cefalea o mal di schiena) peggiora sempre la prognosi e allunga i tempi di guarigione.
Gli psichiatri diretti da Matthew Blair dell'Indiana University School of Medicine d'Indianapolis hanno ad esempio pubblicato su Psychosomatic Medecine uno studio partito dai risultati dell'indagine ARTIST STUDY condotta contemporaneamente in 37 ospedali americani per verificare cosa succede quando si cura solo la depressione, senza badare al dolore.
Al momento del ricovero, il 25% dei pazienti accusava vari tipi di dolore lieve, il 30% dolore moderato e il 14% dolori molto forti.
Pur usando tre diversi antidepressivi della nota famiglia degli SSRI (fluoxetina, paroxetina e sertralina), dopo 3 mesi il risultato era sempre lo stesso: con tutti e tre i farmaci, il miglioramento della depressione di chi aveva anche un dolore lieve è stato una volta e mezza peggiore rispetto a chi era "solo" depresso, per arrivare addirittura a valori di scarsa efficacia quadruplicati (4,1 volte) in chi accusava dolori molto forti.
Riferire al medico sensazioni di dolore anche vaghe costituisce uno dei tre sintomi (gli altri sono la sensazione di non essere a posto e quella di non sentirsi mai in grado di fare le cose), che, quando emergono nel corso di una qualsiasi visita, vanno sempre considerati buoni predittori clinici di una sottostante situazione depressiva o ansiosa: l'ha stabilito un altro studio condotto su quasi 2mila pazienti dal gruppo di Lawrence Wu della Duke University del Nord Carolina pubblicato sul Journal of American Family Practice.

Tutte le volte che depressione e dolore sono associati non basta utilizzare antidepressivi che agiscono solo sul neurotrasmettitore serotonina (si veda nel capitolo sulla terapia).
Sono invece più adatti gli antidepressivi SNRI, capaci di agire più incisivamente anche sul dolore perché la loro azione, oltre che sulla serotonina, si esplica anche sul neurotrasmettitore noradrenalina, risultata implicata nella trasmissione degli impulsi dolorifici.
Sia la venlafaxina, capostipite di questa classe di farmaci, che la recentissima duloxetina, grazie al loro doppio meccanismo d’azione su serotonina e noradrenalina, da una parte potenziano il cosiddetto sistema oppioide (le sostanze che il nostro cervello produce naturalmente per alleviare le sensazioni dolorose) e dall'altra aumentano il filtro verso il dolore che tutti abbiamo alla porta d'ingresso delle sensazioni, cioè a livello dei nervi periferici e del midollo spinale.
Questi antidepressivi agiscono direttamente sul dolore potenziando tali circuiti già ai dosaggi bassi dei primi giorni di terapia, per esprimere poi, dopo un paio di settimane, il massimo della loro potenza mentre stanno curando anche la componente depressiva che complica il dolore.

COME CURARLA

I farmaci che aiutano a curare

Contro la depressione sono stati ormai messi a punto molti farmaci, quasi tutti di provata efficacia. Sarà il medico a scegliere quelli più adatti alle caratteristiche della malattia e alle condizioni del paziente

La depressione clinica é una malattia cosiddetta "cronica recidivante": se non curata dà luogo a episodi di durata variabile da otto mesi a un anno, che poi tendono a ripresentarsi. Se si tratta davvero di depressione, cercare di guarire da soli fa soltanto prolungare inutilmente la sofferenza, col rischio aggiuntivo di cronicizzare ulteriormente la malattia. Con terapie appropriate, invece, si può cominciare a star meglio già dopo qualche settimana. Il trattamento più efficace contro la depressione prevede l'uso dei farmaci associati alla psicoterapia, che, così come altre forme di trattamento, conserva in questo disturbo un ruolo, di supporto alle medicine che, da sole, hanno successo nel 60-70% dei casi, mentre abbinando farmaci e psicoterapia si arriva all’80%.

Come agiscono i farmaci

I farmaci antidepressivi hanno lo scopo di riequilibrare i disturbi nella trasmissione nervosa che s'instaurano nel corso della depressione.
In particolare, queste medicine aumentano nel cervello la disponibilità di serotonina e noradrenalina, i due neurotrasmettitori al cui calo appare legata la maggior parte dei sintomi.
Per capire bene il modo in cui agiscono i farmaci antidepressivi è necessario osservare un po’ più da vicino il meccanismo della trasmissione nervosa.
Abbiamo visto che i neuroni si “passano” le informazioni, sotto forma di impulsi elettrici, attraverso particolari giunzioni chiamate sinapsi. Le sinapsi, sebbene piccolissime, sono strutture piuttosto complesse.
Per capire come sono fatte si può immaginarle come un fiume dove i messaggi che i neuroni si inviano sono carichi da trasportare tra una sponda e l’altra a bordo di piccole imbarcazioni, i neurotrasmettitori. Per far arrivare il loro “carico” a destinazione, non basta che queste barche arrivino sulla sponda opposta del fiume in un punto qualsiasi: è necessario che “attracchino” a dei “moli” dove c’è qualcuno pronto a riceverle. Questi “moli” sono i recettori. Le barche, inoltre, possono essere attaccate da “predoni” che li distruggono, che nella realtà sono particolari enzimi: le monoamino-ossidasi (per dopamina, serotonina e noradrenalina) e l’acetilcolinesterasi (per l’acetilcolina).
Infine, i neurotrasmettitori possono anche essere “richiamati” alla sponda di partenza: questo fenomeno è chiamato ricaptazione. Ebbene, la maggior parte dei farmaci che vengono usati contro la depressione agiscono su uno di questi meccanismi. Per esempio, un farmaco può bloccare gli enzimi che distruggono i neurotrasmettitori, oppure può esercitare un’azione di contrasto nei confronti del richiamo dei neurotrasmettitori alla sponda di partenza. In ogni caso, tutti i farmaci, indipendentemente dal loro meccanismo d’azione, hanno lo scopo di permettere che quante più “imbarcazioni” possibile arrivino alla loro destinazione e lì gettino a lungo l'ancora, rendendo disponibile il loro prezioso carico.
L’effetto dei farmaci, di solito, comincia a farsi sentire dopo tre settimane-un mese, ma può essere necessario anche più tempo per raggiungere i risultati desiderati. Anche se tutte le molecole utilizzate per la terapia antidepressiva sono potenzialmente efficaci non tutti i pazienti reagiscono altrettanto bene al trattamento: la risposta alla cura è infatti abbastanza personale e quindi la scelta dell’antidepressivo da parte del medico dipende dalle caratteristiche con le quali si presenta la malattia in ciascuna persona (per esempio può essere importante agire su alcuni sintomi piuttosto che su altri), dagli effetti collaterali che il farmaco può indurre, e dall’efficacia che quella particolare medicina ha su quel singolo individuo.
Questo modo di procedere è reso possibile anche dal fatto che oggi la scelta tra i farmaci antidepressivi è piuttosto ampia.

Farmaci classici

1) Antidepressivi triciclici

Quali sono
Amitriptilina, imipramina, clomipramina, desipramina, dotiepina, nortriptilina.

Cosa fanno
Questi farmaci sono “bloccanti non selettivi della ricaptazione”. In parole più semplici: inibiscono il “richiamo” sia della noradrenalina che della serotonina alla “sponda di partenza”, senza distinzioni.

Quanto sono efficaci
Sono utilizzati già da molti anni. La loro efficacia nella cura della depressione è quindi ampiamente riconosciuta. Il loro limite è rappresentato dal fatto che non sono selettivi e bloccano anche altre barche simili a quelle giuste, cioè influenzano altri neurotrasmettitori, minimamente implicati nella malattia, ma connessi invece ad altre funzioni che vengono così stimolate dalla presenza di un carico eccessivo che non avrebbe dovuto essere lì.
Per questo motivo possono dare alcuni effetti collaterali: in particolare di tipo sedativo, a carico dell’apparato cardiovascolare, nei movimenti e in altre funzioni.

2) Inibitori delle monoaminossidasi (IMAO)

Quali sono
Fenelzina, tranilcipromina, moclobemide.

Cosa fanno
Sono capaci di “difendere” i neurotrasmettitori dall’attacco delle monoaminossidasi, gli enzimi che ne favoriscono la distruzione.

Quanto sono efficaci
Sono efficaci, ma anch'essi sono poco selettivi, soprattutto per quanto riguarda la zona in cui agire e possono indurre ipertensione perché a volte vanno ad inibire anche i "pirati buoni" che in altre cellule svolgono un'azione positiva di stabilizzazione della pressione sanguigna evitando che certi carichi arrivino in porto. Inoltre il loro utilizzo richiede alcune restrizioni di carattere alimentare.

Farmaci di nuova generazione

1) Inibitori selettivi della ricaptazione di serotonina e noradrenalina (SNRI)

Quali sono
Venlafaxina, duloxetina, mirtazapina..

Cosa fanno
Inibiscono la ricaptazione di serotonina e noradrenalina. Per l’azione sono quindi simili ai triciclici, ma , come dice il loro stesso nome, sono estremamente selettivi ed è difficile che sbaglino barca.

Quanto sono efficaci
Producono miglioramenti in modo un po’ più rapido dei triciclici e hanno meno effetti collaterali. Sono efficaci soprattutto nei depressi con caratteristiche melanconiche, quando la depressione è associata ad ansia e nei pazienti maniaco-depressivi. Sono anche efficaci nella disassuefazione dall'alcol che spesso si associa alla depressione e, in virtù della loro doppia azione, agiscono meglio nei numerosi casi in cui è presente dolore cronico derivante da un'altra malattia.

2) Bloccanti selettivi della ricaptazione della serotonina (SSRI)

Quali sono
Fluoxetina, fluvoxamina, sertralina, paroxetina, citalopram.

Cosa fanno
Inibiscono la ricaptazione della serotonina “selettivamente”, cioè senza coinvolgere altri neurotrasmettitori.

Quanto sono efficaci
Hanno rappresentato una svolta molto importante nella cura della depressione. La loro capacità di agire solo sul neurotrasmettitore maggiormente implicato nel controllo dell’umore rappresenta un beneficio importante e il fatto che non interferiscano con altri neurotrasmettitori spiega la loro buona tollerabilità. L’efficacia è infatti analoga a quella degli antidepressivi classici, senza averne gli effetti collaterali, tranne alcuni disturbi gastrici e della sfera sessuale, legati sempre alla stimolazione della serotonina.

3) Inibitori selettivi della ricaptazione della noradrenalina (NARI)

Quali sono
Reboxetina.

Cosa fanno
La reboxetina è il capostipite di questa classe, che è quella introdotta più di recente per il trattamento della depressione. L’azione consiste nel contrastare la ricaptazione della noradrenalina, senza interferire con altri neurotrasmettitori.

Quanto sono efficaci
Questa classe, oltre che all’azione sul tono dell’umore, mira sopratutto al recupero del cosiddetto funzionamento sociale del depresso, cioè della sua capacità di ristabilire un’attiva relazione con il mondo esterno. Infatti non sempre la diminuzione dei sintomi depressivi coincide con un vero e proprio superamento completo della malattia. Quest’ultimo è, in parte, anche legato alla ritrovata capacità del depresso di mettersi in relazione con gli altri. L’obiettivo è legato al meccanismo farmacologico, che mira ad aumentare la disponibilità di noradrenalina, al cui calo è soprattutto legato l’affievolirsi dell’iniziativa. L’efficacia è paragonabile a quella dei triciclici, ma la tollerabilità è migliore, proprio per la selettività d’azione. Anche in questo caso i possibili effetti collaterali (tachicardia, disturbi urinari) sono legati all’aumento del neurotrasmettitore interessato, la noradrenalina.











Liberazione, 05.02.06
Sulla Terra c’è vita. Artificiale.

Ha l’aspetto di C3-PO (quello di “Star Wars”) ma è molto più piccolo. Una sorta di scatola di latta per cioccolatini su rotelle. E’ un robottino, e assieme ai suoi fratelli abita a Roma, non lontano dalla stazione Termini. Tutti insieme formano uno swarmbot, uno sciame di robot. Non sono molto evoluti, perché i loro “padroni”, gli scienziati che li hanno costruiti, ora li stanno facendo crescere. Si tengono per mano mentre vanno in giro alla ricerca di cibo, salvandosi vicendevolmente in caso di pericolo. In una stanza vicino alla loro c’è un altro robot, anche lui nato da poco. Non ha ancora un nome, ma ha già capito che nella vita dovrà seguire un umano e aiutarlo nei suoi bisogni. Presto tutti loro potrebbero entrare a far parte attiva della collettività della capitale.

E’ uno dei tanti progetti di Domenico Parisi, psicologo sui generis, padre - assieme a pochi altri - di questi piccoli robot, membro della direzione dell’Istituto di Scienza e tecnologie della cognizione del Cnr di Roma. Davanti alle stanze dei robot spera, fondi permettendo, di poter mettere dei grandi schermi in grado di riprodurre all’esterno quello che succede dentro i laboratori. Una scienza non segreta, quella cui aspira. Una scienza che serva davvero la collettività e di cui questa sia consapevole.


Professore, lei dal curriculum risulta uno psicologo. Ci spiega allora cosa ci fa qui, al Cnr, in mezzo ai robot?

E’ vero, sono uno psicologo poco riconoscibile, soprattutto dai miei colleghi. In realtà nasco filosofo, ma dopo la laurea sono andato in America dove ho studiato Psicologia. Poi sono tornato qui, nella mia città per lavorare al Cnr. Precisamente all’Istituto di scienze e tecnologie della cognizione, ex Istituto di psicologia. In pratica, mi occupo di robotica e di vita artificiale, usando una metodologia che noi definiamo della simulazione. Il principio della simulazione è semplice, ma molto rivoluzionario, soprattutto per le scienze umane: per capire una cosa la devo riprodurre.


Riprodurre immagino principalmente su computer. Quindi è un metodo di ricerca abbastanza recente.

Sì, in psicologia le simulazioni si fanno da una ventina d’anni.


L’idea originaria di usare robot per fare psicologia nasce qui, dal suo gruppo di studio al Cnr?

In parte, sì. La comunità scientifica studia le reti neurali, ovvero modelli simulati al computer del cervello, già dagli anni Ottanta. Noi ci siamo inseriti in quest’area, spingendola però verso la robotica.


Cosa vuol dire?

Vuol dire che al computer, o in un robot fisico, io non simulo solo le attività del suo cervello, ma tutta lei, il suo corpo, il suo sistema endocrino, quello immunitario…La vita artificiale insomma, non si preoccupa solo delle funzioni cerebrali, come l’Intelligenza Artificiale, ma simula l’intero corpo. Ecco, negli ultimi anni ci occupiamo esattamente di questo. Il termine “robotica” vuol dire semplicemente che lavoriamo con i robot. Riprodotti su computer oppure nella realtà fisica. Alcuni li facciamo noi qui, altri li compriamo.


Però mi scusi, ancora non mi è chiaro il ruolo di un gruppo di psicologi in tutto questo.

Intanto dovrebbe ricordarsi che, per quanto non sempre in modo coerente, la psicologia è una scienza come le altre. E tutte le scienze, da quando esiste la tecnologia digitale, tendono a riprodurre pezzi della realtà dentro il computer. Uno ha ancora l’idea dello scienziato che osserva la realtà, la misura e poi elabora le sue teorie. Ma oggi la scienza si muove anche in un altro modo: osserva i fenomeni e li rifà, li riproduce in un artefatto, che può essere una simulazione al computer, oppure una cosa fisica. Si studiano le cellule e le molecole ma si cerca anche di costruire nuove cellule e nuove molecole. Sto scrivendo un libro che si intitolerà “Le sette nane”, cioè le sette scienze dell’uomo: la psicologia, la liguistica, la sociologia, l’economia, la storia, l’antropologia, la scienza politica. Sono discipline “nane” se confrontate con le scienze della natura, ma prima o poi cresceranno, e uno dei modi per farle crescere è proprio sviluppando questo tipo di approccio riproduttivo e simulativo.


Mi faccia un esempio.

Se io riesco a “rifare” lei, cioè costruisco un robot che si comporta come lei e ha la sua stessa vita mentale, cosa ovviamente ancora tutt’altro che facile, potrò dire che i princìpi che ho seguito per costruire il robot sono gli stessi princìpi che governano il suo comportamento e i suoi meccanismi mentali, e quindi li ho capiti. Simulazioni di questo tipo attualmente si fanno in tutti i campi. In economia abbiamo fatto simulazioni di mercati e di organizzazioni sociali. In storia abbiamo riprodotto l’espansione dell’impero assiro o il diffondersi dell’agricoltura in Europa.


E con questo metodo scoprite cose diverse da quelle teorizzate?

Certamente. Perché una volta che ho costruito una simulazione mi posso mettere lì ad osservarla e spesso scopro cose a cui non avevo pensato. Inoltre, questo metodo ha un altro grande vantaggio, soprattutto per le scienze umane che di solito sono piuttosto vaghe, verbose. Tradurre le teorie in qualcosa di oggettivo e di meccanico mi costringe ad essere più preciso nella definizione dei vari processi.


Vediamo se ho capito. Se io avessi ucciso qualcuno e lei riuscisse a riprodurre una perfetta copia di me stessa, sul computer o addirittura in forma di robot, lei potrebbe studiarmi nella mia versione simulata per capire perché e cosa mi ha spinto a compiere quel gesto?

L’esempio non è carino ma è esatto. Dovrei costruire, anzi far crescere, un robot che a un certo punto del suo sviluppo arriva a uccidere qualcuno. E tramite lui potrei capire perché lei ha compiuto quel gesto. Perché deve essere chiaro che noi, occupandoci di vita artificiale non costruiamo robot “già” capaci di certe funzioni. Noi creiamo le condizioni di partenza e poi li facciamo crescere, li lasciamo imparare, anche attraverso gli errori.


(A questo punto Parisi mi mostra uno sciame di robot su computer. Se ne vede un esempio nella foto qui in alto a sinistra. Sono tutti vicini l’uno all’altro, si tengono per mano e avanzano su un terreno accidentato. Uno di loro si è staccato dal gruppo. Al primo dosso, inciampa e non riesce più ad alzarsi. Gli altri, invece, rimasti in gruppo, quando uno di loro è in pericolo riescono ad aiutarlo)

I robottini che sto vedendo ora si muovono perché rispondono a qualche istinto?

Sì, devono andare in giro a cercare il cibo.


Avete scelto uno stimolo primario, comune a tutti gli esseri viventi.

E’ la base fondamentale della biologia. Mangiare e riprodursi, altrimenti si muore e ci si estingue. Vale anche per loro. Noi gli diamo il compito di cercare il cibo e poi selezioniamo quelli più bravi, quelli che allineano meglio le ruotine...


Li selezionate voi o si selezionano da soli?

In buona parte ci pensano da soli. Si selezionano quelli che si muovono meglio, che tendono a riallineare le proprie ruote a seconda delle esigenze del gruppo. Perché se uno va da una parte e un altro spinge dall’altra, finiscono per non muoversi. Invece questi qui, quando hanno un problema girano le ruote, ma poi subito si riallineano.


Una domanda interessata. Quello che vedo è un gruppo di eguali, non ci sono differenze di ruoli o di classe, diciamo. E’ sempre così?

No, sono costretto a deluderla. Quando i compiti si fanno più complessi, l’esistenza di un capo può essere necessaria. Ma con l’arrivo del capo nascono tutta una serie di complicazioni: rivalità, ribellioni, liti. E poi bisogna sempre verificare che il capo sia all’altezza del suo compito e faccia gli interessi del gruppo.


Torniamo alla psicologia fatta con la robotica. E mi spieghi meglio dove queste due discipline si incontrano.

Già i robot di oggi sono utili alla mia disciplina, ma i robot del futuro lo saranno ancora di più. Da qualche tempo infatti si parla di robot con emozioni, di robot che sognano, che pensano, che possono ammalarsi con il corpo o con la mente. Si comincia a pensare a reti neurali che non hanno solo esperienze dovute agli stimoli esterni, ma anche auto-generate al loro interno. Capaci di riprodurre quindi quella che noi chiamiamo “vita mentale”.


A che punto è la scienza nella costruzione di queste reti neurali più complesse?

Il cervello umano contiene circa 100 miliardi di neuroni, una rete neurale in media ne contiene, diciamo, cento. Eppure si possono cominciare a simulare, ad esempio, alcune malattie mentali.


Scusi, come fa a simulare una malattia psichiatrica che non ha alcun riscontro con una lesione cerebrale, con un fatto fisico?

Chi ha detto che una malattia psichiatrica, o anche uno stato di disagio psicologico non abbiano un riscontro fisico? Le sue esperienze fanno sì che il suo cervello si organizzi in un certo modo. Quando lei parla con uno psicologo o con uno psicoanalista perché ha una paura o una fobia, lei colloquiando riesce a modificare il suo cervello, cioè la sua rete neurale, in modo che quelle situazioni di paura o fobia diminuiscano. Su questa base noi possiamo iniziare a fare delle simulazioni, facendo passare il robot attraverso esperienze che negli esseri umani producono paure e fobie, magari sulla base di particolari predisposizioni genetiche, anche queste simulate.


Come è visto questo tipo di approccio dal mondo della psicologia in generale?

All’interno della comunità degli psicologi, così come degli economisti o degli storici, siamo una piccola minoranza. Perché questo tipo di approccio comporta delle novità anche molto faticose da digerire.


Siete ben visti?

Perloppiù... no. E’ una novità troppo forte, comporta cambiamenti pesanti, non sempre ben accetti.


Glielo dico in modo più schietto. Su Internet ho letto di qualcuno che la definiva uno “scienziato pazzo”. C’è chi ritiene che i robot, del presente e del futuro, debbano servire ad aiutare gli uomini, non a creare ulteriori problemi…
Un momento.


Un conto è la scienza, un conto la tecnologia e le applicazioni pratiche. E’ vero che le due cose vanno sempre più confondendosi, ma bisogna mantenere certi distinguo. La scienza si occupa della conoscenza fine a se stessa, la tecnologia delle possibili applicazioni. Delle applicazioni si occupa una comunità ben precisa, nel campo della robotica formata principalmente da ingegneri. Agli ingegneri non importa nulla se il robot ha dei disturbi psicologici. Anzi, fare un robot matto o un robot che sogna, per loro è anche nocivo, confonde le acque e in più non lo vendono a nessuno. Agli ingegneri piacciono tanto i robottini piccoli, quelli che abbiamo visto insieme sul computer, con una socialità da insetti, perché sono ricchi di possibili applicazioni. Per esempio, sono capaci di aggirarsi tra le rovine di un palazzo crollato, come le Torri Gemelle a New York. La robotica sociale è un’altra cosa e certo non ha grandi applicazioni sul mercato, ma solo per il momento. Personalmente sono interessato ad entrambe le cose. La scienza e le sue applicazioni. Ma bisogna saper tenere gli ambiti ben distinti, cosa non facile.


Lei e il suo gruppo ci riuscite?

Oggi stiamo lavorando ad alcuni progetti europei. La Comunità Europea ci dà dei soldi con un intento sostanzialmente applicativo. Del resto, il contribuente che paga le tasse non è disposto a destinarne una quota troppo alta per ricerche che hanno come obbiettivo solo la conoscenza di come è fatta la realtà. C’è quindi una forte pressione economica e politica riguardo le applicazioni della ricerca. Personalmente mi piace molto la ricerca di base. Ma penso che oggi la tecnologia sia uno dei campi in cui si esprime di più la creatività umana.


E’ vero, come si pensa comunemente, che la robotica e l’Intelligenza Artificiale finora si sono mosse a rilento rispetto alle aspettative?

Se parliamo delle aspettative teoriche, sì. Dal punto di vista della ricerca applicata invece la robotica è andata molto avanti, ed è uno dei settori in cui oggi si investe di più. Meno in Italia, molto di più in paesi come il Giappone.


Su cosa lavorano, loro?

Per quanto riguarda la robotica sociale, ad esempio, si stanno concentrando sulla “Silver engeneering”, ovvero sull’ingegneria per la terza età. I giapponesi culturalmente hanno una certa difficoltà ad interagire con gli altri. E non amano molto i lavoratori immigrati. Preferiscono insomma essere assistiti, nella vecchiaia, da un robot magari un po’ affettuoso, piuttosto che da una badante o un badante stranieri.


Forse sarebbe più auspicabile che i giapponesi imparassero ad interagire meglio con gli altri esseri umani…
Forse sì. Del resto, non solo la tecnologia, ma anche la scienza non è tutta rose e fiori. E può avere anche influenze di carattere negativo sulla società. Per esempio, la scienza tende a cancellare tutte le forme religiose, mitologiche, intuitive di conoscenza, dimensioni che invece all’essere umano servono moltissimo per far fronte all’ansia verso eventi che la scienza non riesce più di tanto a prevedere o ad impedire. Io sono uno scienziato entusiasta e materialista, ma questo non mi impedisce di giudicare la scienza anche nelle sue conseguenze negative. Purtroppo la vita è piena di conflitti.


Un modo per risolverli non potrebbe essere una maggiore vicinanza con altre discipline umane? Di questi tempi, ad esempio, si avvicinano spesso scienza e pensiero filosofico.

Sull’interdisciplinarietà sono assolutamente d’accordo. Uno dei problemi della scienza è proprio quello di essere divisa in discipline, mentre la realtà non lo è. Per quanto riguarda il rapporto con la filosofia, ho invece molti dubbi. Nel senso che i filosofi sono persone intelligenti e vale la pena di ascoltarli, ma rispetto agli scienziati fanno un altro mestiere e si muovono in modo differente. I filosofi parlano, pensano, discutono. Lo scienziato parla, pensa, discute, ma in più va a vedere se quello che pensa corrisponde alle osservazioni fatte con gli occhi e con le mani.


Eppure, in alcuni suoi scritti avevo avuto l’impressione che lei invitasse i filosofi ad entrare più a fondo nei meandri della scienza.

Non c’è bisogno di invitarli, oggi molti filosofi sono schiacciati sulla scienza. Non parlo di tutti, ovviamente. Ma soprattutto i più giovani fanno finta di essere scienziati, e finiscono per non fare più filosofia. Conviene che filosofi e scienziati si parlino, ma restino distinti. Perché la scienza è un carroarmato, uno schiacciasassi che non guarda in faccia a nessuno. E se ci si avvicina troppo, si rimane schiacciati.


Ne parla come se ci fosse da aver timore.

Io l’ho definita un carroarmato con tre cannoni: scienza, tecnologia ed economia di mercato. Una macchina impossibile da fermare, da contrastare. Distrugge ogni altra forma di conoscenza ed è responsabile della globalizzazione come occidentalizzazione delle civiltà umane. E’ bene dunque che la filosofia continui a studiare e ad elaborare su una strada separata.


Lei ha un’idea di dove ci porteranno le ricerche sulla robotica? Se dovesse fare una simulazione e dirmi quale sarà lo scenario da qui a qualche anno...

Le rispondo così. Quest’anno ricorre il 250mo anniversario della nascita di Mozart. Pochi sottolineano che è anche il 150mo della nascita di Freud. Tra le diverse cose geniali che quest’ultimo ha scritto, ce n’è una che fa al caso nostro. Freud diceva che il narcisismo, l’amor proprio umano, ha subìto, nella sua storia, tre grandi umiliazioni. La prima ci fu inferta da Copernico quando dimostrò che la Terra non era al centro dell’universo, ma solo un pianeta tra i tanti che ruotano intorno al sole. La seconda umiliazione ci è arrivata da Darwin, quando ha detto che non siamo esseri speciali ma parenti abbastanza stretti di una scimmia. La terza umiliazione ce l’ha inferta lo stesso Freud quando ci ha fatto notare che non siamo nemmeno padroni di noi stessi e della nostra mente. La robotica credo sarà una possibile quarta umiliazione. Perché quando saremo in grado di riprodurre perfettamente un essere umano in un robot, quando faremo crescere robot che parlano, che sognano, si commuovono ascoltando la musica, dovremo fare i conti con uno specchio di noi stessi fatto di materiali come plastica, ferro e magari bimolecole artificiali, e con una mente che non è altro che un insieme di neuroni e connessioni simulati. Il nostro specchio dunque sarà un assemblaggio di materie. E questo vuol dire non solo che, come dice Darwin, noi siamo simili agli animali, ma non siamo tanto diversi nemmeno da un tavolo, da una sedia o da una busta per la spesa. Se ci dovessimo arrivare, cosa che credo avverrà, sarà un bel colpo per tutti noi.



















Liberazione, 05.02.06
Darwin: Un gesto di rottura con la religione
di Patrick Tort


L’antropologia di Darwin si edifica su una base tanto chiaramente opposta alla religione - ridotta in sostanza alla credulità superstiziosa - quanto può esserlo la sua visione naturalistica del mondo. Se per la sua cultura, i suoi affetti e le sue proprie convinzioni aderisce alla morale dei Vangeli, egli sa per conto che questi non ne sono l’origine profonda e nemmeno l’espressione credibile e coerente, né il sublime fondamento. Il mito cristiano, al pari di tutti gli altri miti, è legato per sua costituzione alla metafora e all’allegoria. Il suo senso profondo è dettagliato dalla sfida che contiene, e questa sfida è civilizzatrice, quindi politica.

Nel 1871, con L’Origine dell’uomo, Darwin esplicita il ricongiungimento dell’uomo alla serie animale e, per conseguenza, l’evoluzione biologica. Compiendo il gesto indispensabile di coerenza e di completamento discorsivo che gli detta la razionalità trasformista, egli compie allo stesso tempo, dal punto di vista della Chiesa, il gesto più grave. In effetti, se la Chiesa, attraverso le sue revisioni successive, poteva integrare, a prezzo di concessioni interpretative sul dogma, il contenuto naturalista dell’Origine della specie, che riguardava espressamente solo i gruppi vegetali e animali, per contro essa non ha mai potuto spingersi fino a integrare una concezione unicamente biogenetica dell’evoluzione dell’uomo e delle manifestazioni individuali e sociali della sua coscienza, includendo naturalmente la morale, ed è ciò che sperimentiamo ancora oggi. Se lo spettro dell’immoralità congenita del darwinismo è stato brandito da tutti gli avversari cristiani di Darwin - i quali, invariabilmente, applicano alle società umane un darwinismo “bestiale” stabilito all’insegna della “legge del più forte” ignorando, e questa fu la regola dominante, la genealogia della morale e l’etica del soccorso introdotte nel 1871 -, è proprio perché l’antropologia filogenetica di Darwin racchiudeva questa teoria delle origini naturali della morale che rendeva superfluo e riduceva alla sua condizione di mito civilizzatore il racconto biblico del Decalogo, introducendo in sua vece un insieme di determinazioni immanenti perfettamente in grado di spiegare la maniera in cui si genera, evolutivamente, una morale senza obbligazioni trascendenti, una morale senza Dio.

Nell’Origine dell’uomo (1871), Darwin attribuisce in maniera logica all’azione persistente della selezione naturale il trionfo tendenziale degli istinti sociali in seno all’umanità che progredisce sulla strada della civilizzazione. Lo sviluppo degli istinti sociali - le cui manifestazioni primordiali negli animali superiori e, singolarmente, negli esseri umani sono legate alla formulazione della diade sessuale così come all’estensione crescente delle cure parentali - è accompagnato da una costellazione di conseguenze psicoaffettive e comportamentali che, con l’aumento delle capacità razionali, istituzionalizzano l’altruismo e i comportamenti di solidarietà sulla base di una simpatia sempre più diffusa. Così, mentre la simpatia dischiude i comportamenti individuali al riconoscimento dell’altro come proprio simile, facendo in tal modo regredire la legge guerresca della competizione e dell’eliminazione dei vinti, la razionalità apre in modo coestensivo i comportamenti collettivi all’invenzione di forme di organizzazione che integrano questa evoluzione morale all’universo del costume, delle istituzioni e della legge. La selezione naturale si trova in tal modo all’origine delle istanze (simpatia e ragione) la cui evoluzione congiunta, in quanto facoltà, determina la propria estenuazione come meccanismo eliminatorio, e le assicura, gradualmente e senza rottura, per mezzo di un meccanismo di rovesciamento progressivo che ho sempre paragonato alla torsione del nastro di Möbius, un nuovo trionfo evolutivo fondato non più sul vantaggio biologico ma sul vantaggio sociale. Laddove la selezione naturale elimina, la civilizzazione, essa stessa selezionata nei suoi meccanismi fondatori, protegge. Nella civilizzazione, la selezione naturale favorisce i comportamenti anti-selettivi, mentre la razionalità, essa stessa selezionata, istituisce le regole di una vita sociale da cui l’eliminazione tende a essere vantaggiosamente proscritta. La morale individuale e collettiva si trova in tal modo spiegata al di fuori di ogni riferimento a un dogma dell’obbligazione trasparente. Essa è, a un tempo, un prodotto e un operatore dell’evoluzione. Essa, è, fin dentro il suo stesso carattere normativo, la risultante di un’evoluzione congiunta di facoltà e una produttrice di regole di comportamento che si inscrivono in una tendenza evolutiva che essa contribuisce, simultaneamente, a ridefinire. Essa è un fatto dell’evoluzione umana che si teorizza in quanto tale tramite il concetto di effetto reversivo dell’evoluzione. Essa non è certamente il prodotto di una qualsiasi “filosofia” di Darwin.
da “Darwin e la filosofia. Religione, morale, materialismo” (edizioni Meltemi, pp. 96, euro 12)







Liberazione, 05.02.06
Bibbia e bandiera alla Casa Bianca
di Guido Caldiron

La prima battaglia è stata vinta nel 2002, ma la guerra scatenata negli Stati Uniti dagli avversari di Darwin è stata dichiarata già da più di mezzo secolo. Dall’ottobre del 2002 l’Ohio è diventato il primo Stato dell’Unione a stabilire che nei corsi di scienze gli studenti debbano «conoscere come gli scienziati continuino a indagare e analizzare criticamente alcuni aspetti della teoria evoluzionistica».
Nello spazio di pochi anni il cosiddetto “creazionismo”, che contrappone l’idea di una Creazione divina alle tesi evoluzionistiche di Darwin, è diventato la punta più avanzata e minacciosa del nuovo schieramento religioso integralista degli Usa. Parallelamente all’espandersi delle culture politiche dell’estrema destra oltre il proprio tradizionale bacino sociale, anche il movimento anti-evoluzionista si è esteso a tutto il paese, portando le proprie tesi fin dentro la Casa Bianca.
Ma se un tempo questa destra religiosa poteva sembrare disposta a condurre soltanto una “battaglia di idee”, che oggi l’obiettivo sia quello di imporre una nuova impronta creazionista all’educazione nazionale e alla ricerca, è fin troppo evidente. «In un distretto scolastico della contea di Cogg, Georgia, si esortano gli insegnanti a discutere le “concezioni controverse sull’evoluzione”», raccontano John Micklethwait e Adrian Wooldridge in La destra giusta, un saggio sulla destra d’oltreoceano. «I conservatori repubblicani - aggiungono i due giornalisti inglesi - sono anche riusciti a far inserire nel rapporto congressuale relativo al No Child Left Behind Act un passo in cui si invitano le scuole (pur non imponendoglielo) a insegnare «tutta la gamma delle concezioni scientifiche». Tutti indizi, a cui se ne aggiungono anche molti altri del medesimo segno, «della crescente volontà della destra di combattere contro quello che considera “l’establishment scientifico” liberal affrontandolo sul suo stesso terreno e mettendo in campo un’autonoma capacità di ricerca scientifica». Non a caso l’ultima risorsa della destra su questo terreno è rappresentata dal cosiddetto “disegno intelligente”, sorta di tentativo di spiegare in termini religiosi anche le scoperte scientifiche.
Non si deve però credere che quella contro le idee di Charles Darwin sia una crociata tra le tante lanciate dalla destra evangelica (protestante) americana nel corso degli ultimi anni. Infatti, come sottolinea Fabrizio Tonello nel suo Da Saigon a Oklahoma City. Viaggio nella nuova destra americana, «non tutti gli evangelici sono fondamentalisti: questi ultimi nacquero all’inizio del Novecento come reazione alla pubblicazione, nel 1859, della “Origine della specie” di Darwin e alla teologia progressista che accettava una lettura storica, anziché letterale, della Bibbia». Questi ambienti, scrive ancora Tonello, «presero il nome dalla pubblicazione, tra il 1910 e il 1915, dei “Fundamentals”, un “manifesto” in 12 volumi indirizzato ai cristiani che “considerano un dovere (...) battersi senza compromessi contro la teologia modernista e certe tendenze culturali laicizzanti”». Così, credere in senso letterale «al resoconto biblico della creazione del mondo, significava ovviamente condannare le teorie dell’evoluzione».
In verità fu un processo che si svolse a Dayton nel Tennessee a partire dal luglio del 1925 a segnare il vero debutto della guerra a Darwin a cui stiamo assistendo ancora oggi. «Imputato era il giovane insegnante di biologia John Thomas Scopes - spiega l’americanista Roberto Giammanco in L’immaginario al potere - Chiamato a fare una supplenza nella classe del direttore della scuola pubblica di Dayton, Scopes si era servito, per le spiegazioni, di un testo che faceva riferimento alle teorie evoluzioniste». Teorie che una legge dello stesso Tennessee aveva messo al bando. «Prima ancora che si aprissero le porte della stanzuccia in cui si riuniva il consiglio comunale, l’unica a Dayton che poteva vagamente rassomigliare a un’aula di tribunale - spiega Giammanco - il significato del processo era già chiaro. Era lo scontro tra la Bibbia e la Scimmia di Darwin».
Da questo primo episodio, le dimensioni della sfida lanciata dai fondamentalisti alle istituzioni laiche - si tratti della scuola, della ricerca scientifica, perfino della legislazione dei singoli Stati e di quella federale - non ha fatto che crescere e estendersi. «Se la destra religiosa non è riuscita a raggiungere pienamente i suoi scopi, non è certo per mancanza di convinzione, quanto piuttosto perché qualcuno ha cercato di impedirglielo - scrivono Caroline Fourest e Fiammetta Venner in Tirs croisés - Nella società americana si sono manifestati dei contro-poteri come la Corte suprema, ma anche una vera opposizione sociale formata dai movimenti femministi, gay, antirazzisti che hanno fin qui cercato di impedire che il peggio si realizzasse».
Questo mentre dall’establishment politico di Washington arrivavano segnali sempre più inquietanti. La contro-rivoluzione culturale che la destra americana ha lanciato contro le pur timide conquiste della stagione della lotta per i diritti civili degli afroamericani, del pacifismo e dei movimenti democratici e espressione delle minoranze del paese, ha infatti trovato nella stessa Casa Bianca aperti sostenitori. Secondo il sociologo francese delle religioni Sébastien Fath, autore di Dio benedica l’America e In God We Trust, gli Stati Uniti appaiono oggi come «una nazione con l’anima di una Chiesa». In particolare, sottolinea Fath, «molti osservatori rimangono perplessi davanti alla palese religiosità del presidente Bush e alla retorica manichea della sua amministrazione». Del resto, un suo illustre predecessore, Ronald Reagan, aveva annunciato già una ventina di anni fa questa deriva fondamentalista del Partito repubblicano. Nel 1983 Furio Colombo notava in Il Dio d’America come Reagan, partecipando durante la campagna elettorale del 1980 a un’assemblea di pastori evangelici e fondamentalisti a Dallas in Texas, avesse fatto alcune dichiarazioni molto nette. In una di queste si era ad esempio dichiarato apertamente «creazionista». E Colombo, nel dare conto dell’evento, sottolineava: «L’offerta di approvazione e sostegno all’assemblea significa sposare posizioni di vero e proprio integralismo. L’assemblea proponeva infatti la fine della separazione tra chiesa e stato, la sottomissione di ogni legge civile ai precetti morali derivati dalla particolare interpretazione biblica proposta dal gruppo».










Liberazione, 05.02.06
“Disegno intelligente”. Istruzioni per il non uso
di Christian de Duve
Intervento tratto da un numero speciale del settimanale francese “Nouvel Observateur” dal titolo “La Bible contre Darwin”

Non vi è alcun bisogno di concordare con la tesi della guida intelligente per riconoscere che un percorso evolutivo può essere pressoché obbligato, a dispetto del carattere aleatorio delle mutazioni genetiche soggiacenti.
Da tempi immemorabili, la vita e le sue misteriose facoltà di spontaneità, di adattamento e di diversificazione, costituiscono oggetto di ammirazione e di stupore da parte degli esseri umani. Si è ritenuto a lungo che proprietà così straordinarie non si potessero spiegare altrimenti che con l’intervento di un principio speciale, o “soffio vitale”, che animerebbe la materia costringendola a assolvere determinate funzioni o a realizzare determinati scopi, pur se in contrasto con il secondo principio della termodinamica.
I recenti progressi della biochimica hanno fatto cadere la concezione vitalistica, stabilendo che tutte le manifestazioni della vita si possono spiegare in termini rigorosamente fisici e chimici. Per altro verso, la teoria darwiniana, consolidata e precisata dalla biologia molecolare, ha reso giustizia rispetto alla visione vitalistica dell’evoluzione biologica dimostrando come le modificazioni genetiche offerte alla selezione naturale siano fenomeni puramente accidentali, completamente privi di intenzionalità. Nel corso degli ultimi anni, il finalismo e stato reintrodotto in biologia in una forma più sottile che, pur accettando le acquisizioni scientifiche e non ricorrendo esplicitamente ad alcun principio vitale, crede di dimostrare con argomenti scientifici che la vita non sarebbe mai potuta nascere, e neppure imboccare determinati percorsi evolutivi, senza il soccorso di “qualcos’altro”.
Questa teoria del cosiddetto “disegno intelligente”, sostenuta da una ristrettissima minoranza, ha avuto maggiore eco di quel che non meriti, dal momento che sembra apportare un sostegno scientifico legittimo a tutte le tendenze che, dai creazionismi e fondamentalismi più intransigenti fino alle varie filosofie cosiddette “spiritualiste”, mettono in risalto come la scienza non spieghi tutto. Si tratta di un’affermazione chiaramente difficile da contrastare, perlomeno finché la scienza non avrà spiegato tutto; essa tuttavia diventa praticabile solo dopo che si siano esauriti tutti i tentativi di spiegare ciò che ancora non si capisce.
E’ ben lungi dall’essere questo il caso della biologia. Non è, viceversa, difficile mostrare le falle presenti nelle argomentazioni avanzate in favore del disegno intelligente. Una di queste argomentazioni si basa su quella che il biochimico americano Michael J. Behe chiama “l’irriducibile complessità” di alcuni sistemi, ad esempio le reazioni a cascata che regolano la coagulazione del sangue, l’attivazione del complemento o dell’assemblaggio delle appendici motorie, ciglia e flagelli, costituiti da microtubicini. Simili sistemi, egli sostiene, non avrebbero potuto nascere senza il concorso di un’intelligenza che ne avrebbe modellato le parti in funzione di un piano prestabilito. Il biologo neozelandese Michael Denton affronta allo stesso modo alcuni eventi-chiave dell’evoluzione, ad esempio il polmone aviario, nei quali è convinto di discernere una forma di predestinazione. L’argomento non è nuovo. Già due secoli or sono, lo attestava il teologo inglese William Paley, nella sua celebre teoria dell’“orologiaio”. Comprensibile e magari valido all’epoca di Paley, quel ragionamento non lo è più ora che si conoscono i tempi lunghissimi in cui molecole e strutture hanno potuto essere assemblate e messe alla prova della selezione naturale e che si comincia a valutare i percorsi, talvolta tortuosissimi, attraverso i quali spesso l’evoluzione ha prodotto qualcosa di nuovo con qualcosa di vecchio. Un’ulteriore argomentazione, a prima vista più impressionante, si fonda sull’estrema improbabilità dei proessi da cui sono nati gli esseri viventi attuali.
Ad esempio, il matematico americano William Dembski, uno dei più eloquenti sostenitori del disegno intelligente, ha fatto proprio il classico calcolo che dimostra come le proteine occupino un posto infimo nello spazio immenso, addirittura inimmaginabile, delle possibili frequenze polipeptidiche. Secondo Dembski, quel posto non si sarebbe mai potuto raggiungere senza una guida. Un’asserzione del genere ignora la dimensione storica della nascita delle proteine, che quasi sicuramente è cominciata con molecole di piccolissima dimensione, che un gioco di combinazioni ha portato progressivamente a dimensioni maggiori. A ogni stadio del gioco, la selezione ha ridotto il numero delle molecole disponibili per la tappa successiva a una cifra compatibile con una vasta, se non esaustiva, esplorazione delle combinazioni dello stadio successivo.
Lo stesso vale per le mutazioni. Queste ultime possono benissimo essere accidentali e sprovviste di qualsiasi finalità, come dimostrano tutte le conoscenze della biologia molecolare, e portare ugualmente a un risultato “pressoché obbligato” nelle condizioni del contesto dato, grazie all’enorme numero degli individui implicati e alle lunghissime durate chiamate in causa.
Come ho fatto notare, il caso non esclude l’inevitabile. Tutto dipende dal rapporto tra il numero di occasioni di prodursi offerte a un evento perché si produca e la probabilità dell’evento stesso. Anche nella lotteria è garantito che un numero di sette cifre esca con una probabilità del 99,9% se si effettuano qualcosa come 69 milioni di estrazioni. Non si tratta della ricetta per vincere alla lotteria, ma spesso è così che si gioca la partita dell’evoluzione.
Si potrà notare come questa argomentazione sia rivolta tanto ai fautori del disegno intelligente tanto agli avversari più accaniti di questa, sostenitori della totale contingenza dei fenomeni evolutivi. La guida postulata dai primi si rivela non essere necessaria, mentre un dato percorso evolutivo può essere pressoché obbligato, a dispetto del carattere aleatorio delle mutazioni genetiche soggiacenti, contrariamente a ciò che sostengono i secondi.

Per concludere, la vita e la sua evoluzione verso la complessità sono iscritte nelle proprietà della materia e non esigono l’intervento di qualcos’altro per manifestarsi.
(Traduzione dal francese di Titti Pierini)







Liberazione, 05.02.06
Natura e società tra ideologia e scienza
di Giuseppe Prestipino

«Come Darwin mise fine alla concezione secondo la quale le specie animali e quelle vegetali non avevano nessun legame tra loro, erano prodotti del caso, “creazioni di Dio”, ed erano immutabili - e per la prima volta portò la biologia su un terreno del tutto scientifico, stabilendo la variabilità delle specie e la loro successione -, così Marx mise termine alla concezione che considerava la società come un aggregato meccanico di individui»; egli «portò la sociologia su un terreno scientifico, stabilendo il concetto di formazione economico-sociale» e analizzando il passaggio dall’una all’altra come “un processo storico-naturale”. Così scriveva V. I. Lenin in “Che cosa sono gli amici del popolo”. In questo passo sono enunciate insieme la negazione materialistica tanto del creazionismo tradizionale quanto dell’indeterminismo sedicente innovatore (che reintrodurrebbe il caso nella concezione del mondo) e la difesa incondizionata di un criterio scientifico rigoroso, la cui estensione al mondo sociale ne farebbe un processo storico-naturale non dissimile da quello scoperto da Darwin nelle mutazioni di ogni altra specie vivente. In seguito, il Lenin dei Quaderni filosofici, convertitosi al metodo dialettico, scriverà un capitolo su “Darwin e Hegel” considerando quest’ultimo, non soltanto precursore di Darwin in quanto anch’egli “monista”, ma autore di una teoria dello sviluppo “più universale” di quella darwiniana. La critica di un certo darwinismo è l’altra faccia delle “affinità elettive” dichiarate da Friedrich Engels, da Karl Marx e dai loro continuatori.
Il confronto Marx-Darwin dev’essere svolto almeno su tre piani: concezione evoluzionistica o, più rigorosamente, dialettica della storia naturale e sociale; metodo conoscitivo di matrice empirista o di tipo ipotetico-deduttivo; equiparazione tra le dinamiche della vita organica e quelle della società umana in generale o assunzione della lotta animale per selezionare il più forte come metafora applicabile soltanto alla società borghese. La prima è, per così dire, la questione “ontologica” riguardante il che cosa avviene nel processo reale. La seconda questione, epistemologica, riguarda il come si procede nella scoperta o nell’esposizione dei nostri concetti scientifici sul processo reale. La terza (la questione del “cui prodest”) è quella che può dar luogo a deformazioni ideologiche: nel caso specifico, al cosiddetto “darwinismo sociale”.
La prima questione sembrerebbe almeno in parte risolta da quando un consistente neo-darwinismo del secolo XX ha fatto propria la tesi che, nel passaggio da una specie alla successiva, “natura facit saltus”: ossia si verifica un’accelerazione improvvisa o un’improvvisa rottura di equilibri preesistenti. A questa svolta nelle scienze biologiche hanno contribuito anche fisici come I. Prigogine con la teoria delle strutture dissipative e matematici come R. Thom con la teoria delle catastrofi. Nel secolo XIX, invece, il gradualismo evoluzionistico approdava al sistema filosofico di H. Spencer, il cui positivismo ottimistico ripropone, e insieme svilisce, l’idea illuministica di progresso, trasferendola dal campo della conoscenza o da quello della “civilisation” umana al divenire cosmico. In ambito marxista, l’evoluzionismo si rifà vivo in tutti e due i secoli sotto forma, principalmente, di strategia politica per la trasformazione sociale proposta da riformisti o da socialdemocratici, a partire dal marxismo prevalente nella Seconda Internazionale e nella ricorrente polemica con l’ala rivoluzionaria dei partiti o dei movimenti operai.
La seconda questione può essere posta nei seguenti termini: è o non è procedimento epistemologico arbitrario quello che ritrasferisce negli stadi storicamente anteriori concetti derivati da uno stadio superiore? Charles Darwin, nato il 1809 e morto il 1882, suggeriva indirettamente un tale quesito sotto forma autobiografica. Durante il 1876, infatti, scrivendo la propria autobiografia, raccontava che nel 1838, pochi mesi dopo aver dato inizio alla sua ricerca sistematica, gli accadde di leggere con piacere (amusement) l’Essay on the Principle of Population dell’economista Th. R. Malthus, che lo aiutò ad approfondire in quali condizioni sfavorevoli o favorevoli si estingue una specie o si forma una specie nuova. Anche nel terzo capitolo del suo Origin of Species (1859) Darwin faceva menzione delle suggestioni ricevute dalle tesi di Malthus sulla tendenza alla crescita della popolazione in proporzioni geometriche, per la specie umana (e, s’intende, per ogni specie), qualora si giovi di condizioni favorevoli. Sui presunti debiti di Darwin nei confronti dell’economia politica contemporanea si sono svolti accesi dibattiti, ad esempio tra R. C. Lewontin e M. F. Perutz. Peraltro, potrebbero forse aver contribuito a far nascere o a consolidare le scoperte di Darwin anche alcuni impliciti richiami culturali all’hobbesiano “bellum omnium contra omnes” (che avrebbe caratterizzato lo stadio, per così dire, ferino della specie umana), oltre che le vicende della lotta di classe nell’Inghilterra del suo tempo, benché egli potesse sembrare, secondo alcuni interpreti, più attento e scontento per le persecuzioni degli indo-americani ad opera degli spagnoli. Sulla questione epistemologica è stato sufficientemente chiaro Marx, a giudizio del quale l’anatomia dell’uomo ci aiuterebbe a capire l’anatomia della scimmia. In una nota del I Libro del Capitale, Marx afferma che ricostruire la storia della formazione degli “organi produttivi” umano-sociali dovrebbe essere, a noi che ne siamo, come afferma Vico, direttamente gli autori, ancor più congeniale e accessibile che ricostruire l’evoluzione degli organi vegetali o animali avvalendosi correttamente del metodo darwiniano. Quest’affermazione è forse riconducibile al criterio che alcuni studiosi hanno definito come quello del “presupposto-posto”. Possiamo infatti constatare come Marx, non soltanto teorizzi la legittimità di rovesciare, nell’esposizione scientifica dei concetti, l’ordine di successione reale attestatoci dall’esperire storico, ma si spinga fino a sostenere che la stessa realtà si rovesci, ossia che uno stadio storicamente successivo possa sussumere caratteri presenti in forma più embrionale nello stadio antecedente o possa, in certo modo, rigenerarli a partire dalla propria superiore compiutezza storica.
Scorretta e sospetta perché ideologica nei suoi intenti riposti (e ora passiamo all’esame della terza questione) è, invece, l’operazione inversa, quella che parte dalle logiche della selezione naturale per trasferirle invariate nel mondo umano e sociale come legge di natura eterna e inamovibile, anziché limitarsi a cogliere semplici analogie con una determinata e transeunte forma sociale: quella “belluina” in quanto, appunto, borghese. Lo stesso Marx ironizza, in una lettera a Laura e Paul Lafargue del 15 febbraio 1869, osservando che Darwin ha riconosciuto tra gli animali e i vegetali la società inglese del suo tempo; e anche quando, in una lettera a Engels, dove gli comunica di aver letto il recente libro di quell’autore sulla selezione naturale trovandovi le basi di una storia della natura vista secondo la “nostra” ottica, non può astenersi dall’ironizzare sul cattivo “stile inglese” del libro. In una lettera a Kugelmann del 27 giugno 1870, Marx contesta a Oskar Lange, autore di una monumentale Storia del materialismo, di essersi fermato a considerare la “struggle for life” alla stregua di una legge generalissima, senza esaminare come essa si presenti nelle diverse forme sociali. Lenin commenterà in Materialismo ed empiriocriticismo: l’espressione di Darwin diviene in Lange una “frase vuota”. Anche Engels, che pure aveva nel dicembre 1859 segnalato per primo all’amico come “splendido” il libro di Darwin, e accosterà quest’ultimo allo stesso Marx nel necrologio pronunziato alla sua morte, Engels che non si pentirà, in L’evoluzione del socialismo dall’utopia alla scienza, di aver lodato Darwin perché capace di assestare «alla concezione metafisica della natura il colpo più vigoroso» e che, nell’Anti-Dühring attribuirà al darwinismo l’“impulso decisivo” verso la nuova scienza della natura, nondimeno cercherà, in una lettera a P. L. Lavrov del novembre 1875, di circoscrivere quelle scoperte facendo valere, anche nei comportamenti biologici competitivi o aggressivi, i simultanei rapporti di cooperazione già indicati dai materialisti classici (Vogt, Büchner, Moleschott). Ancora Engels, peraltro, tenterà di integrare la selezione darwiniana con l’adattamento haeckeliano, del quale recepirà il concetto di una finalità interna, in quanto avente origini specialmente hegeliane, più che kantiane.
Fa parte, invece, degli aneddoti messi in dubbio dalla critica, come spiega anche F. Vidoni in un’accurata monografia del 1985, la progettata dedica del Capitale, o del II Libro, a Darwin e la risposta negativa ma cortese di quest’ultimo, il quale avrebbe declinato l’offerta adducendo la sua scarsa familiarità con gli argomenti trattati in quel libro, la sua incerta conoscenza della lingua tedesca e i suoi timori per le possibili reazioni familiari contro ogni concezione anti-religiosa. In realtà, l’equivoco sarebbe sorto da uno scambio di lettere tra Edward B. Aveling (marito di una figlia di Marx) e Darwin per l’offerta, da parte dello stesso Aveling, di un libro che non doveva riuscire gradito al prudente destinatario, già messo in difficoltà per le prime voci di allarme suscitate dalle proprie teorie sui fondamenti evolutivi della vita in generale. L’allarme non cessa neppure nei giorni nostri, nei quali l’ottusa velleità di decretare un ostracismo ideologico accomuna gli opposti integralismi pseudo-religiosi nei fautori della guerra perpetua e in quelli di un terrorismo ancora tutt’altro che debellato.












Liberazione, 05.02.06
La storia di un ragazzo trentenne sfuggito ai pregiudizi e al manicomio
«Così ho vissuto legato ad un letto e così sono riuscito a slegarmi»
Luigi Attenasio* e Angelo di Gennaro**
Direttore e ** Psicologo del DSM della ASL C di Roma - Psichiatria Democratica


Questa è la storia di un ragazzo romano ricoverato per anni in un Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura e poi “slegato” da una task-force di operatori del Dipartimento di Salute Mentale della Asl C di Roma e della cooperativa sociale Aelle Il Punto. Il Dsm e i suoi operatori sono stati premiati da Cittadinanzattiva e dal Tribunale del Malato, perché grazie agli insegnamenti di Franco Basaglia e alla sua legge 180 hanno saputo liberare un paziente. Ci piace immaginare che quel giovane racconti la propria storia, sperando che un giorno lo possa fare senza più i filtri della nostra immaginazione.
«Sono nato a Roma trent’anni fa. Da quanto mi hanno lasciato intuire i miei genitori, sono stato considerato quasi subito un bambino difficile. A scuola non ho mai ottenuto risultati soddisfacenti ed ho avuto sempre bisogno di sostegni sia di tipo psicologico che sociale, e della continua presenza dei miei genitori. Senza di loro mi sentivo perso, non ero capace di fare nulla, neppure di lavarmi e vestirmi. Mi sembrava di non esistere senza di loro. Il loro accudimento e il loro contatto costante mi facevano sentire vivo sebbene bisognoso di cure e di attenzioni.
Durante le scuole elementari iniziarono le mie peregrinazioni attraverso i vari centri specializzati di neuropsichiatria infantile. Prese avvio così una catena di consigli e di definizioni sul mio stato. La psichiatria stava per manifestare fino in fondo la sua presunzione. Un medico finì per dichiarare ufficialmente che ero un bambino autistico. Io - a dire il vero - non ho mai ben capito che cosa volesse dire questa parola, ma nelle mie fantasie di bambino mi sembrava che volesse dire che “guidavo”, controllavo il comportamento degli altri. E forse tutto questo poteva essere vero. Infatti, mi sarebbe piaciuto che i miei genitori e i miei amici avessero tenuto conto un po’ di più delle mie esigenze, della mia diversità, per così dire. Del resto, non ero davvero come gli altri. Non riuscivo a capire come funzionava il mondo. Anche i contatti con i miei compagni di scuola sono stati sempre spigolosi. Mai una parola di conforto e di stima nei miei confronti. Tutto questo provocava in me un continuo e irrefrenabile senso di ribellione, perché non capivo e non accettavo quella dose massiccia di rifiuto e di incomprensione. Dopo tutto perché allontanarmi, respingermi? Finiva sempre che mi ritrovavo ai bordi, alla periferia della cosiddetta normalità, sia essa la scuola, gli amici, il mondo nella sua interezza… direi la vita. E non capivo perché. Gli anni passano, con la scuola i rapporti si interrompono.
La mia famiglia fa di tutto per aiutarmi portandomi di qua e di là in consultazione da vari medici e specialisti. Ma le cose non vanno.
Per molto tempo i miei genitori - lasciati soli dalle istituzioni e da chi dovrebbe dare aiuto - non trovano altra soluzione che legarmi al letto al fine di evitare danni a me, almeno così dicevano, alle cose e a loro stessi e soprattutto proteggermi dalla loro stessa preoccupazione. Ora li capisco. Era davvero difficile aiutarmi ed io mi sentivo veramente male, confuso, per di più avevo bisogno di mantenere viva una mia diversità, un mio modo di essere al mondo, anche al mondo periferico in cui sono cresciuto. Ciò nonostante il senso di reciproca fiducia tra me e il mondo veniva piano piano a cadere.
Le istituzioni che volta per volta mi prendevano in carico non riuscivano a curarmi, nel senso tradizionale del termine, ma tutt’al più a proteggermi da quella che io consideravo la violenza della società che mi turbava e faceva stare male. A volte credevo di aver perso tutta la mia dignità e qualsiasi diritto di vivere come gli altri. La mia vita sembrava consegnata alle istituzioni che, nonostante gli sforzi, si sentivano impotenti e inefficaci.
Per la prima volta ho avuto l’impressione che qualcosa stesse veramente cambiando quando, qualche tempo fa, mi sono visto obbligato, “legato” a vivere dentro una delle strutture ospedaliere del Dipartimento di Salute Mentale. E’ durante questo lungo periodo di costrizione che mi sono tornate in mente le parole di M. Partridge «Le malattie bizzarre possono richiedere trattamenti bizzarri, ed in psichiatria ciò è avvenuto spesso. Queste malattie si rivelano spesso così pervicaci e resistenti alla cura e mettono in luce così chiaramente l’ignoranza della loro patologia ed eziologia da suscitare reazioni aggressive nel terapeuta sconcertato e frustrato». Per me era l’ultima chance: vivere o morire. Gli operatori, accettando le mie difficoltà (un serio problema alla vista le aggrava ulteriormente) - e, potrei dire, la mia presunta miseria - mi hanno insegnato gradualmente e con fermezza che vivere in libertà è possibile, che attraversare i Servizi per la salute mentale post 180 è doloroso ma si può anche non restarne schiacciati, che immaginare il cambiamento è doveroso ma anche utile. Essi, infatti, coinvolgendo nel processo di cura anche i giovani operatori di una cooperativa sociale integrata e ribaltando il ruolo assegnato ai miei genitori (da oggetti a protagonisti della cura), hanno costruito una vera e propria impresa collettiva, dove le diverse figure professionali e familiari hanno trovato il loro posto e la loro funzione trasformativa.
Ora, sto per entrare in Comunità e benchè il mio processo di liberazione sia appena agli inizi penso di potercela fare».










Liberazione, 03.02.06
"Liberazione"
“A proposito di "preti in politica"
Roberto Giorgini, Firenze

Caro direttore, mi spiace, ma l'articolo di don Vitaliano della Sala apparso su "Liberazione" del 1 febbraio sui preti in politica che portano l'amore di Dio non riesce proprio a convincermi della bontà dell'enciclica di quella persona che molti anni fa faceva parte della gioventù hitleriana. É L'idea di amore cristiano è un precetto astratto che forse può far sentire in pace con se stesso chi ci crede ma in realtà ha come soggetti da una parte l'essere umano e dall'altra una entità divina creata dallo stesso essere umano (ma non l'aveva già detto Feuerbach tanto tempo fa?). Ritengo indispensabile che la sinistra continui a rappresentare e difendere i diritti materiali dei ceti meno abbienti, ma è altresì indispensabile acquisire una mentalità laica che permetta di impostare quella ricerca sull'amore, su quello strano essere umano così simile ma completamente diverso da me che, per me, è la donna.




Liberazione, 03.02.06
L'amore, la libertà
Marco Pizzarelli, via e-mail


Caro direttore, compro ogni giorno "Liberazione" con l'emozione e la speranza, spesso soddisfatta, di leggere qualcosa di veramente nuovo. Poi vedo l'articolo di don Vitaliano in prima pagina. Scappo, mai poi prendo coraggio e mi immergo nella lettura. É Terza pagina, un pugno allo stomaco, senza fiato resisto e leggo fino in fondo. E mi sento trascinato nei ricordi della mia infanzia, quando ero alle scuole dei preti. Tante volte ho sentito parlare, come oggi con un linguaggio che sa di esaltazione, di un amore che odora di astrattezza e di asessualità. Allora non capivo e mandavo giù tutto. Leggo di impegno sociale e politico che coinvolge ogni battezzato (come se il battesimo fosse una libera scelta e l'impegno fosse solo dei credenti), di sanità del corpo regalataci dal cristo per poter entrare nel regno dei cieli, di un cristo che si sarebbe sacrificato per noi e questo sacrificio del corpo è il velo che… soffoca la mente? Quanta violenza in questi messaggi che suscitano sensi di colpa, che ingabbiano i movimenti, che inibiscono la libertà. Riparto dalla parola libertà, quella che si associa al concetto di sanità mentale e derivante da un altrettanto sano rapporto con il diverso (ricerca che si è sviluppata su queste pagine), per invitare lei e il giornale ad approfondire il senso di questa parola. Non era l'impegno che ci eravamo presi tempo fa?
Vedrai che sulla parola libertà, tra non molto, potrai leggere su "Liberazione" parecchio materiale. Forse riusciremo anche a stupirti. Io sono convinto che la libertà sia un diritto per tutti e un dovere (raramente osservato) per i giornali. Libertà e ampiezza di opinioni. Compresa l'opinione, mai banale, di don Vitaliano.








il Messagero, 02.02.06
Il regista Carlos Reygadas parla di “Battaglia nel cielo”, pellicola-scandalo da domani nelle sale vietata ai 18
Sesso e sangue nel Messico nudo
di L. Jattarelli


«Non mi avvalgo di attori professionisti. La tecnica mi piace applicata al teatro. Dietro la macchina da presa preferisco lavorare come un fotografo: deve essere il cinema a costruire i personaggi e non viceversa». Il comandamento del trentacinquenne regista messicano Carlos Reygadas sta tutto nel suo ultimo film, Battaglia nel cielo (da domani nelle sale distribuito dalla Lucky Red con il vietato ai 18), presentato già a Cannes e bollato come “scandaloso”. I personaggi che lo popolano, Marcos e sua moglie e la giovane e sensuale Ana, sembrano quasi vecchi dagherrotipi che fanno della immobilità la loro forza, forse perché tutta interiore. Sullo sfondo di una Città del Messico, megalopoli povera che non sembra vivere ma trascinarsi in un’esistenza logora arpionata al quotidiano, lui, lei e l’altra si amano, si accoppiano, si denudano, si masturbano quasi in silenzio, senza mai gridare la propria sofferenza e solitudine. Il film si apre e si chiude con due sequenze esplicite di fellatio, protagonisti Marcos (Marcos Hernandez) e la bella e giovane Ana (Anapola Mushkadiz), scene che risultano quasi asettiche, meccaniche «perché il sesso è una parte di questo lavoro ma non il tutto. Probabilmente - ci spiega il regista sorridendo - ci sarà chi vorrà vederci solo pornografia ma cosa posso farci? La materia del porno c’è ma la forma è assai diversa. Io rappresento ciò che succede all’interno dei miei personaggi, racconto conflitti umani provocati da azioni precise che scatenano reazioni altrettanto limpide. Marcos è un criminale, insieme a sua moglie ha rapito un bambino che poi è morto. Arriverà il castigo. Ma non aspettatevi una narrazione cinematografica. Pensate ad un sogno, ad una esperienza sensoriale formata da diverse emozioni collegate tra loro». Un film di finzione costruito su materiale autentico. Colpisce comunque il fatto che Reygadas citi come pellicola ispiratrice Roma città aperta : «Anche Rossellini - dice - in quel caso stava raccontando una fiction all’interno di una cornice concreta, reale». La fisicità, in Battaglia nel cielo , sembra volutamente mortificata; all’obesità di moglie e marito fa da contrappunto la perfezione della adolescenziale Ana: «Non si tratta di mortificare o abbruttire - precisa Reygadas - ma di rappresentare la realtà. Ci hanno detto fin da bambini che non conta l’apparenza ma la sostanza, che non bisogna guardare al colore della pelle? E allora ecco che Marcos e sua moglie sono due esseri come tanti altri: brutti, grassi e il loro sudore, mentre fanno l’amore, si può quasi toccare». Rapporto carnale e metafisico, espiazione, religiosità e redenzione; c’è tutto questo in Battaglia nel cielo ma alla parola redenzione, il regista preferisce quella di «Soluzione finale ad un conflitto. Perchè io non condanno Marcos, sarà lui stesso a trovare il finale estremo».






Liberazione, 02.02.06
Laicità
Essere crocifissi oggi
Antonella Pozzi, via e-mail


Caro direttore, apprendo con sgomento dal Tg2 (mentre il Tg1 non ha neppure passato la notizia) che il giudice Luigi Tosti, che si asteneva dalle udienze chiedendo la rimozione dei crocefissi dalle aule dei tribunali, in nome di Uguaglianza e Giustizia per tutti, è stato sospeso dalle funzioni e dallo stipendio. In qualità di cittadina atea e laica, che vive come una quotidiana violenza la pesante ingerenza della Chiesa cattolica, così come la presenza dei simboli religiosi in scuole, ospedali e uffici pubblici, desidero esprimere la mia solidarietà al coraggio e alla resistenza del magistrato vittima, a mio parere, dell’attuale Stato teocratico Italia, esortandolo a sperare non soltanto nel giudizio della Corte europea, ma anche nelle prossime elezioni politiche nostrane!








Liberazione, 31.01.06
Vaticano
Par condicio in terra...
Paolo Izzo via e-mail


Caro direttore, secondo lei è auspicabile che in un prossimo futuro a qualcuno (uno a caso...) salti in mente di proporre una legge che imponga la par condicio anche alle opinioni in materia religiosa? Se ogni volta che il Vaticano si esprime sulla natura umana o sulle presunte verità divine, fosse garantito il diritto di replica alle altre confessioni, nonché agli atei, non crede che nell'odierno reality show trasmesso dai nostri tg diminuirebbero sensibilmente i collegamenti con la Casa di Ratzinger e Ruini?









Liberazione, 31.01.06
Argentina 30mila scomparsi...e la Chiesa a braccetto con i militari
Marcelo, via e-mail

Caro Sansonetti, mi ha colpito la lettera di Giancarlo del 27 gennaio a proposito dei prelati col braccio teso ("Quai prelati col braccio teso"). Nel giorno della memoria vorrei ricordare un altro genocidio ovvero quello della dittatura militare in Argentina. Com'è tristemente noto in quegli anni il terrorismo di Stato veniva sistematicamente esercitato contro "el pueblo" argentino con il risultato della sparizione e tortura di 30mila persone in 364 campi di concentramento. E' stata spazzata via una generazione di operai, di giovani ed intellettuali che volevano un Argentina diversa. Gli insegnamenti di Pio XII sono stati ben accolti dall'allora Nunzio Apostolico in argentina Monsignor Pio Laghi che era molto impegnato a frequentare l'ammiraglio Massera, responsabile della terribile Scuola di Meccanica della Armata da dove nessuno usciva vivo (6mila morti). Pio Laghi giocava a tennis quotidianamente con l'Ammiraglio, battezzava le sue nipotine e gli ha pure sposato qualche figliolo. Molto probabilmente non avevano tempo di parlare di "quell'incidente fastidioso" delle donne fatte partorire nei campi di tortura e poi gettate al Rio della Plata, dei bambini rubati, oppure dei campi di sterminio. Nelle sue famose omelie il prelato poneva sempre l'accento sulle "pericolose ideologie" che "contaminavano" i giovani. Alle disperate richieste della mia famiglia sulla mia vita, Pio Laghi allora rispose che purtroppo «non poteva fare niente». Oggi Pio Laghi frequenta il salotto di "Porta a Porta", è stato il "messaggero di pace" di Papa Woytila per convincere Bush a non attaccare l'Irak, ha sposato il figlio dei Savoia ecc. La storia si ripete o forse no?